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Poeta? No, grazie - Le radici del disastro critico

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  • 1 giorno fa
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Intervento di Gianfranco Lauretano del 7 giugno 2025 presso il Castello di Pozzolo Formigaro


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 Due autoritratti di Pablo Picasso: il primo del 1896 e l'ultimo del 1972





1.

I danni della neoavanguardia

 

Nel 1961 la pubblicazione dell’antologia “I novissimi” a cura di Alfredo Giuliani porta a sintesi il lavoro dei poeti che già a partire dagli anni Cinquanta aveva abbracciato la poesia sperimentalista, in quella che è detta la Neoavanguardia per distinguerla dall’avanguardia storica, attiva in Europa nei primi decenni del Novecento (in Italia i futuristi, ad esempio). L’introduzione del curatore dice: “Io credo si debba interpretare la «novità» anzitutto come un risoluto allontanamento da quei modi alquanto frusti e spesso gravati di pedagogia i quali perpetuano il cosiddetto Novecento mentre ritengono di rovesciarlo con la meccanica dei «contenuti»”; ognuno dei novissimi invece “ha coltivato senza pietismi la propria capacità di contatto con le forme linguistiche della realtà”. I precedenti “Lirici nuovi”, individuati nell’antologia di Luciano Anceschi, erano “preziosi, ariosi, antieloquenti, pudicamente patetici, sembravano vivere una misteriosa e intensa vita privata in un mondo tutto emblematico e sensitivo”. Ma, aggiunge, sono “finiti i tempi del benessere stilistico”, per cui “tra i «nuovi» e i «novissimi» non c’è continuità. La coerenza sta nell’essere passati in tempo dall’esercizio ormai inaridito di uno «stile» alle avventurose ricerche e proposte di una «scrittura» più impersonale e più estensiva. Il famoso «sperimentalismo»”. Non a caso Edoardo Sanguineti, uno dei novissimi, afferma che il suo stile è non avere stile.

Da una parte si rifiuta il Novecento dal punto di vista dei contenuti, etichettati rapidamente di “intimismo”, dall’altra dello stile, con un attacco alla poetica della tradizione, dato che “tutta la lingua tende oggi a divenire una merce”. Non sempre ci sarà coerenza tra questo manifesto di poetica e le opere di poesia del gruppo, ma sicuramente la sua poesia è avanguardia, in senso cronologico, di ciò che stava arrivando: il Sessantotto, i tempi della denuncia, dello schieramento, della rottamazione della tradizione (inizia un periodo in cui in libreria sarà quasi impossibile trovare traduzioni dei classici), dei modi delle assemblee, di quello che veniva chiamato il “movimento”, studentesco e non. In questo senso la poesia è stata davvero all’avanguardia, anticipando forme e linguaggi che erano nell’aria. Il taglio con la tradizione è dunque netto: “Sempre più ridimensionate dalla critica più attrezzata ed éngagé, figure simboliche come Ungaretti o Quasimodo finiscono, esagerando un po’, per diventare fenomeni buoni solo per Istituti di Cultura italiana e Società Dante Alighieri nel mondo, o per sempre più anacronistici temi di maturità” (Andrea Afribo).

La coerenza con le premesse ha però nei neoavanguardisti una scarsa tenuta. Contraddicendo l’avversità ai contenuti e soprattutto all’io, già nel 1964 Edoardo Sanguineti pubblica Triperuno, una raccolta in cui “recupera in modo sempre più plenario la dimensione privata, la propria biografia, cominciando a trasformare i suoi testi in annotazioni di viaggio e di vita” (Daniele Piccini). Si macchia di crepuscolarismo chi ha marchiato la poesia italiana della stessa colpa. Allo stesso modo Elio Pagliarani mai abbandona la vena narrativa della sua poesia, assieme allo stesso Giuliani e ad Antonio Porta, certo più gelidi e spersonalizzati.

È però la ribellione rispetto allo stile che conduce il gruppo a produrre testi di non durevole qualità; più che di una operazione letteraria, infatti, ci si trova di fronte ad una di tipo politico, dato che lo strumento da attraversare è la lingua della società capitalistica e borghese dei consumi. Viene qui fuori un’altra delle molteplici e persino teorizzate contraddizioni del gruppo, il rapporto con la lingua: “neppure condividiamo la nevrotica, indiscriminante paura di taluni per la lingua comune contemporanea”. La definizione di lingua comune rimane però vaga, una indeterminatezza – vera e propria trascuratezza teorica – che porta gli sperimentalisti a produrre testi assurdi, illeggibili perché ripetitivi e tediosi, auto-centrati in un proprio privato sperimentare che infatti non ha alcun effetto contro il nemico sociale della lingua mercificata, anzi. Si tratta, come ha più volte sottolineato Milo De Angelis dei “giochini delle avanguardie, i passatempi, i lasciatemi divertire, l’enigmistica della poesia che caratterizza il gruppo ‘63”. Nello stesso Sanguineti il dispositivo ludico e autoreferenziale è costante.

 

 

 

2

Esperienza e stile

 

 

Come afferma Salvatore Ritrovato, la poesia è l’espressione di un’esperienza umana coniugata tenendo conto di un antecedente letterario. Nel creare si sperimenta così la lingua con un unico obiettivo: arrivare alla forma più aderente possibile a quella esperienza. Il compito è immane, ma non così fallimentare come ci hanno raccontato i filosofi post-moderni francesi. Si deve accettare la parzialità della resa, ma il gioco vale la candela, perché in gioco non è lo statuto della poesia –problema da perditempo – ma dell’uomo stesso.

Per trovare lo stile più adatto, perché di questo si tratta, si passa dal confronto con la tradizione e la contemporaneità dello stile. Solo i teorici pretenziosi possono pensare di ideare uno stile come se fossero i primi: ciò che fanno i Novissimi. È inoltre presunzione ignorare che uno stile è instabile perché, semplicemente, lo è l’esperienza. Sanguineti ci ha seppellito di poesie monostilizzate, pur essendosi rivolto a esperienze diverse, che hanno toccato, lo ripetiamo, perfino lati personali, privati, crepuscolari. La stabilità dello stile è il manierismo che porta a una posizione di comodo: risolto il problema, si può scrivere comodamente e in abbondanza di tutto.

Ecco infatti uno dei problemi della poesia italiana di oggi: l’inflazione. Non dei poeti (dove sarebbe il problema nel fatto che esistano molte persone capaci di scrivere buona poesia?), il troppo sta da un’altra parte: i libri eccedenti che sfornano tanti singoli, accomodati in uno stile fissato e mai più messo in crisi. Ciò vale particolarmente per coloro che hanno trovato una forma facilmente smerciabile, come Franco Arminio, Mariangela Gualtieri e, ancor prima, Alda Merini (per non citare altri prodotti brutalmente commerciali di questi tempi), autori totemici per gli spaesati e diseducati lettori di oggi. Ma vale anche per quegli autori che, iniziando nella faglia editoriale apertasi negli anni Settanta (e otturandola e rovinandola) continuano a propinare libri pensando di non dover più trovare lo stile adeguato all’esperienza, forse perché l’esperienza è diventata debole o, come avrebbe detto Pasolini, borghese. È il caso da decenni delle “passioni fredde” di Maurizio Cucchi e della facilità stilistica di Valerio Magrelli dal secondo libro a oggi. Retrocedendo nel tempo, si può dire lo stesso persino dei classici del Novecento (certo non di Vittorio Sereni, anche in questo maestro e guida), persino di Mario Luzi, a tratti verboso in certe raccolte della terra di mezzo, anche se gli si perdona l’eccesso vedendo che nei primi anni Novanta, cioè praticamente ottantenne, scrive Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini, il capolavoro della poesia italiana di fine secolo.

 

 

3.

Un’avanguardia piena di nei

 

Come ormai tutti sanno, il mantra critico dominante è quello della frantumazione: impossibilità di definire il canone poetico degli ultimi cinquant’anni, di distinguere valore e disvalore delle opere, autori e bluff. L’impasse critico va avanti dagli anni Settanta, da quando il panorama della poesia è stato liricamente definito “astro esploso” da Alfonso Berardinelli ne Il pubblico della poesia del 1975 (immagine che piacque ad Anceschi, il quale la usò subito dopo). Un esempio:

 

Dalla metà degli anni Settanta la scena della poesia italiana contemporanea viene rappresentata come un ambiente frantumato, caotico, privo di caratteri veramente unitari. Il fenomeno critico si consolida negli anni Ottanta e si rafforza in seguito: da un lato quasi tutte le analisi sistematiche disponibili insistono sulla impossibilità di una efficace sistematizzazione; dall’altro molte delle antologie più recenti si rifanno o a canoni esplicitamente e spesso orgogliosamente policentrici, o a visioni scorciate ed ostentatamente parziali, soprattutto quando si descrive la situazione degli ultimi decenni (Gianluigi Simonetti, La letteratura circostante, Il Mulino, 2021).

 

Si noti come la situazione attuale venga fatta risalire proprio a quegli anni Settanta che vedono l’esplosione, in senso critico, della neoavanguardia, il cui apogeo e, insieme, atto esiziale può essere considerato non un libro di poesie, ma un’antologia, Poesia italiana del Novecento di Edoardo Sanguineti del 1969: strana opera, in cui vengono antologizzati autori come Vallini, l’amico di goliardia di Gozzano, e mancano totalmente – in un volume curato da un comunista! – le autrici di poesia del secolo. Insomma, l’atto di maggiore ufficializzazione della neoavanguardia è la sua fine, e non è un atto di poesia, ma di critica. D’altronde basta notare come l’antologia I novissimi rechi in copertina un brano critico e non poetico, com’è invece consuetudine per la “collana bianca” di Einaudi che la ospita, frutto di uno strano paradosso.

Andrea Inglese afferma che “fino agli anni Novanta esistevano poeti che esplicitamente […] si rifacevano alla tradizione delle avanguardie storiche e anche alla pratica contemporanea dei neoavanguardisti loro padri”, ma poi la caduta di “un insieme di istituzioni letterarie (riviste, critici che lavoravano in ambito universitario, festival e incontri pubblici…)”, ha generato quello che Inglese chiama il vuoto. Tanto che, per riprendere Simonetti, “al vuoto di ascolto e riconoscimento appartiene, tra l’altro, la freddezza con cui alcuni ex Novissimi osservano, a partire dagli anni Zero, il formarsi di possibili neo-neoavanguardie” (difficile sottrarsi all’effetto comico di questa proliferazione di “neo”).

In conclusione, lo sperimentalismo non solo ha tranciato ogni rapporto con la tradizione del Novecento, ma non è riuscito neppure a diventare tradizione a sè stesso, nonostante i figli e nipoti abbiano occupato la maggioranza dei posti istituzionali: l’accademia, le esangui terze pagine e inserti letterari dei quotidiani, i festival e i premi, compreso lo Strega Poesia, lanciato sul mercato come un prodotto di consumo, i siti letterarî sulla rete.

 

 

4.

I testucoli di Cortellessa

 

Immagino cosa direbbe Franco Fortini dei testi di Alessandra Carnaroli ospitati nella collana “bianca” Einaudi. Basta uno dei titoli (Non si tocca la frutta nei supermercati però i culi nelle metropolitane) per capire la categoria a cui appartengono. Li si menziona perché li sponsorizza la critica erede di quella nontradizione che discende dall’antologia di Alfredo Giuliani. Ecco cosa ne dice, ad esempio, Andrea Cortellessa: “…questa scrittura – forse l’unica, oggi, a farlo davvero – ci prende. Coglie nel segno, cioè, usando i segni – pochi, pochissimi, quelli indispensabili – che ci definiscono, ci profilano, ci «fanno la foto» […] soprattutto perché quella di Carnaroli, per dirla col vecchio e insuperato Bachtin, è una parola costitutivamente polifonica: cioè intimamente plurale”. Usare Bachtin per corroborare Carnaroli è davvero un avvitamento inspiegabile, che però chiarisce improvvisamente la situazione.

L’attuale irrilevanza sociale della poesia non è causata dall’avvento delle tivù commerciali (Guido Mazzoni), dai social invasivi, dal consumismo, dall’incapacità della scuola… Il disastro critico attuale è il vero colpevole dell’esplosione dell’astro poetico, e le radici stanno in quegli anni e nei poeti e critici che ci hanno traghettato. Ecco alcune caratteristiche:

- logorrea critica, astrazione, intellettualismo (difetti imparentati alle interminabili e velleitarie discussioni assembleari sessantottine che avevano, come visto, il corrispettivo nelle conferenze collettive del gruppo ’63, peraltro abbastanza estraneo al ’68. La trafila generazionale è smottata prestissimo);

- affermazioni vanagloriose, parolaie, ridondanti, mentali (di cui era affetto in verità anche Pasolini, con la sua bulimica necessità di scrivere, discutere, polemizzare) che abbiamo visto riversarsi persino sulle opere di poesia anche lontane dai Novissimi, affette anch’esse da logorrea (“versorrea”, secondo l’originale conio di Massimo Morasso);

-incapacità cronica e arresa di valutazione del valore, causa e conseguenza insieme della “frantumazione”, per cui ci siamo ritrovati a dover prendere in considerazione come poeti Ottonieri o Baino, Pugno o perfino, appunto, Carnaroli;

- l’inettitudine a letture che vadano in profondità, umanistiche, anche pedagogiche (altra maledizione scagliata da Giuliani) storiche, politiche perché no, cioè di rapporto reale con il mondo, in favore di una lettura solo orizzontale, tecnicistica, al massimo ideologica;

- l’iperfetazione citazionista, segnacolo sia di insicurezza culturale che di boria accademica, (Sanguineti ad esempio, il quale adoperava Adorno per introdurre i suoi testucoli che andava a leggere ai concerti con Elio e le Storie Tese); difficile dire a quale lettore sia rivolto il libro di Cortellessa su Zanzotto, per dirne uno.

Potrebbero essere ricordati numerosissimi esempi: rimaniamo ad Andrea Cortellessa che su un quotidiano parla di un grande scrittore russo d’inizio Novecento, cioè del grande periodo umanista della letteratura russa, in questi termini: “… come nei libri ai loro tempi popolarissimi di Dimitri Merezkovskij (oggi rivalutato, si capisce, in quanto fasciocomunista pre-putiniano)”. Purtroppo solo i pochi che conoscono davvero Merezkovskij possono cogliere nel brano la prosopopea accademia, l’inabilità a capire il valore, il citazionismo a vanvera, lo strumentale e ideologico testa a coda di un’affermazione che mette assurdamente in relazione dati così inconciliabili e lontani nel tempo.

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