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Vincenzo Guarracino, I demoni della speranza di Lorenzo Morandotti

Lorenzo Morandotti, I demoni della speranza, Collana Candide, Prefazione di Mario Marchisio, puntoacapo, 2022



(Da: L'immaginazione n. 335, 2023)


Dai frammenti dell’antico “oscuro” Eraclito alle massime fulminanti del nichilista novecentesco Cioran, c’è tutta una lunga teoria di tentativi di dare statuti di riconoscibilità a certe forme “brevi” e discontinue della scrittura, a seconda della loro disseminazione in campi diversi, dalla letteratura, alla retorica, alla poetica, alla stilistica, alla filosofia: campi, tutti, di un sapere che trovano delimitazione in nomi, da epigramma, adagio, apologo, epigrafe, sentenza e, ultimo ma non ultimo per importanza, aforisma. Senza entrare nel merito delle diverse forme, basti soffermarsi sull’ultima, sull’aforisma, anche per la “nobiltà” conferitagli dalla sua sempre più vasta adozione da parte degli scrittori.

Cosa si intende per aforisma? A rigore di dizionario vale come “massima, sentenza, definizione che in brevi e succose parole riassume e racchiude il risultato di considerazioni, osservazioni, esperienze”. Ma forse meglio di questa, canonica, è più efficace la definizione, di sapida concretezza lombarda, che ne dà nelle sue Note azzurre lo scrittore Carlo Dossi: “Una volta si scrivevano libri, oggi frammenti di libri. Mangiata la pagnotta non restano che le briciole”.

Briciole di sapere, dunque, gli aforismi: con un che di familiare e quotidiano, necessario, spruzzate appena di ironia, non necessariamente del prussico veleno satirico di un maestro del genere quale il viennese Karl Kraus.

È a questa schiera, di distillatori di un sapere breve e necessario, che va ascritto Lorenzo Morandotti che con i duecentocinquanta e passa aforismi de I demoni della speranza riconferma l’estro di una scrittura scabra e concentrata, volta a interrogarsi sul proprio spazio familiare e vitale, sulle parole e sui “libri”, intesi come essenza stessa del mondo.

Lorenzo Morandotti, che è nato a Milano e vive a Como, “sconta” la sua esperienza di scrittore come un’appendice della sua professione di giornalista (ha lavorato finché il foglio ha resistito al “Corriere di Como”, abbinato al “Corriere della Sera”, curandone anche l’inserto settimanale dedicato al tempo libero “Vivicomo”), guardando alla realtà, al “fuori”, da una specola privilegiata, quale è quella della letteratura (tra poesia, Respirazione, 1999, e Numerale, 2001, e prosa, Alberi Neri, 1996, con un’escursione nell’aforisma con Crani e topi, 2014): “con fatica / ma senza condizioni”, come dice in una scaglia luminosa (Arca di cedro).

Qui, in questi Demoni della speranza, a differenza della precedente raccolta Crani e topi, concentrata sui “materiali” di una fantastica maceria (il corpo, principalmente, ma anche il tempo, lo spirito) in ossequio al principio enunciato nell’esergo, Ne le perdite ancor trovo gli acquisti tratto da Apostolo Zeno, la materia è posta all’insegna di un Libro compulsato da uno Scriba lucreziano (intento a noctes vigilare serenas) per estrarne lumina, briciole luminose di un sapere “necessario”, ancorché risaputo come effimero nell’atto stesso della sua enunciazione, come giusto in apertura si rivela con la similitudine delle “foglie” che “ingialliscono” (“I libri ingialliscono come foglie. Ma cadono più in fretta”). Il tutto inscritto all’insegna di un ambiguo sentimento, a metà tra leopardiana, stoica renitenza e la “speranza” del titolo, che dà il senso di un amaro piacere da perseguire e custodire, anche a dispetto della consapevolezza del suo prezzo (“La vita è letale per definizione”, dice uno dei testi terminali più sulfurei).

Ascrivibile al genere di una duchampiana “macchina celibe”, dal dispendio energetico senz’altro scopo e fine, se non il movimento stesso e la propria dissipazione, l’aforisma indirizza così la sua attenzione sugli statuti della sua stessa esistenza e persistenza, polverizzandosi ad infinitum e lasciandosi irretire, come il mitico Ouroboròs (il Serpente-che-si-morde-la-coda), nel cortocircuito tra ostinazione di “vedere”-“guardare” (cfr. aforismi 2 e 5) e “miraggio” (cfr. il terz’ultimo “chi perde la vista guadagna un miraggio”), sapendo che non potrà che svolgersi all’infinito nelle sue stesse trame, in cui le parole la fanno da padrone e sono ricompensa di se stesse.



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