Liturgia della Parola 1: Avvento dei linguaggi
- almanacco
- 13 giu
- Tempo di lettura: 4 min
Riflessioni e percorso a cura di Giansalvo Pio Fortunato

Seguiamo i passi liturgici verso Gerico, ventre germogliante di risignificazione semantica. Ad Adamo, primo uomo biblico e nietzscheano, è affidata la gestazione del nuovo linguaggio: questi non deve perdersi nella nebbia del non empirico, ma ascoltare il richiamo del corpo: la casa. Quest'uomo-pastore, infatti, abita il corpo come heideggerianamente abita il linguaggio, e può adempiere alla sua missione solo reclamando questa sua originaria appartenenza (l'essere-nel-mondo). In una rinascita, in cui la parola si fa corpo perché è corpo, l'uso della sinestesia da parte del poeta diventa perentorio: al tramonto della vecchia lingua, non più adeguata a rispondere allo strepitante sentire comunicativo, l'immagine con il suo portato percettivo prende il posto dell'analisi. Officina ribollente della nuova lingua è il Lazzaretto, dove confluiscono e vengono filtrati gli umori della nuova lingua e i diseredati scalpitano in attesa del suo avvento: la loro malattia è l’aver accolto il messaggio dell'Annunciazione, in cui il Verbum si fa carne in seno alla madre, mentre i cittadini di Gerico non lo comprendono, gli resistono, e la loro sanità è incancrenimento nello spirito analitico. Questo invertimento di salute e patologia - che ricorda le prime pagine de La nascita della tragedia - fa parte dell’ineluttabile percorso della Parola. Il maestro di Gerico, infatti, sa che il riflusso è il segno dell’avvento della risignificazione e attende il giorno in cui, toccandolo con mano, potrà urlare “Il nuovo linguaggio è arrivato: Alleluja!”.
Roberta Luisa Sagliano
COLLETTA[1]
E se qualcuno arriva, pastorale, è l’uomo in affitto: ci si affaccia dalle persiane, gridando una libertà che affonda e tira giù. Siamo allevati per sostare sulla grancassa, per oleare il riverbero delle voci d’altri e non avere un soffitto che si costruisca attorno alla nostra firma. La osservi la tenerezza dei Lazaretto?
Sento ancora il vociare di quegli eremiti che si allungano – dritti – sulle folate di folla, provando la riappropriazione segnica. Tu sei il regime del miracolo. E l’altalena del mondo non ha biforcazione – o tratti di sussulto che guardino ad una scelta innovativa – e si muove nella scrittura con la carne dell’altro: la assale fino al comandamento dei farisei, per puntare alle iniziative del buio, alla legge che ti addolcisce il passo sulla trabeazione dei miracoli.
PRIMA LETTURA
In un giorno di folla e tempesta, restava il dito dell’innocente a colmarsi di fango e a ricercare il motivo non empirico: il nuovo tocco che offrisse ad Adamo una riprocreazione. Eppure le doglie costavano fatica innumerabile.
“Io so che puoi riscrivere il contenuto! Puoi farlo con l’ago e la polvere”. Mi guardavi esterrefatto, con il fiato di chi aveva corso una vita intera verso la parola giusta, verso il dinamismo che sapesse sovvertire l’immagine in luogo solenne di pensiero.
“Non puoi tessere solo per accenni. Devi andare fino in fondo: vedere come l’acqua si plasmi sulla terra. Per il vapore e la nebbia non c’è sostanza. Ricùciti nella sostanza. Ritorna a casa!”. Ed era da tempo che attendevi che saltellassi le barricate, che muovessi alla spinta finale del deserto. Ma la tua casa del verso non era pronta. Sprofondava nel cuore del determinismo, nella nominazione che desse il motto universale al mondo.
“Ed io, ora, ho un corpo che mi attende!”.
“Ma il verso non ha un corpo – rintuzzandomi le spalle – Il verso è il nome di Dio. E Dio non ha corpo!”. La fanghiglia, dove eravamo, ci caricava di nuove palpebre.
Sentivamo il corpo, immensamente.
SALMO
Diventa sussultorio
sentire la parola del sole sulla pelle
ed odorare di pianto antico,
fino a quando non sgorgherà la nuova voce:
il coro dei diseredati punta al millimetro
ed ha una pace sovrumana (del dialogo
tra le piazze infinite quanto il respiro del deserto).
Vieni, amica mia, sul tessuto dell’alba
e parla la solennità dell’oscuro, càlibra
il potenziale nella voce di carne e pietra
che è alfabeto delle origini.
Muoviti alla riprogrammazione assennata
- chiamata alla vita di un suono,
al vento arioso
che rimodella la nostra pace;
che fa la guerra, gettandosi volontariamente -
ALLELUIA
Allelu-ja Aaa-lle-lu-jaaa A-lle-e-lu-ja
Di rosa e di sangue si veste il mondo della lingua. Di rosa e di sangue la lingua si battezza
Allelu-ja Aaa-lle-lu-jaaa A-lle-e-lu-ja
VANGELO
“Se esiste una grazia infinita, è per setacciare il mondo espresso”: disse il maestro a Gerico. Gerico era un porto di luce, pur adorando le acque ed i pescherecci nell’ombra. A Gerico, i miracoli sfioravano l’aria, senza eccezionalità. Rimanevano nella voce rotta dalla nervature delle distanze. Eppure abbeveravano quelle distanze per riempirle.
Di rado, il maestro di Gerico scendeva nei fondali, dove la città diventava un glomerulo, sospingendo il lavacro della nuova comunicazione. Quando il maestro slacciava le scarpe e, nudo, sentiva con i suoi palmi che fosse tempo di cambiare respiro, affiorava sempre una colpa: i cittadini di Gerico non erano ancora guariti. La loro lingua sapeva di mattoni ordinati con la forza analitica. La loro lingua si vestiva di un proclamo serigrafico: i cenni dell’alba erano continui.
Il non affioramento, allora, era il regresso per la prova di una lingua nuova. L’affioramento già scontato, invece, era la veglia funebre perpetua; il cammino già condannato nella sua meta.
[1] Colletta è la preghiera che, liturgicamente, precede la Liturgia della Parola.
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