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Romano Morelli, La poesia, i poeti e la fine dell'Antropocene. Una riflessione.

Come umanità occidentale, abbiamo lanciato il pianeta dentro un tempo ignoto e infido, del quale sappiamo solo che è popolato da molteplici pericoli nascosti e sconosciuti, potenzialmente fatali. Le ultime località ancora riconoscibili, per quanto già mostruosamente deformate, che ci siamo lasciati indietro in questo partire si chiamano Auschwitz e Nagasaki, e non fanno presagire nulla di buono.


Abbiamo messo in moto un meccanismo che non riusciamo più a controllare e che ci sta conducendo sempre più velocemente verso gli esiti estremi della logica totalizzante dell'ottimizzazione, della massimizzazione del profitto. In questo senso siamo quindi usciti ormai dall'Antropocene cioè da quella famosa Epoca della Tecnica in cui sembrava (e al momento era veramente così) che l'essere umano (occidentale) sarebbe riuscito - e riusciva - a modificare la natura in profondità per farne quello che voleva, ma il cui scopo ultimo era il dominio e lo sfruttamento.


Oggi lo scopo si è creato i propri mezzi. Chiunque voglia vedere sa bene che quel meccanismo che abbiamo avviato da almeno tre secoli è ormai divenuto autosufficiente, autoreplicante, autoreferenziale: macchine costruiscono macchine, procedure generano procedure, protocolli lanciano strategie che individuano i propri obiettivi. Un meccanismo del quale noi siamo stati i creatori, ma che ora ci ha presi in ostaggio - noi, inermi apprendisti stregoni -, ci controlla, ci usa e ci consuma, mentre avanza travolgente e inarrestabile nel compimento della sua logica capitalistica.

Anche ammettendo - di fronte all'annichilimento del nostro habitat, al depauperamento del pianeta, alla rapina, al saccheggio, allo stupro della natura, alla dormiente catastrofe nucleare - di volerlo fermare, oggi non ne saremmo tecnicamente più capaci, non ne avremmo i mezzi. Non solo: ciò richiederebbe una capacità di pensarne la necessità, una percezione del pericolo, una coscienza, che palesemente non siamo più in grado di concepire, almeno non in una massa critica tale da far cambiare direzione al tutto.


La poesia in tutto ciò non ha alcun peso, come nessun peso ha mai avuto nella storia, e a maggior ragione dal Settecento in poi, da quando cioè è diventata totalmente, costitutivamente, disperatamente marginale, inutile e gratuita nel nuovo mondo dell'efficienza tecnica asservita al capitale. Ma proprio nel suo essere fuori dai giochi, fuori da ogni forma di potere - da sempre, ma ancor più drammaticamente oggi - viene alla luce la sua forza, la ragione del suo essere.

Questa posizione totalmente altra rispetto alla storia, se da una parte ribadisce l'ineffettualità della poesia rispetto alla concretezza irreversibile dei processi storici, ne conferma per contro la piena e assoluta libertà di visione, e i poeti, in quanto custodi del linguaggio, depositari e testimoni dell'abitare umano nel tempo, dovrebbero saperne approfittare per adempiere oggi fino in fondo - eroicamente, tragicamente - alla vocazione che è la loro e che solo ne giustifica l'esistere, consapevoli che ciò che resta lo fondano i poeti.

I poeti, oggi, devono saper incidere nel linguaggio, con ostinazione, senza deflettere, la verità della follia suicida e inumana di questa corsa ultima in cui ci lasciamo trascinare, e far immaginare, con crudezza e senza tregue, quanto è nero e senza speranze l'orizzonte verso cui il nostro essere umani si sta dirigendo.


Questa poesia, la poesia che si vuole vigile testimone di questo destino, la poesia che forgia e torce il linguaggio per farne la coscienza bruciante, estrema della nostra condizione attuale, all'uscita dall'Antropocene, è la poesia di cui abbiamo bisogno, l'unica che abbia un valore, un senso, l'unica che sia degna di essere scritta.

Quindi, quando mi pongo la domanda su come sta oggi la poesia, a cosa serve, scruto la risposta nel silenzio in cui si annuncia la fine del mondo.




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