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Mauro Germani su "Il ladro. Novelle" di Georg Heym






Vi sono libri che disorientano, che cancellano ogni strada e ogni punto di riferimento, che fanno buio. È il caso di questa raccolta di sette novelle di Georg Heym (1887-1912), poeta e scrittore espressionista, la cui opera è caratterizzata  dalla relazione perturbata e perturbante tra l’Io ed il mondo, vale a dire tra una soggettività lacerata ed emarginata e la realtà, tra le pulsioni segrete e ingovernabili dell’uomo e l’ordine culturale e sociale in cui si trova inserito.

È proprio all’interno di questo contrasto, in cui l’individuo può sentirsi, di volta in volta, escluso e alienato, oppure esaltato profanatore del mondo, che si configurano le storie di Heym, tutte animate da una specie di nera dissoluzione, vissuta come una ribellione distruttiva, oppure un destino ineluttabile e funesto. E la scrittura colpisce per le sue veemenze improvvise, contraddistinte soprattutto dal pullulare di numerose similitudini (anche quattro o cinque all’interno di una pagina, o addirittura concentrate in poche righe), che scaturiscono dal testo come inflorescenze venefiche, oppure si palesano come vere e proprie scosse telluriche, che minano l’andamento classico della narrazione. Ciò che accade sulla pagina è, in fondo, ciò che l’Io affronta o subisce, in una sorta di disperato e perdente vitalismo, nella ricerca di un superamento delle angustie del reale, delle sue regole, del suo ordine ostile e incomprensibile, che annienta ed esclude.

La risposta violenta e folle di alcuni personaggi di Heym nasce da questo disagio, dalla lotta estrema (e tragicamente vana) nei confronti di un’intollerabile condizione esistenziale e di un mondo estraneo, che non si riconosce più, oppure di un’oppressione sociale (si veda la novella Il cinque ottobre). Le descrizioni allucinate degli ambienti e delle situazioni derivano da questo sguardo feroce ed emarginato, da questa profonda solitudine che non trova consolazione e sfocia sovente nella follia, nello sdoppiamento dell’Io, in una sorta di mistica rovesciata, che cerca l’assoluto in atti estremi e aggressivi, come accade nelle novelle Il pazzo e Il ladro. Nella prima la vicenda del protagonista si svolge all’insegna di una violenza liberatoria, come una riappropriazione degli istinti elementari a lungo soffocati, e si conclude in una sorta di estasi infernale («E mentre il sangue zampillava dalla ferita, gli parve di scendere finalmente sul fondo, sempre più giù, silenzioso come una piuma. Dal basso saliva una musica eterna e il suo cuore morente si aprì tremando in una beatitudine immensa»). Nella seconda novella, invece, – la più ampia della raccolta – il personaggio principale è dominato da un’ossessione religiosa, che nasce dalla convinzione dell’inutilità dell’opera di Cristo e dalla volontà di intraprendere una specifica e delirante missione contro ciò che viene ritenuto il male originario. La narrazione, tra le angosce e i conflitti del protagonista, approda a un finale apocalittico, in cui nel divampare del fuoco trionfa la «terrificante risata della morte».

Questo particolare processo di distruzione (e di autodistruzione) è presente anche nelle altre novelle. La dissezione (che rimanda un po’ al primo Benn, quello di Morgue) è una breve e agghiacciante descrizione del lavoro di alcuni medici su di un cadavere, alternata alle espressioni vitali – di amore e di sogno – rimaste misteriosamente attaccate alla carne del morto. Così come  la morte è ancora protagonista nei racconti Gionata e La nave: nel primo si narra della solitudine e della degenza ospedaliera del protagonista, destinato alla fine e a «un’oscurità orrenda», mentre nel secondo – in un’atmosfera che ricorda Edgar Allan Poe – leggiamo la cronaca del viaggio di un piccolo battello, con sette uomini a bordo, che non potrà sfuggire a una implacabile maledizione di malattia e di rovina. 

Il cupo smarrimento di queste novelle di Georg Heym è senz’altro da collegare a quella perdita di senso che non è solo emarginazione dell’Io, nel suo tormentato dissidio tra sconfitta e volontà di potenza, ma anche e soprattutto perdita di Dio, intesa come suo allontanamento o scomparsa. Come a volte accade, tuttavia, proprio nell’esasperazione del nulla, della morte e della fine, è possibile percepire un’inconscia nostalgia religiosa, un desiderio nascosto di un bene che pare irraggiungibile.

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