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Massimo Triolo su "Howl" di Allen Ginsberg

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  • 4 ore fa
  • Tempo di lettura: 11 min
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È improponibile rendere fede per intero al capolavoro di Allen Ginsberg, Howl (San Francisco 1955-56), ma tenteremo di toccarne alcuni punti. Proprio sul finire di Howl si ha un esempio ganglico della poesia di Allen Ginsberg, un testo fitto di elementi icastici, visionari e potentemente evocativi di una rabbia angelica, che fonde contenuti spirituali, culturali e psicologici attraverso uno stile frenetico e sperimentale almeno quanto potrebbe esserlo una seduta di puro Jazz. L’ultimo verso della lirica, infatti, offre una visione grottesca e sgradevole della cultura consumistica, "col cuore assoluto della poesia della vita macellato dai loro corpi buono da mangiare per mille anni". La poesia, che dovrebbe essere l’espressione della vertiginosa altitudine dell’anima, diventa qui un prodotto da consumare, icona deteriore di un sistema che mercifica tutto, anche le esperienze più pure e sacre. La "macellazione" dei corpi e delle idee diventa un atto di belluina violenza perpetrato dalla cultura della massa, che riduce l'autenticità a prodotto di consumo e con ciò nega la sua sacralità facendone un feticcio dissociato dalla dinamo stellare del suo stesso cuore battente. L’urlo tellurico di Ginsberg è quello stesso di chi è consumato nel gesto stesso di rigenerarsi, di chi più dona meno aggiunge alla dimensione sacrale del dono, non perché la sua poesia non sia massimamente dativa, ma per una impossibilità di fatto dettata da cogenze utilitaristiche e mercificanti; ma la sua spontaneità è intatta e non è semplice spontaneismo, e vorrebbe essere tumultuosa e dissennata, corriva e in lotta nel momento stesso in cui invita ad arrendersi all’amore. Perché la voce dell’amore è il più alto dei canti anche e soprattutto in un mondo che lo viola o dissangua… Ed è lì che Sacro e carne, benedizione e disfacimento, stagnazione e marginalità, viaggio randagio e scoperta, si dibattono tra la ricerca di un significato universale e la metastasi impressa nelle cellule dell’anima da una società apocrifa e seducentemente capziosa. Trascendenza e materialità, liberazione spirituale e prigionia del corpo, sono tasselli vivi di un mosaico vivo, quasi di un reticolo sinaptico dove non mancano neuroni specchio e empatia per un mondo fragile - non ancora esente da un’innocenza sacrale ma soggetta a leggi predaci - almeno quanto perduto e maledetto.

Il linguaggio, in quest’opera sorprendente, pone una distanza siderale tra sé e gli armamentari poetici tradizionali, adottando una sintassi frammentata e un flusso di coscienza da scrittura automatica che conferisce un’intensità sorgiva, immediata e spiazzante. Antitesi e paradossi descrivono fratture profonde e la complessità indistricabile intrinseca alla condizione umana. "Sognavano e facevano abissi incarnati nel Tempo & lo Spazio": Ginsberg introduce la nozione di un tempo non più lineare e oggettivo, e uno spazio plastico, resi malleabili dalla mente più poietica e dall’impulso all’immaginazione non come ritirata ma come immersione trasformatrice. L’idea di “fare abissi” sembra suggerire la capacità di scavo e rinvenimento dei più riposti “reperti” della psicologia e dell’anima umana, ma anche anche la possibilità di trasmutarle a mezzo di una percezione stellata e sanguinante che rende tutto il conflitto interno alla sofferenza di un’abbondanza d’essere frenata da leggi, convenzioni, cliché e luoghi comuni gabellati per morale salvifica e assiomatica.

Abissi incarnati nel Tempo & lo Spazio “mediante immagini contrapposte” che “intrappolavano l'arcangelo dell'anima tra due immagini visive e univano i verbi elementali e sistemavano insieme il sostantivo e il trattino della coscienza...” Qui, bruciante, v’è il tentativo di Ginsberg di superare la rigidità grammaticale e linguistica per esprimere una realtà più ardua e caotica, almeno quanto sdrucciola. La lingua si fa liquescente, fluida, eludendo strutture predefinite e asfittiche per mezzo della libera e sfrenata esternazione, cercando di intercettare una verità esule dalle regole tradizionali e sancite. L’uso dei verbi "elementali" suggerisce un ritorno alle propaggini più ime della lingua, quasi un’aspirazione a una purezza primigenia del pensiero e dell'espressione, ma che al contempo si compenetra al chiasso e alla disperazione della condizione umana.

L’arcangelo dell’anima, intrappolato tra due immagini visive, è una figura centrale. Incarna probabilmente il carattere divino e puro dell’anima, ma qui è "intrappolato", come se Ginsberg suggerisse che anche la parte più superna e sacra dell’essere umano è costretta a confrontarsi con la bruttura e le contraddizioni della realtà. La sua prigionia tra le "due immagini visive" sembra simboleggiare l’aporia di conciliare l’ideale e la realtà, la spiritualità e la carne, in un mondo che sembra non lasciare spazio per ciò che è integro, immacolato o inviolato. Questa dualità tra Sacro e profano è una delle tensioni più forti nella poesia di Ginsberg, che si manifesta continuamente attraverso le immagini di angeli e demoni, luce e ombra, purità e corruzione.

In un altro passaggio significativo, Ginsberg invoca il "Pater Omnipotens Aeterni Deus", il Dio cristiano, ma lo fa in modo tale che la sua presenza non risulta affatto rassicurante. Al contrario, la divinità appare distante, quasi indifferente, una sorta di austero padre celeste sordo al grido dell’umana vicenda e assenteista, ma che condanna e punisce… Come se l’umanità fosse condannata a vivere una vita di sofferenza senza una risposta chiara dal divino. Le immagini di "vergogna" e "ripudio" in relazione all’anima confessa suggeriscono che l’individuo, pur nel richiamo del divino, è incapace di raggiungere una vera redenzione, catafratto nella propria miseria e limitatezza. C’è una frustrazione palpabile nella poesia, una lotta tra la consapevolezza della propria fragilità e il desiderio di avvicinarsi a qualcosa di eterno e trascendente, ma senza mai esito pieno.

La condizione umana, quella dell’individuo errabondo e sofferente, prigioniero del tempo e della sua legge ineludibile è ben espressa dal "pazzo vagabondo" che schiaffeggia in volto le norme della società, ma allo stesso tempo è segnata da una sofferenza indicibile, perché dettata dallo smarrimento nella sua ricerca di significato. L’“Angelo battuto” è un emblema di dissidenza e resistenza, ma al costo enorme di dolore, corruzione e decadenza. L'immagine di questi "Angeli" frustati e  battuti da una vita che accoglie e rinnega nel medesimo cortocircuito ontologico, rimanda alla figura dell’artista, del poeta, che si estenua per salvaguardare la propria autenticità in un mondo che tende a uniformare e distruggere la creatività e l'individualità. Del resto non basta andare in Messico e mangiare peyote, o aver seguito, nel merito, le conferenze di Huxley, non basta neanche studiare Plotino, Poe, San Giovanni della Croce, “telepatia e cabala del bop”, non basta celebrare Charlie Parker decantando poesia performativa sulle sue note; e non bastano carri e carri merci da hobo dissennati e vagabondi, non basta nemmeno nascondersi in un monolocale nutrendo di prelibatezze la propria macchina morbida in avaria… Nessuno sembra esente da un guasto che compie il delitto perfetto sull’amore condiviso.

Ma la musica, e in particolare il jazz, assume un ruolo cruciale come simbolo di affrancamento e resistenza. "Si alzavano reincarnati nei vestiti spettrali del Jazz"… Qui Ginsberg sta probabilmente facendo riferimento all'aura di inquietudine e di trascendenza che il jazz rappresentava in quella congiuntura storica. Il jazz, che negli anni '50 era diventato un catalizzatore di ribellione e innovazione, spesso sfidava le convenzioni musicali e sociali, evocando un senso di liberazione ma anche di angoscia, solitudine e disorientamento. Gli "spiriti" o "fantasmi" del jazz sono quindi un modo per descrivere la musica come una forza evocativa, quasi mistica, che incarna le speranze e i disagi insanabili delle persone emarginate. In sintesi, i "vestiti spettrali" del jazz sono tali perché la musica stessa è un’alchimia che trascende la realtà come si dà nell’immediato, ma questo col miracolo di un flusso non melodico che ha molto dell’immediato e dello spontaneo,, e familiarità con una dimensione di angoscia e di esistenza sospesa tra il passato e il futuro, tra il mondo reale e quello spirituale, tra reazione e liberazione.

Howl principia però con un'invocazione devastante, una deflagrazione di disperazione e disillusione, che si muove tra il linguaggio crudo e una visuale ferocemente spietata della realtà. È un pugno allo stomaco: la "migliore generazione" è quella di chi ha vissuto una gioventù spezzata dal conformismo, dalla repressione sociale e da un'esistenza impegolata nella coazione a ripetere del consumismo e nelle guerre fratricide dettate da agende politiche di un machiavellismo moderno senza morale se non l’idea di una supremazia supposta e da trincea massimalista. E se un sistema poliziotto e violento sempre si nutre della frustrazione che genera, è vero che dietro ogni violenza essa è lì, motore preconscio che ne subisce il richiamo atavico tradotto qui nella logica dell’ordine e dell’operosità più silenti e inerti.

L’apertura è sconvolgente: le "migliori menti" sono capri espiatori di un mondo che li ha annichiliti, rovinati dalla follia sistematica e dalla routine di un sistema che asfissia la creatività e l'individualità come ultimo baluardo, ormai vacillante, di autenticità, nella società di massa. La stessa droga, che avrebbe dovuto essere un portale per una coscienza espansa e per psiconauti entusiasti di visioni d’amore cosmico, diviene “rabbiosa”; e del resto, anche gli accademici, “gli eruditi della guerra” sembrano essere incapaci di cogliere il vero messaggio di Blake (evocato nel testo) contro di essa come forza demoniaca e disumana, contro le fuliggini dell’aria e dell’anima e l’ottimizzazione di un’industria pesante che le va a braccetto.

Del resto piccoloborghesi arrampicatori, educatori muffiti e sanfedisti, ottusi e pedanti burocrati, pavloviani pedagoghi delle patrie minestre, conformisti d’ogni lignaggio con lo sguardo benedicente e la pistola a portata di Proprietà Privata, avevano fatto di ogni condotta una questione di ascesa o di caduta, radicalizzato la mediocrità, e avrebbero finito per sostituire il Vietnam a Whitman. L’identità americana da mistica era divenuta mistificazione, Patria e Famiglia messe per assoluti non correlabili da un conservatorismo bieco che serpeggiava anche nella politica più progressista; la Federazione, da garante di Pace, Libertà e Prosperità, divenne così killer seriale, alla diplomazia si preferirono le prove muscolari della guerra, la parola si fece slogan, i diritti sociali tabù; le lobby della guerra avevano trasformato la classe politica in una compagine di pupazzi cui conferire la propria voce ventriloqua... Se il pericolo è una necessità biologica, l’America lo aveva nei geni stessi della sua morale pragmatista; ma Fordismo e darwinismo sociale, aggressività in luogo di vitalismo, erano e sono una malattia... E una malattia specifica del corpo sociale a stelle e strisce, una malattia che esso stesso inoculava con la violenza o la persuasione politico-mediatica in altri corpi sociali. Ma Ginsberg non è mai un pedissequo testimone di questa crisi: lambisce l’aura del Sacro nel momento stesso in cui parla della rovina dei corpi e dell’assuefazione, droghe o convenzioni qui fa lo stesso; ed è quasi impossibile distinguere il suo ingenito entusiasmo per i bassifondi delle città e l’umanità “battuta” che si aggira in dedali, talvolta latebrosi talvolta fulgidi di visioni, vissuti con ogni fibra del corpo così come con la mente o su passi malcerti in “scarpe piene di sangue su moli coperti di neve aspettando che una porta sullo East River si aprisse su una stanza piena di vapore caldo e di oppio.” Perché c’è una America splendente e eterodiretta, da copertina patinata, ed un’America altra che langue nell’emarginazione ma non rinuncia a sollecitare fino all’esasperazione i sensi e la percezione dei fragori e delle luci urbane, da quelle delle vetrine riflesse su cataratte di vetri oscurati da piogge sabbiose, a quelle intermittenti dei semafori che creano spettri ipnagogici e che preludono, presumibilmente, a facondia poetica, filosofica e religiosa come mai si erano viste su scala popolare. In poche parole, Howl è un monumento alla crisi e alla lotta, ma anche alla bellezza della verità nuda e cruda.

Il conflitto tra il desiderio di libertà e il peso delle convenzioni si riflette in un altro passaggio cruciale di Howl: "Che schifo la società che uccide il cuore della gioventù in nome del progresso economico." Creatività e autenticità sono sacrificati sull'altare del denaro e del potere, mai così pervasivi, tangibili e intangibili nel medesimo tempo, ma sempre mortiferi e grigi, con i propri altari pagani e secolarizzati cui sacrificare pletore d’anime e corpi.

In America (1956), Ginsberg lancia un’accusa spietata alla sua patria, criticando non solo il materialismo e il razzismo, ma anche la guerra, il capitalismo e l’oppressione delle minoranze. Un passaggio chiave di questa poesia recita: "America, quando ti ho chiesto di non bombardare il Vietnam ti sei girata dall'altra parte,/America, ti ho chiesto di non mandare i miei amici a morte e mi hai risposto: NO".

Anche qui, Ginsberg affronta la questione della violenza e della guerra, che in Howl è la minaccia latente della guerra nucleare, e lo fa anche attraverso l’immagine della follia normalizzata che uccide vita e mente, calcifica i cuori e toglie luce e tatto alle dita protese dell’immaginazione.

L’aspetto della guerra e della violenza come vessilli di una società irrazionale e oppressiva non è una novità nella poesia di Ginsberg, e in questo senso Howl diventa una riscrittura di tematiche che erano già presenti nella letteratura della Beat Generation, ma con una visione ancora più radicale. La guerra, la violenza sociale e la follia diventano manifestazioni di un disagio esistenziale corale che attraversa non solo gli Stati Uniti, ma il mondo intero.

Ma se la critica sociale è uno dei punti di forza di Howl, la poesia di Ginsberg è anche, come è stato giustamente ravvisato, una strenua ricerca  di una verità più profonda e di una spiritualità che trascenda il materialismo e la rapacia di un mondo “cattivo” nel senso di prigioniero. Questo tema della spiritualità emerge prepotentemente anche in Kaddish (1961), una poesia in cui Ginsberg affronta il lutto per la madre Naomi, ma in cui la morte di questa si intreccia con riflessioni filosofiche e spirituali più ampie. Ginsberg scrive: "Madre, non so cosa dire, sono stato un figlio disonorevole, ho trascurato la tua morte, / mi ha fatto paura il tuo occhio nella morte, ma ti amo più di ogni altra cosa."

In Kaddish, la morte della madre diventa un pretesto per indagare sulla propria ricerca di un senso nell’universo. La spiritualità in Ginsberg non è mai religiosa nel senso tradizionale, ma vuole essere l’edificazione di un ponte, perlaceo come un sogno ma vero come una promessa che non si estingue, tra l’individuo e qualcosa di più grande. La morte della madre non è solo un evento personale, ma una metafora della morte dell'anima in una società che sembra non lasciare spazio che all’inautentico. In Howl, infatti, la follia stessa è un tentativo di esonero dalla realtà in un mondo che non offre più risposte significative, mentre in Kaddish Ginsberg sembra chiedersi se la spiritualità e la morte possano offrire quella risposta.

Una delle liriche più suggestive di Ginsberg che rimanda al tema della sofferenza spirituale e dell'auto-rivelazione è Sunflower Sutra (1955), dove descrive il momento in cui trova una margherita, traccia e simbolo di vita semplice in un mondo di scorie e rifiuti, in mezzo alla sporcizia di un paesaggio industriale. Il sole è messo di speranza, di un qualcosa che resiste alla corruzione del mondo. La visione di Ginsberg è quella di una spiritualità che non si piega e plasma mai sotto il peso e i limiti del mondo materiale, ma che cerca di rimanere integra. La margherita, pur essendo segnata dal degrado del paesaggio, è una forma di bellezza che emerge dalla desolazione: "Siamo le margherite dell'universo, abbiamo il potere di guarire / e resistere all'orrore della società che ci devasta".

In questo senso, Sunflower Sutra diventa una riflessione dolce e amara sulla lotta per mantenere la purezza in un mondo inquinato e adulterato. Qui, l'elemento della natura è riverbero del desiderio del poeta di sfuggire al miasma della società moderna.

Ma tornando a Howl, esso è anche un canto per coloro “che furono bruciati vivi nella loro innocente eccentricità, che furono distrutti dall’amore libero che osarono abbracciare e dalle bugie economiche che furono costretti a inghiottire". Sarebbe pleonastico aggiungere alcunché a questi versi, ma ciò che appare più nefando è il destino di chi avendo scelto di abbracciare l’amore è la prima vittima prescelta della macchina sociale: la stessa che si avvale dello sguardo benedicente di ufficianti religiosi che professano l’amore come prigione sociale o feretro nuziale e il successo (economico, cos’altro?) come segno dell’essere favoriti e prescelti da Dio nel fare grande la Nazione.

Altrove le immagini di "monolocali senza acqua calda" e di "città" autofaghe sono simboli di un ambiente che non offre speranza o rifugio, ma solo una continua esistenza in bilico tra la disperazione e l’illusione, entrambi elefantiache, entrambi facce della stessa medaglia forgiata nel sangue e nell’oppressione. E, contestualmente, la “contemplazione” del jazz rappresenta ancora un tentativo di resistenza, ma in una forma ormai dilaniata e disillusa. Ecco l’America della guerra e della prosperità, della carne da cannone e delle dilaganti sacche di povertà, di un sogno violato perché assoggettato a scopi menzogneri e ormai raccogliticci, da ciclostile politico e morale di bassa lega.

Ecco l‘America di un urlo che ancora oggi risuona, ma nell’ovatta del conformismo più bieco.

 

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