Il dialogo in poesia - tra filosofia della parola e tecnica retorica di Sergio Daniele Donati
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Parte Prima
(premessa - un breve excursus)
Si può ben dire che il dialogo in poesia mantiene tutte le caratteristiche di una forma originaria del pensiero e che, solo come esito finale, esso diviene poi genere di creazione letteraria.
Non si tratta pertanto solamente di un mero artificio ornamentale, volto a dare struttura esterna alle diverse voci che animano una composizione poetica, ma di una struttura che istituisce e rende visibile l’alterità nella sua distanza e comunicazione con il narrante.
Tesi di questo breve articolo è che la parola poetica, non sia mai pienamente “presente” a sé: essa si compie come una tensione verso un altro, che può essere un interlocutore umano, una figura simbolica, un tu radicale, la comunità, la tradizione, il trascendente o altro.
In altre parole: la parola, specie se poetica, è sempre eterodiretta, anche quando poi, per un suo accidente non giunge a nessun destinatario.
In questo il dialogo, sia esso sotteso dell’autore con un altro da sé non sempre ben definito, sia esso diretta creazione di elaborati poetici a più mani, svolge una duplice funzione:
· la creazione di un terreno fertile alla nascita di una parola poetica capace di altro da ciò che dice nelle intenzioni del/degli autore/autori
· la creazione della dinamica interna ed interiore della parola che, proprio perché eterodiretta, non può rimanere “ad libitum” immobilizzata dal legame con il suo autore.
Già l’etimologia della parola dialogo, d’altronde, lo rivela: διάλογος (dia-logos) significa “discorso che passa attraverso”, non semplicemente “parlare in due”; ποίησις (poíēsis) è “fare, creare”.
Dunque anche sul piano etimologico poíēsis, se in forma di dia-logos, è la creazione di un mondo condiviso nella circolazione della parola.
La filosofia della parola, poi, — da Platone ad Agostino, da Heidegger a Bachtin, da Gadamer a Levinas, da Derrida a Ricoeur — ha mostrato come la verità sia sempre evento relazionale e come la parola, soprattutto in poesia, istituisca un campo di senso che non coincide con i parlanti ma li trascende, creando un humus in un certo senso universale.
Nei testi sacri ebraici, ad esempio, il dialogo con Dio e con la Torah inaugura precisamente tale “realtà altra”: la rivelazione accade come relazione e dinamica, e il Midrash – forma narrativa ed ermeneutica spesso contenente spunti dialogici eccelsi – la estende come interpretazione infinita.
Platone, lo si sa, concepisce il dialogo come metodo di ricerca della verità ultima.
Nei suoi Dialoghi, la verità non è mai data, ma cercata, quindi, in un certo senso “anelata”, più un orizzonte che si sposta più noi ci muoviamo verso di essa, che un monolite statico e privo di capacità sedimentativa.
Socrate non insegna, interroga interrogandosi: la parola con lui diviene domanda, non risposta.
Il mito platonico — dalla caverna al mito di Er — è, poi, parabola (parabolé, “gettare accanto”), strumento quindi dialogico (accanto all’autore si trova sempre altro dall’autore stesso) che apre il pensiero.
La poesia eredita questa funzione: il mito come parola che interpella, che non si esaurisce.
Nei testi biblici e Midrashici, poi, il dialogo è la forma primaria, forse la più pura, della rivelazione.
Abramo dialoga con Dio (e Dio con Abramo – un Dio che qui risponde...e non lo fa sempre) in più passaggi.
La preghiera diventa quindi controversia argomentata, protoforma di ermenutica dalla struttura quasi socratica.
La profezia stessa è spesso dialogo contrastato tra vocazione e resistenza del profeta, la sapienza in confronto con l’enigma. La voce del Profeta è spesso voce si ribella sinché non ha davvero compreso, attreverso il dialogo il senso del messaggio che dovrà trasmetere.
Il Midrash, dall’ebraico darash, è pratica dialogica: il testo non è mai chiuso, ma continuamente interrogato. Moshe Idel ha mostrato come la cabala sia dialogo con l’infinito, ricerca senza fine. Aryeh Kaplan, in Meditation and Kabbalah, sottolinea che la meditazione è dialogo con la trascendenza.
Edmond Jabès, poeta esemplare del Novecento, scrive: «Ogni parola è domanda. Ogni libro è libro di domande» (Le Livre des Questions), e ogni domanda presuppone un dialogo tra richiedente e colui che dovrebbe rispondere.
Il dialogo con Dio e con la Torah crea sempre una realtà altra: essa non coincide con i dialoganti, ma li trascende.
Anche nella letteratura europea di ogni tempo troviamo ricchissimi spunti dialogici.
I trovatori ad esempio inventano il “tenso”, dialogo tra due poeti, mentre Dante costruisce la Commedia come in fondo come un profondo dialogo con le anime, con la tradizione e con Dio.
Petrarca, nel Canzoniere, dialoga con sé stesso e con Laura, in un conflitto interiore. Tasso, nell’Aminta, mette in scena il dialogo pastorale, allegoria della tensione tra natura e cultura. In età moderna Wordsworth inaugura il dialogo romantico con la natura. Leopardi, nelle Operette morali, costruisce veri e propri dialoghi filosofici. Nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia il poeta interroga la luna: «Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai, / silenziosa luna?» La parola poetica è domanda, apertura verso un interlocutore silenzioso. Goethe, nel Faust, trasforma il poema in dialogo cosmico: l’uomo e il diavolo, l’uomo e Dio, l’uomo e sé stesso.
E nel Novecento: Rilke, nelle Elegie di Duino, apre il dialogo con l’angelo: «Chi, se io gridassi, mi udirebbe dalle schiere degli angeli?» La poesia è qui dialogo con l’alterità assoluta, con l’invisibile. Celan, nella Todesfuge, mette in scena il dialogo con la morte: «La morte è un maestro venuto di Germania.» La poesia diventa resistenza del dialogo, anche dopo Auschwitz. Jabès concepisce la poesia come Midrash infinito: ogni parola è domanda, ogni libro è dialogo con l’assenza. Luzi, da ermetico, si apre al dialogo cosmico: in Nel magma la parola diventa tensione universale.
Su la poesia di Luzi vorrei qui soffermarmi un poco di più, poiché Il paesaggio di Nel magma di Mario Luzi si lega al dialogo perché diventa vera e propria scena di voci che si contendono il senso, trasformando la natura e la realtà storica in interlocutori attivi. In tale poesia (del 1963, poi ampliata nel 1966), Luzi rompe con l’ermetismo precedente e inaugura una scrittura che si presenta come polifonia di voci. I paesaggi — urbani, naturali, storici — non sono sfondi neutri, ma veri e propri luoghi dialogici, come nota la più attenta critica.
Luzi sembra percepire “(...) voci che in qualche modo cercavano di contendersi” il testo. Il paesaggio diventa quindi teatro di un confronto dialogico, almeno simbolicamente: l’io lirico non domina più, ma si lascia attraversare da forze esterne, da presenze che parlano.
In particolare, la raccolta mette in scena un rapporto nuovo tra poeta e realtà esterna: non più contemplazione solitaria, ma dialogo con un mondo che irrompe, spesso caotico, “magmatico”. La natura, la città, la storia contemporanea si presentano come interlocutori che sfidano il soggetto. Questo produce una tensione continua tra l’io e il tu, tra voce e controvoce, tra soggetto e paesaggio.
Il paesaggio di Nel magma è dunque più che teatralizzato.
Non è una semplice descrizione, ma scena ove prende corpo un dialogo, alle volte teso e sempre potente. Lo studioso Stefano Ghidinelli parla infatti di “dialogismo e teatralizzazione” come dispositivi centrali della raccolta.
Il paesaggio magmatico di Luzi è quindi spazio di dialogo con l’alterità: la natura, la storia, la comunità, il tempo. Non è contemplazione, ma confronto. La poesia diventa così un luogo in cui il mondo stesso prende parola e costringe l’io a rispondere.
Affermazione quest’ultima che, chi vi scrive, spesse volte parrebbe applicabile ad ogni produzione poetica e alle voci che la abitano e ispirano.
Sin dalle origini della poesia, il Dialogo non è solo forma interna all’opera atta a dar vita alla pluralità di voci che la abita, ma spesso diviene proprio lavoro condiviso in dialogo tra poeti
Il dialogo qui non è solo interno al testo, ma anche tra autori. I trovatori si sfidano spesso in tenzoni poetice (e canore); Gaspara Stampa risponde in versi a Collaltino di Collalto.
Più oltre, ma forse con lo stesso spirito, Goethe e Schiller intrecciano un carteggio poetico e filosofico; Celan e Bachmann costruiscono un ponte fragile tra due esistenze segnate dalla storia; Montale e Quasimodo si rispondono implicitamente nella rivalità. La cosa ultima non stupisca. È spesso del dialogo sapersi trasformare in contrasto, tenzone.
In tutti questi casi, in ogni caso, e in tantissimi altri che qui non si citano, la poesia diventa spazio comune, non proprietà di un solo autore.
Anzi, si potrebbe ben dire che diviene luogo di apertura alle infinità delle voci che contribuiscono alla nascita del poetico: quella del lettore tra le prime.
Tutto questo trova un evidente ed interessante appoggio nella storia della filosofia della parola.
[Heidegger, Bachtin, Gadamer, Levinas, Derrida, Ricoeur]
Per tutti questi autori – chi più chiaramente, chi in modo implicito – la parola riveste sempre, benché alle volte nascosta, una sua natura dialogica, forse anche una sua essenza e finalità dialogica.
Per Michail Bachtin in particolare, ad esempio, il dialogo è la condizione originaria di ogni parola: nessun enunciato è isolato, ma sempre risposta e attesa di risposta. Per Martin Heidegger, invece, il dialogo è radicato nel linguaggio come “casa dell’essere”: non è scambio comunicativo, ma apertura dell’uomo all’essere stesso.
Michail Bachtin (1895–1975) sviluppa la sua teoria del dialogo a partire dalla critica letteraria e dalla filosofia del linguaggio. Nei suoi studi su Dostoevskij (Problemi dell’opera di Dostoevskij, 1929/1963) egli definisce il romanzo come polifonico, cioè composto da una pluralità di voci autonome che non vengono mai ridotte a un’unica prospettiva.
Bachtin parla di Dialogismo: ogni parola è sempre “parola altrui”, nasce come risposta e si orienta verso un destinatario. Non esiste linguaggio monologico; anche il monologo è implicitamente dialogico perché si colloca in un contesto di voci. Resta pertanto centrale una suo discorso attorno la responsabilità e alterità: il dialogo implica un’etica della parola. L’io non può chiudersi in sé, ma deve riconoscere l’altro come interlocutore.
Bachtin mostra poi come come il dialogo si estenda alla cultura e possa ricevere l’aggettivo di - Carnevalesco: nel suo studio su Rabelais, infatti, (L’opera di Rabelais e la cultura popolare, 1965): il carnevale è spazio di voci plurali, rovesciamento e confronto.
In sintesi, per Bachtin il dialogo è la struttura fondamentale del linguaggio e della letteratura: la verità non è mai monologica, ma nasce dall’incontro di voci.
Con questo non si vuole certo negare che il dialogo rivesta anche il ruolo di mera tecnica retorica.
D’altronde già Aristotele, nella Retorica, mostra come la domanda e la risposta siano strumenti di persuasione. Platone lo usa come tecnica di confutazione. In poesia, il dialogo si manifesta come apostrofe, interrogatio, prosopopea. Dante utilizza l’apostrofe dialogica: «O frati…» (Inferno, XXVI). Leopardi impiega l’interrogatio: «Che fai tu, luna, in ciel?» (Canto notturno).
Rilke costruisce la prosopopea dell’angelo: «Chi, se io gridassi, mi udirebbe…» (Elegie di Duino). Il dialogo è tecnica di drammatizzazione: rende la poesia scena, teatro, evento. È tecnica di verità: la domanda retorica non attende risposta, ma la suscita nel lettore. Il dialogo come artificio retorico intensifica la forza della parola e la rende spesse volte più viva.



























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