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Luigi Picchi su John Keats, Fammi lezione, Musa, a cura di Francesco Dalessandro

John Keats Fammi lezione, Musa, a cura di Francesco Dalessandro, Associazione Culturale Contatti, Genova 2021, pp. 180, s.p.



L’Associazione Culturale Contatti di Genova ha recentemente pubblicato nella riuscitissima traduzione di Francesco Dalessandro una raccolta di poesie di John Keats. L’antologia ha un titolo suggestivo: Fammi lezione, Musa. Oltre ai sonetti più celebri, a quelli per l’amata Fanny, è presente pure la ballata La Belle Dame sans Merci, breve storia di un sortilegio amoroso: «Nella sera labbra orride e vuote / vidi ammonirmi spalancate / e mi svegliai, mi trovai gettato / sul pendio del colle ghiacciato». Nella premessa Francesco Rognoni, oltre a illustrare il ruolo fondamentale delle traduzioni nell’ispirazione e nella produzione di Keats, che, pur sprovvisto di studi classici, seppe essere il più intriso di poesia classica tra i romantici inglesi, fa notare come Keats sia spesso mal tradotto in italiano. L’interpretazione di Dalessandro (che tra l’altro ha già al suo attivo diverse traduzioni dall’inglese: Elizabeth Barret Browning, Byron, Hopkins, Wallance Stevens, oltre ad una precedente traduzione dallo stesso Keats, Sull’indolenza e altre odi) apre invece una nuova e convincente prospettiva. Per comprendere l’operazione felice attuata dal traduttore romano bisogna conoscere altresì la sua produzione personale poetica con cui sembra filtrare il discorso del poeta inglese conferendogli, dopo un’opportuna fase di decantazione, un’energia moderna che lo rende leggibilissimo e particolarmente pregnante. Rognoni individua nella tecnica dell’inarcatura e nel retaggio bertolucciano la cifra di questa magia. Pertanto il prefatore suggerisce anche se con cautela, di leggere queste traduzioni come una sorta di romanzo in versi visto che una delle opere più significative di Dalessandro è proprio un romanzo in poesia (L’Osservatorio). Leggiamo ora per farci un’idea dell’ottimo lavoro svolto dal traduttore uno dei sonetti più celebri quello il cui incipit dà il titolo al famoso film della Campion (2009) e che nella sua interezza infine lo chiude: «Fulgida stella, fossi saldo anch’io / come te, non appeso in solitario splendore / nella notte, a vegliare con occhi sbarrati / in eterno, un insonne paziente eremita / della natura, le acque fluenti nel lavacro / sacerdotale dei terrestri lidi umani, / o a fissare la nuova maschera di neve / soffice posata su montagne e brughiere - / no – ma saldo e immutabile per riposare / sul seno fiorente del caro mio amore / e sentirne per sempre il soave palpitare, / per sempre desto in dolce tumulto, / ancora e ancora udirne il tenero respiro, / così vivere sempre, o in deliquio morire».


Luigi Picchi



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