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Mauro Ferrari su "Ultimo bivio" di Gianni Caccia




Dopo Ricerca (puntoacapo 2018) e Triodos (ivi 2021), Gianni Caccia propone con L’ultimo bivio (ivi 2024) il completamento di una ideale trilogia imperniata sul personaggio di Konrad Jaeger e su luoghi che spesso si rifanno alla Val Borbera. Scavando un po’ in un passato editoriale non lontano, emerge l’ambientazione quasi valborberina del racconto lungo La formula del bene e tutta la raccolta La Vallemme dentro, adesso nel catalogo puntoacapo: quasi a testimoniare l’interesse di Gianni per valli, anfratti e luoghi appartati in cui addentrarsi in cerca di qualcosa di misterioso, a metà fra realtà e fantasia...

Tre libri, a cadenza triennale, ciascuno con la formula dei tre racconti lunghi: se la serialità è importante, nelle mani di un narratore abile e coraggioso come Caccia non si fa mai gabbia, ma anzi è un potente pungolo creativo: le avventure di Jaeger, che Caccia segue negli anni, riflettono mutamenti profondi in lui e nello sfondo ben riflessi in una ambientazione autunnale, malinconica che è il tratto distintivo del libro.

Il libro si apre a uno scenario pre-apocalittico; se da un lato il protagonista è sempre caratterizzato da vezzi e manie distintive (il culto per la cultura greca, la passione per i modellini di Formula 1, il temperamento a tratti conservatore, che vediamo ad esempio in alcune uscite politicamente scorrettissime, ma spesso contraddittorio), è pur vero che L’ultimo bivio ce lo presenta alle prese con l’età matura, il pensionamento, lo scenario post-covid, e soprattutto una relazione affettiva traballante e ormai raffreddata. Lo stesso carattere di Konrad sembra più fermo, ad esempio nel mantenere il punto con fermezza, senza apparenti rimorsi, nei confronti dell’amata, in merito a sue avventure precedenti di cui lei ora chiede il conto (ad esempio nel cap. VI de Lo speciale eccentrico o nel cap. II de Il passaggio del testimone).

Konrad deve quindi confrontarsi con una realtà in disfacimento a ogni livello, che Caccia ritrae in modo sapiente a partire da non pochi spunti di attualità: in un mondo governato dalla tecnocrazia, che comunque non garantisce più alcuna efficienza, in cui la doxa (mai sostenuta da una socratica conoscenza di sé e quindi divenuta solo propaganda e gossip) ha sostituito la verità, l’unico barlume di speranza è rappresentato dai misteriosi Speciali con cui egli entra in contatto. Diventare uno di essi, o meglio accogliere l’ambiguo dono, impone un percorso di crescita non esente da problemi e crucci. Appunto, al di sotto c’è proprio Socrate, mi pare, nella lettura di Hannah Arendt: solo conoscendo se stesso, solo divenendo e comprendendo ciò che si è ci si può approcciare a una qualche forma di provvisoria verità.

 

Proprio questa riflessione porta a galla il grande motivo di interesse di questo libro, che lo trasforma in qualcosa di profondamente diverso dai due precedenti a cui accennavo: La ricerca e Triodos erano imperniate sul divertissement letterario (termine non limitativo, ma come essenza della meraviglia che ogni scrittore crea sulla pagina), e come tali erano anche rivolti a un pubblico giovane e giovanissimo; qui il fosso è saltato, e i tre racconti mostrano una profondità di pensiero ben nascosta da una superficie narrativa di stampo avventuroso: se manca quasi del tutto l’elemento della ricerca materiale, del viaggio di scoperta e rinvenimento, è perché attenzione è rivolta in modo preponderante allo sviluppo interiore, alla ricerca del sé e di qui della verità, cioè dell’essenza ultima delle cose e della realtà.

Konrad, nella sua stranezza che ce lo rende immediatamente simpatico (nel senso etimologico), è già un tipo “speciale” per quanto, come noi, ondeggi fra la normalità più banale e l’originalità più ideosincratica – proprio come tutti; per lui diventare Speciale, cioè guardiano di un luogo, creatura consapevole di un equilibrio da preservare nonostante la tempesta che si avvicina, è prendere coscienza di ciò che è, attraverso il dubbio – da esercitare sempre e comunque, come eredità di quell’amore per le “Cose antiche” nel cui segno si chiude la storia, in contrasto con almeno molte delle “cose moderne” che proprio Jaeger non digerisce, simboleggiate quasi dal suo disprezzo per la Formula 1 degli ultimi due decenni.

 

 

 

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