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Oreste Bonvicini, Se fossi Montaigne (racconto inedito)


Da molti giorni Guido non parlava. Viveva quel periodo dell’esistenza che, assolti per anni i compiti del quotidiano usato, dà spazio alle passioni. E tanta sembrava la sua tranquillità quando lo osservavo intento al tavolo delle carte o a calcolare la traiettoria della biglia sul panno verde del biliardo. Ora qualcuno potrà obbiettare che nulla di tutto ciò può diventare soggetto per un racconto, giacché l’incipit rivela una condizione di stanca acquiescenza della realtà, ovvero trae spunto, tentando di sbanalizzarla, esclusivamente dalla quotidianità. Ma non è forse vero che altrettanto hanno fatto la letteratura ed il cinema nel Novecento? Fu durante una sera particolarmente piovosa che, attento al nostro silenzioso interrogarci, Guido si alzò dal tavolo da gioco e, fatti due passi davanti alla vetrina rigata dalla pioggia, decise di riavvicinarsi a noi. Fu come riscoprire un’amicizia che sapevamo solo sopita, intervallo per raccogliere le idee e stupirci forse o solo accrescere l’attesa per una nuova rivelazione. Tralasciando ogni preambolo, come se avesse letto nei nostri pensieri e sapesse quanto ci tormentasse il suo comportamento, prese a parlarci della solitudine che si può vivere pur restando in mezzo a molti. Come accadeva in fondo durante le ore trascorse al bar, compiutamente assorto nel gioco, fossero le carte od il biliardo, lontano da ogni impegno e assolutamente conscio di non vivere condizionato, né con la necessità di andare oltre le semplici apparenze che, i comportamenti, lasciano travisare a chi ci vive accanto.

Travolti dal suo fluente ma pacato conversare, ci collocammo in silenzio ad ascoltare. Non bisogna darsi pena se le cose del mondo vanno per la loro strada, con o senza di noi. Ed altrettanto credo si debba comprendere che la solitudine può essere ovunque, anche in mezzo ad una moltitudine vociante, ma dove ognuno grida per se, dimenticando come solo un obiettivo comune rende onore agli uomini. Se fossi Montaigne, affermerei che, “raggiunta una certa età, ovvero dopo aver dato il meglio di noi, alla vita attiva, al lavoro, con tutta l’anima, avremmo ben diritto a dedicarci esclusivamente ai nostri interessi, siano arti nobili e morali o prosaiche attività manuali. Potremmo così prepararci per tempo al viaggio estremo a cui tutti saremo chiamati. E ogni giorno godere delle cose semplici che la natura ci regala. Ora i tempi sono mutati e tralasciare le cose della vita è arduo, quasi impossibile. Travolti dal vortice degli eventi, la realtà ci porta via mentre avremmo desiderio di riflettere su quanto realizzato un attimo, un passo prima che l’età matura volga alla vecchiaia, verso la fine degli umani affanni.” (1) Perché, dice Montaigne, “la meditazione sulla morte è meditazione sulla libertà. Chi ha imparato morire ha disimparato a servire. Il saper morire ci affranca da ogni soggezione e costrizione. Cicerone affermava che filosofare è prepararsi alla morte perché lo studio e la contemplazione traggono in certa misura la nostra anima fuori di noi e la occupano separatamente dal corpo: questo può apparire sembianza di morte.” (2)


Ricordo anni fa quando, durante i miei viaggi, mi capitò di incontrare più volte un poeta di cui non vi rivelerò il nome, allora dedito alla poesia civile. Egli cercava una forma plausibile che non fosse in aperto contrasto con le affermazioni che Platone mette sulle labbra di Socrate nel Fedone. Nel tempo in cui lo conobbi dunque, stava tentando di mettere in versi un testamento letterario. E ci riuscì in parte con raccolta che gli consigliai di intitolare Curriculum mortis. Allora mi accollai l’onere di ogni demerito per l’insuccesso che avrebbe potuto conseguirne, ma il poeta, pur accettando il mio suggerimento, non la pubblicò mai. L’ultima sera che passammo insieme, ragionando del tempo trascorso che mai più avremmo potuto mutare né con le parole, né con i fatti o le sole intenzioni, mi disse: “ Si sopravvive tra un pasto e l’altro, frugale a volte, sovente raffazzonato, con avanzi del giorno passato. Si sopravvive e si pensa ad altro.” Per un istante mi parve ci fossimo dati appuntamento, anni e anni addietro, per condividere, in quel momento, i nostri fallimenti. Null’altro in una disperazione che sapeva di morte, ascoltando il nostro sangue pulsare nelle vene e salire dal cuore alla mente. Quali pensieri ci nutriranno ancora? dissi piano, tra me e me, quasi temessi una replica, giustificazione delle sconfitte che attraversano la nostra vita, trascorsa eppure talvolta non vissuta? Era la paura per la morte che spingeva a tali affermazioni o solo il timore per la sofferenza che anticipa la fine?


Negli epigrammi di Marziale si legge: Morire per la paura di morire, non è forse follia? Scriveva Erasmo che “La strada che porta alla morte è più dura della morte in sé. E se uno si libera dell’orrore del pensiero della morte, si libera della maggior parte del male. In breve, tutto quello che c’è di doloroso quando si è malati e quando si sta morendo, diventa molto più tollerabile se uno si abbandona totalmente alla volontà divina.” (3) Altrettando concreto il pensiero di Leopardi, nello Zibaldone, quando affermava che se gli antichi, vivendo, non temevano la morte, i moderni non vivendo, la temono maggiormente e tanto più la vita dell’uomo è simile alla morte, tanto più la morte è temuta, fuggita, quasi ci spaventasse sempre e più la prossimità con quanto abbiamo lungamente in vita contemplato. (4) Oppure, citando Seneca, vi ricordo che non cadiamo tutto ad un tratto nella morte, ma ci avviciniamo ad essa gradualmente. “Moriamo infatti ogni giorno. Ogni giorno ci viene sottratta una parte della vita, e quando ancora cresciamo, la vita decresce. Abbiamo perduto l’infanzia, poi la fanciullezza, poi la giovinezza. Tutto il tempo trascorso fino ad ieri è perduto; anche la giornata che stiamo vivendo, la dividiamo con la morte. Come non è il cadere dell’ultima goccia d’acqua che svuota la clessidra, ma tutta quella scesa prima, così l’ultima ora nella quale cessiamo di esistere non è la sola che provoca la morte, ma è la sola che le da compimento; vi giungiamo in quel momento, ma da lungo tempo vi eravamo avviati.” (5)

Seguendo con naturalezza il nesso logico di tutte queste citazioni, Guido prese a parlare tanto in generale quanto in particolare di una condizione a lui ben nota, vivendola eppure mai confessando l’angoscia che lo turbava. Vi capiterà certi di incontrare durante la vostra esistenza, persone attive, abili nei mestieri, di grande buonsenso, con attitudini pratiche e di elevato profilo morale. Vi capiterà di perderle di vista per qualche tempo e poi, rincontrandole dopo anni, che per taluni potrebbero sembrare un lasso di tempo brevissimo se intensamente vissuto, scoprire quanto della loro vita sia scappato via, tanto rapidamente quanto i malesseri prendono ad allignare in noi e ci consumano.. E si convive con il dolore, con la privazione e tanto ci eleva nella capacità di sopportare quanto più devastante è il male che affligge. Ma il dolore non ha corpo e misura, quando lotta alcuna lo può affrontare, ridurre, vincere, se non in rari casi. Per quanto, quando ritroveremo quegli uomini che così forti avevamo conosciuto, scopriremo che anche la loro espressione è mutata, e sul volto poco o nulla permane di quello sguardo che rammenta ciò che essi furono in passato. Sopravvivono in noi per ciò che della loro vita abbiamo conosciuto, ma quand’anche fossero in grado di ricordare la nostra antica amicizia, che mai in realtà si è spenta, ma solo sopita, nulla di quel passato sarà ancora possibile. Ecco, questo è il male che più temo, perché non ci ruba il corpo, o parte di esso del quale in fondo, possiamo fare a meno, bensì la mente, proiettando le nostre sensazioni in un cono d’ombra sotto l’egida del quale si dipana l’estremo atto della nostra esistenza, svelando gli aspetti reconditi dell’istintività che ci rimanda al tempo primitivo dell’evoluzione. La macchina perfetta e grande del nostro cervello infine si esaurisce..” –


A questo punto Guido tacque e ci parve ancora più denso il silenzio sceso tra noi, quasi fossimo tutti non solo attenti, ma altresì completamente consci della profondità delle sue riflessioni, mi parve importante intervenire per spezzare quell’atmosfera dove ognuno poteva illudersi di negare o confutare in parte quelle stesse tesi, temendo insomma di esorcizzare la paura che avevano scatenato in molti, soprattutto in chi presume di essere indenne dalla realtà solo evitando di pensarla. E fu la mia citazione, questa volta, a creare l’occasione di un nuovo intervento, perché quando affermai di Petrarca “Né filosofi, né poeti potranno saziare il sapere quando sentiremo vicino il tempo dell’addio”, si levò una voce che sempre taceva durante le nostre serate o solo raramente svelava una recondita attitudine al versificare breve, quasi sentenzioso: … citarla con il suo nome è l’esorcismo estremo: non il timore insidia, bensì il dolore che l’annuncia.”


Tornammo a casa, quella sera, sotto una pioggia ancora insistente, simile a quest’epoca di uggiosa incertezza che stiamo vivendo e non solo subendo. Ci accompagnò come il destino che spetta a chi osa, con coraggio e onestà, sfidare le forze avverse. Ed infatti scoprimmo le strade ingombre di detriti e di alberi sradicati come sempre accade quando i fiumi strappano gli argini per riaprire i corsi antichi che mani umane avverse ed il tempo costrinsero a diversa rotta, e trascinano a valle tutto ciò che in quei frangenti, inopinatamente, cade in acqua. Ma volgendo al cielo lo sguardo, Guido disse che presto le stelle sarebbero tornate a splendere, specialmente quelle che più attirano la nostra attenzione, le costellazioni, in cui crediamo di riconoscere forme geometriche note o antropomorfe, come se il creato fosse disegnato dalla nostra fantasia, e la nostra esistenza replica dell’universo. Fino alla fine ci ostiniamo a cercare un segno del nostro passaggio, per lasciare un segno nel firmamento dimenticando che siamo polvere e cenere nel vento di questo piccolo pianeta. Non è la paura della morte che più ci angoscia, ma quella per la solitudine che si trasforma in una insopportabile sofferenza. La morte è l’atto estremo che libera da questa sofferenza che ci attanaglia e vincola ogni istante della nostra caducità d’essere soli tra le cose del mondo, mentre le nostre forze dovrebbero volgersi alla fede, estrema ratio. - Detto ciò, giunto sotto casa, lo vidi allontanarsi stringendosi nelle spalle, quasi avesse volontariamente concluso il suo racconto per mettere in luce quanto già in noi, anche in quel momento in cui sembrava vano ogni sforzo intellettuale. Non si voltò nemmeno per un saluto, benché sapessi il suo un arrivederci e non un addio.


Poche settimane dopo ricevetti una lettera di cui riporto solo la parte più significativa: “Noi moriamo continuamente”, affermava Francesco Petrarca nella lettera a Philippe de Cabassole. “Noi moriamo continuamente, io mentre scrivo queste cose, tu mentre le leggi, gli altri mentre le udiranno o non le udiranno; e io morirò mentre tu leggerai queste pagine, tu stai morendo mentre io le scrivo; moriamo ambedue, tutti moriamo e mai viviamo mentre siamo quaggiù se non quando, compiendo qualcosa di virtuoso, ci apriamo la strada a quella vera vita dove, al contrario, nessuno muore mai, tutti vivono e sempre vivranno....” (6) L'assillo della caducità del viver breve si riflette sulle azioni dell'uomo. Egli vive nel desiderio di conoscere, apprendere quanto più gli sarà concesso. Tuttavia è destino che nulla possa superare la barriera del tempo. L’erba che al mattino fiorisce e si rinnova e la sera cade, indurisce e secca, definisce l'umana caducità dell'essere nei salmi. È così che il compito del letterato si rivela nel momento in cui si fa tramite nella storia per il futuro. Dilata con la sua opera la durata degli avvenimenti di un tempo che non è più, ci tramanda, in un autobiografismo celato nella finzione letteraria, le asperità del proprio carattere, le debolezze, il suo volto che, come dinanzi ad uno specchio, riflette altresì l’immagine del tempo in cui ha vissuto. Il letterato consegna la storia in un tempo virtualmente infinito, “ordinando” inoltre i suoi racconti con la cronologia degli accadimenti trascorsi. Ma la fede supera ogni terrena impresa e Dio entra nella realtà umana quando comprende che senza il suo aiuto, l’umanità non potrà salvarsi. Attraverso Cristo realizza quel tramite necessario tra umano e sovrumano per amore di un’umanità diversamente perduta. Cristo entra nella storia dell’uomo per redimerlo, per salvarlo. Dio storicizza la sua posizione che, da puramente sovrannaturale, si mostra in tutta la sua forze e valica il confine tra possibile ed impossibile secondo il nostro pensiero, e fa del divino la storia stessa dell’umanità, supera le mitologie imperanti da secoli, il credo popolare, le divinità legate al mondo terreno della natura, caduche perciò mortali, e rende immortale il cammino dell’uomo, sempre se questi accetterà di seguire la parola di Cristo. Ogni giorno parla agli uomini, ogni giorno un esempio, una parola, un monito affinché non siano solo i giorni deputati alla festa quelli destinati a ricordare e portare una divinità in mezzo agli uomini, ma ogni giorno, ogni ora del giorno, possa ricordare, con un gesto, un segno, una parola, la parola di Dio. Non si deve attendere il tempo sacro per rigenerare la condizione terrena, o per inseguire il mito della prima volta, ma regolare il tempo di ogni giorno sul pensiero che volge all’infinito, che fa della vita umana e terrena un passaggio volto esclusivamente a ciò che verrà oltre la vita e oltre la morte, nella vita eterna.


La grazia ci sorride. Ma è anche il dono che secondo Agostino, non meritiamo... perché ci confrontiamo con il passato e rifuggiamo il presente. È questa una verità. La rapidità del presente dove tutto consuma: una bulimia angosciante di vaga conoscenza o fuga dai perché che atterriscono e sviliscono il raziocinio. Il tutto deve divenire passato per essere compreso, analizzato, rivissuto e perciò falsificato? Certi della nostra insicurezza subiamo le ombre della ragione, scemando la luce del tempo, in questa modernità che ci insegna a correre, velocizzare le nostre azioni, senza domandarci oltre, in nome di un’economia che domina e detta legge, nel nome del profitto, della produttività della competitività dei mercati, come scienza e credo, come unica forma di salvezza dichiarata, mentre si svela giorno dopo giorno, strumento del nostro abbruttimento. Viviamo l’ansia per il tempo perduto, irrecuperabile, scoprendo nel contempo la nostra incapacità comunicare tale malessere, vivendo uno accanto all’altro nell’indifferenza reciproca, eppure accomunati nello stesso dolore….” Leggendo le sue parole mi sovvenne un pensiero di Paolo a cui, da allora, cerco strenuamente di tenere fede: “non guardiamo alle cose visibile, ma alle invisibili, perché le visibili sono per un momento, le invisibili per l’eternità” (7)



Note


1 Montaigne, Essais, Libro I cap. XXXIX

2 c.s. Essais, Libro I cap. XX

3 Erasmo da Rotterdam Colloquia, I funerali

4 Giacomo Leopardi, Zibaldone, 3031

5 Seneca, Lettere 24,19-20

6 Francesco Petrarca, in Familiares, libro XXIV - I “de inextimabili fuga temporis”

7 Paolo, Epistole, II ai Corinzi, 4,18



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