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#pietredifiume - aprile 2024

Premiopoli e dintorni

Una riflessione con tanti virgolettati

Mauro Ferrari







 

 

Una serena riflessione su quanto sta accadendo nel recinto della poesia italiana (caso mai stesse accadendo qualcosa di significativo) non può prescindere da alcuni punti da sempre al centro di dibattiti, discussioni e polemiche: 1) la creazione dei cataloghi; 2) le antologie; 3) i premi letterari.

 

 

La creazione dei cataloghi

 

Possiamo raccontarcela come vogliamo, ma è il punto centrale per quei poeti che attendono per anni la “chiamata”, con attivismo più o meno fervido e che va dall’attesa passiva (“Qualcuno mi inviterà”) al più indecente sgomitare (“Per l’anima dove si firma?”). Quello che deve essere chiaro (e non lo è) è che per i marchi della “grande” editoria (per intenderci, quella che per la poesia non fa nulla e nemmeno paga le quote di iscrizione ai Premi) non esiste un comitato che selezioni i testi “giunti in redazione” e nemmeno un meccanismo di invito più o meno standard, né quindi una programmazione Del resto, solo per visionare (non si dica leggere) migliaia di proposte occorrerebbe un vero e ampio staff, che non esiste, ma soprattutto una minima possibilità di guadagno per i libri selezionati (e per “minima” si intende rapportata alle aspettative di un grosso marchio): con le vendite che aleggiano intorno alle (poche) centinaia di copie a titolo, l’utile per certe corazzate è risibile o inesistente, specie se valutassimo anche i mostruosi costi fissi di un grande editore, che vanno suddivisi per i titoli annui (cosa che ben pochi considerano). Per non dimenticare quanto sia fané anche il “prestigio” della poesia...

Evito, non per viltà ma per evitare polemiche, di soffermarmi su quale sia l’effettivo meccanismo di scelta...

 

 

Le antologie

 

Se la presenza in un buon catalogo è un passo spesso essenziale, l’inserimento in antologie “di prestigio” appare una conferma importante. È però chiaro che oggi nessuna antologia (indipendentemente dalla serietà dell’approccio) può avere il crisma dell’ufficialità: del resto, certi pessimi lavori antologici hanno complicato ogni possibilità di seria mappatura critica, aggiungendo nomi come fossero elenchi telefonici, o facendo sì scelte ristrette, ma secondo logiche perverse. Su cui glisso questa volta per viltà.  Questo non vuol dire che manchino le buone antologie: ci sono, e a volte sono strumenti utili – anche se non si vede quale dovrebbe essere il destinatario. Qui basta riflettere con una minima idea della situazione delle vendite per capire: oggi non ha molto senso mappare un territorio che comunque nessuno è interessato a visitare se non gli abitanti, che già lo conoscono...

Crediamo forse che, al di là di casi sporadici, qualche nuovo lettore utilizzi una qualunque antologia (anche di quelle più “ufficiali”) per approfondire la realtà italiana? Qualche insegnante, magari, o un giovane poeta curioso? Un lettore casuale e virtuoso? E crediamo forse che l’inserimento in una supposta antologia di prestigio decida – al di là dei tempi limitati della cronaca – della canonicità (ecco la parola) dell’autore?

La poesia è sparita dai radar, e ciò che ad esempio accade nella scuola (fatte salve lodevoli eccezioni che non smuovono la situazione, ma anzi la ribadiscono) non fa che confermarlo: la poesia è ferma al primo Montale, e dalla generazione del 1910 in poi tutto è nebbia: hic sunt leones. E le polemiche fanno solo capire all’esterno (caso mai qualcosa uscisse dal nostro recinto) quanto questo sia popolato da “donnole che combattono in un buco”.

 

 

I premi letterari

 

Immaginiamo la nascita di un “grande” premio letterario, con imponenti canoni di ufficialità, giuria di prestigio più o meno (più) allineata ai poteri forti dell’editoria, con la componente irrinunciabilmente “democratica” (sì, sto usando molte virgolette) della giuria popolare, e magari la partecipazione straordinaria di una o più autorità, indubitabilmente affezionate alla poesia (virgolette soppresse per autocensura). Aggiungiamoci comunque per buon peso premiazioni spettacolari con soubrette, acrobati e nani danzanti, ricchi premi e cotillons. Ecco confezionato qualcosa per cui lottare, l’obbiettivo di una vita! Vincere un concorso che sancisca finalmente il giusto valore, e faccia rodere il fegato a tutti gli altri.

Ma domandiamoci serenamente: queste sono garanzie sufficienti per incidere sul presente della poesia? Per definire o confermare o lo status di un poeta? (Nel caso, è comunque facile mostrare che il re è nudo, che è tutta una montatura ecc.).

 

E quindi?

 

La realtà è che anche questa multiforme distribuzione di cioccolata e patacche non smuove nulla: se è vero che i valori sono (inutilmente) sanciti da una quasi inafferrabile élite mascherata (editori? critici compiacenti? poeti mafiosi?) è vero che a nessuno interessa davvero. Come se la poesia fosse spettacolarizzabile, come se nel passato qualche poeta (non so, Foscolo, Leopardi, Pascoli, Montale, gente così) avesse avuto davvero bisogno di tali “riconoscimenti”! Accidenti, chissà come avranno fatto senza comparsate in tv, senza premi letterari, senza critica accademica, senza antologie o quasi... Non è che forse bastavano il plauso della comunità dei poeti, il riconoscimento di una intellighenzia che la poesia la conosceva e la leggeva anche grazie alla scuola e il parco incoraggiamento del poeta sodale  e magari, sì, lettore serio? Non è utopia: questa è stata la normalità fino alla rottura fatale, fino al momento in cui, allentatisi sempre più i legami fra la poesia e l’episteme (sotterranei e invisibili, ma sempre forti) lo strappo è stato consumato e la poesia è stata trasferita in cantina.

Quindi: dovremmo smettere? Continuare come atto testimoniale? Sperare in un improbabile cambiamento?

 

Io sono fermamente convinto (perché altrimenti nulla avrebbe più senso, nemmeno una stupida eroica battaglia di retroguardia) che nel fondo della mente dei poeti autentici (e ce ne sono decine, forse centinaia) alberghi una onesta idea dei veri valori letterari, cioè di ciò che resta detratti tutti gli elementi volatili: il valore dei libri in sé, intendo, ripulito da ogni contingenza e disponibili alla nuda lettura.

Quello che è andato perso, in noi poeti, è il senso della misura. E non intendo la solo serena consapevolezza del proprio livello oggettivo (qualunque esso sia, attenzione, ben sapendo che non è veramente sancito da nessuno) bensì la consapevolezza che stiamo pensando in sedicesimo; che guardiamo il dito (il selfie con il poeta “famoso”, la recensione, la patacca, l’antologia nata morta, la pergamena, la traduzione in urdu, la saletta “non troppo deserta”) e perdiamo di vista la luna: dobbiamo invece chiederci cosa resterà davvero.

 

“Penso continuamente a quelli che furono davvero grandi”, disse Stephen Spender, un poeta non grandissimo ma che almeno scrisse questo verso, a cui dovremmo pensare più spesso, perché, caso mai avesse senso, è l’unica cosa da fare – non so dire una soluzione.

 

Specie oggi, mentre forse le bombe si preparano a cadere.

 

 




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