Giancarlo Baroni, La faticosa necessità della scrittura
D’altra parte gli scrittori stessi hanno sempre dimostrato un interesse vivissimo per le testimonianze di altri scrittori, per i loro diari, taccuini, carteggi e scritti teorici, e oggi sempre di più anche per tutto quello che contribuisce a svelare ‘le segrete cose della loro fucina’.
(Ingeborg Bachmann, Letteratura come utopia)
«Cammino, gesticolando e gorgogliando appena, senza parole quasi: ora rallento il passo per non turbare il gorgoglìo, ora grugnisco più in fretta al ritmo dei miei versi. Così si pialla e prende forma il ritmo, fondamento di ogni opera poetica, ch’esso percorre tutto come un rimbombo. A poco a poco dal rimbombo si comincia a estrarre le parole. Alcune parole fanno semplicemente uno scarto e svaniscono per sempre; altre invece indugiano, girano e rigirano decine di volte, fino a che non si sente che la parola ha trovato il suo posto… Quando l’essenziale è ormai pronto, si ha di colpo la sensazione che il ritmo sia spezzato: manca una sillaba, un suono. Si rifanno allora tutte le parole, e il lavoro vi precipita in una condizione di delirio esasperato. Quasi vi applicassero, per la centesima volta, su un dente una corona che non vuole reggere! Alla fine, dopo cento riprove, va a posto! La somiglianza è per me aggravata dal fatto che, quando infine la corona va a posto, i miei occhi stillano lacrime…di dolore e di conforto», scrive nel 1926, in Come far versi, Vladimir Majakovskij. Siamo un poco stupiti, in lui ci saremmo aspettati furori ideologici anziché stilistici, un’attenzione acuta al ritmo della vita piuttosto che a quello del verso. Ma, a prescindere dai nostri pregiudizi e aspettative, egli descrive esemplarmente, con precisione e intensità, la concentrazione e lo sforzo occorrenti per scrivere, e ritrae l’attività del poeta come tanto difficile, gravosa e totalizzante da possedere risvolti maniacali e dolorosi. «Una rima che stai per afferrare per la coda, ma di cui ancora non disponi», confida ulteriormente Majakovskij, «ti avvelena l’esistenza: si parla senza sapere quel che si dice, si mangia senza sapere quel che si mangia e non si dorme perché la rima sembra volteggiare dinanzi agli occhi».
Le dichiarazioni precedenti sulla pesantezza di scrivere rinviano a quelle, addirittura più afflitte, che Gustave Flaubert, paragonato da Conrad ad «una specie di santo eremita delle lettere», faceva epistolarmente all’intima amica Louise Colet. Ottobre 1847, notte di sabato, ore 2: «Lo stile, che è una cosa che mi sta a cuore, mi tende orribilmente i nervi, mi stizzisco, mi rodo. Ci sono giorni in cui ci sto male e la notte ne ho la febbre…Che strana mania quella di passare la vita a consumarsi su delle parole, e a sudare tutto il giorno per cesellare dei periodi. Ci sono volte, è vero, in cui si gode enormemente, ma con quanti scoraggiamenti e amarezze non si paga quel piacere!». Ottobre 1847, giovedì sera: «L’idea mi impaccia, la forma mi resiste. A mano a mano che studio lo stile mi accorgo di quanto poco lo conosca e a volte ne sono così intimamente scoraggiato da esser tentato di lasciar lì tutto e di mettermi a fare cose più facili…Oh! povera amica se potessi assistere a quel che succede dentro di me avresti pietà di me, nel vedere le umiliazioni che mi fanno subire gli aggettivi e le offese di cui mi coprono i "che" relativi». La letteratura gli procura insomma sofferenza e tensione e, ammette, «pesa molto di più di tutte le malattie del mondo».
Le confessioni flaubertiane a loro volta rimandano a quelle, ancora più tormentate e dolenti, affidate da Franz Kafka ai suoi diari. Ora folgoranti: «Salterò dentro la mia novella, anche se ciò dovesse tagliarmi il viso» scrive il 15 novembre 1910. Ora invece analitiche e dettagliate: «La condanna», spiega, «l’ho scritta nella notte fra il 22 e il 23 [settembre 1912], dalle dieci di sera alle sei del mattino, in un fiato. Non riuscivo quasi a ritirare di sotto alla scrivania le gambe irrigidite dallo star seduto. Sforzo spaventevole e gioia di veder svolgersi davanti a me la narrazione e di procedere navigando in un mare. Più volte portai questa notte il mio peso sulle spalle… Soltanto così si può scrivere, con una così completa apertura del corpo e dell’anima. La mattina a letto. Occhi sempre chiari».
Con Kafka ci inoltriamo nei territori magmatici e misteriosi della colpa, della diversità e della malattia intesa non più solo in un senso fisico e psicologico ma simbolico. Caratteristiche che appartengono anche al vasto universo letterario manniano, con la sua profonda, complessa e contraddittoria riflessione sull’arte e sull’artista. Tonio Kroger, che rappresenta il tipo di scrittore solitario e distaccato ma sinceramente innamorato della gente comune, in un momento di sconforto esclama: «La letteratura non è affatto una vocazione; è una maledizione…».
In Poesia triste alla poesia, Vittorio Bodini spiega delusioni e turbamenti dell’artista: «Poesia, struggenti inchieste / sulla verità dell’essere, / scegliemmo la tua scorciatoia. / Non ci ha portati lontano, / no davvero. / Sì, qualche volta l’ebrezza / d’esser vicini a qualcosa / ma in che rari momenti / e a che prezzo / d’insofferenze, di rotture / d’ogni più delicata trama d’affetti! / Odio financo il delicato verde dell’estate / che attornia le mie finestre. / Venga la mano di chi so e liberi / dall’angoscia i miei risvegli».
Lo statunitense Thomas Wolfe in Storia di un romanzo confida che «scrivere è stato per diversi anni l’aspetto essenziale, il più coinvolgente della mia vita e mi è costato lo sforzo, la fatica, l’incertezza e la sofferenza più forte che io abbia mai conosciuto». A proposito della vocazione letteraria Mario Vargas Llosa, in Lettere a un aspirante romanziere, avverte: «È una dedizione esclusiva ed escludente, una priorità a cui non si può anteporre nulla».
Per la verità, non sempre le posizioni risultano così netti e radicali; l’argomento viene trattato anche in maniera più rilassata e distesa. In Come far versi, poche pagine prima dei due brani già citati, Majakovskij riferisce un aneddoto divertente, con cui ironizza sui tic e sulle proprie manie di poeta: «Nel ’13, di ritorno da Saratov a Mosca, per fornire le prove dell’onestà delle mie intenzioni a un’occasionale compagna di viaggio, dissi che non ero un uomo ma una nuvola in pantaloni. Detto questo, pensai che l’espressione mi sarebbe servita in seguito, e che forse sarebbe stata ripetuta, logorata. Sconvolto, per una buona mezz’ora interrogai perfidamente la ragazza, e ritornai in me solo quando mi convinsi che le mie parole le erano entrate da un orecchio per uscire dall'altro. Due anni più tardi la “nuvola in pantaloni” mi servì per intitolare un intero poema».
Joseph Conrad, nell’autobiografia Una cronaca personale, descrive, con un misto di umorismo e di sgomento, le impressioni provate durante la visita inattesa di una zitella petulante e invadente, sua vicina di casa e figlia di un generale. Con risolutezza, a passo di marcia, la donna entra nello studio proprio mentre lo scrittore è sprofondato nella stesura dei capitoli finali di Nostromo, romanzo che lo tiene occupato interamente da quasi due anni. «”Come state?” Era il saluto della figlia del generale», racconta Conrad. «Nulla avevo udito - né fruscio, né rumore di passi. Avevo solo provato un attimo prima come una premonizione di male…e poi ecco il suono della voce e lo stridore come di una terribile caduta da grande altezza - una caduta, diciamo, dalla più alta fra le nuvole che galleggiavano in dolce processione nella debole bava di vento di quel pomeriggio di luglio. Mi alzai rapidamente, s’intende; in altre parole, saltai su dalla mia sedia attonito e intontito, con tutti i nervi vibranti per il dolore d’esser sradicato da un mondo e scagliato giù in un altro…”Come state? Non volete accomodarvi?” Questo è quanto le dissi».
Ne L’isola lacustre, Ezra Pound scherza con arguzia sul faticoso lavoro di scrittore: «O Dio, o Venere, o Mercurio, protettore dei ladri, / Prestatemi una piccola tabaccheria, / o avviatemi in un mestiere qualsiasi / Purché non sia questo maledetto mestiere di scrittore / in cui bisogna sempre spremersi il cervello».
George Orwell, nel saggio Perché scrivo, individua quattro motivi: la vanità e l’ambizione, il piacere estetico e formale, l’interesse storico, il fine politico. Letteratura è descrizione della realtà, ricerca della verità dei fatti, comunicazione di idee, denuncia di falsità e scelleratezze ma anche bellezza e ritmicità delle frasi, limpidezza dello stile. «Tutti gli scrittori sono vanitosi, egoisti e indolenti e al fondo delle loro ragioni c’è un mistero», conclude Orwell. «Scrivere un libro è una lotta orribile ed estenuante, come un lungo periodo di dolorosa malattia. Non bisognerebbe mai intraprendere una attività del genere a meno di non essere guidati da un qualche demone incomprensibile al quale non si può resistere. Per quel che se ne sa, tale demone è semplicemente lo stesso istinto che fa strepitare un bambino allo scopo di richiamare l’attenzione. E, tuttavia, è anche vero che non è possibile scrivere qualcosa di leggibile se non si lotta costantemente per tenere in disparte la propria personalità, dato che la buona prosa è trasparente come il vetro di una finestra».
La letteratura è faticosa e insieme necessaria, probabilmente diventa faticosa perché necessaria. Se la si considera un valore autentico e un bene indispensabile, se si ritiene che abbia a che vedere con la morale, la conoscenza, la bellezza, e che mantenga un legame indefinibile con la verità e la perfezione, allora dedizione, disciplina e sacrificio sono inevitabili. «Esiste in Europa una scuola di spiriti… in cui ci si è abituati a fondere insieme i concetti di artista e di pensatore…L’artista di questo genere», precisa con la consueta maestria Thomas Mann in Bilse e io, «… vuol conoscere e rappresentare: conoscere in profondità e rappresentare in bellezza». Secondo Orwell, lo scrittore scrupoloso ha l’obbligo, mentre compone, di porsi almeno queste domande: «cosa sto cercando di dire? quali parole possono esprimerlo? quali immagini o espressioni lo renderanno più chiaro? è questa immagine fresca abbastanza da suscitare un certo effetto?».
Nel saggio L’artista serio, Pound sostiene che la letteratura è una specie di scienza il cui compito consiste nell’indagare e fornire dati attorno alla natura spirituale dell’uomo, e lo scrittore una specie di scienziato a cui compete lealtà e accuratezza. Conrad crede che gli artisti e gli scienziati debbano ricercare la verità e poi diffonderla, ma che quella dei primi sia più indecifrabile e segreta della verità dei secondi.
Più di tutto Elias Canetti odia e disprezza la morte: «Fintanto che esiste la morte, tutto ciò che vien detto è detto contro di lei», scrive ne La coscienza delle parole, «…Fintanto che esiste la morte, il bello non è bello, il buono non è buono». Canetti assegna perciò allo scrittore la responsabilità, la missione di contrastare e di opporsi alla violenza, alla guerra e al nulla. «Non può essere compito dello scrittore lasciare l’umanità in balia della morte», dichiara. «Apprenderà con sgomento, lui [lo scrittore] che non si chiude di fronte a nessuno, che la morte sta assumendo in molti uomini un potere crescente. Anche se dovesse apparire a tutti un’impresa disperata, egli a questo si ribellerà, e mai, in nessun caso, sarà disposto a capitolare…Lo scrittore vivrà secondo una legge che non è stata tagliata su di lui, ma è lo stesso la sua legge. Eccola: Nessuno sia respinto nel nulla, neanche chi ci starebbe volentieri. Si indaghi sul nulla con l’unico intento di trovare la strada per uscirne, e questa strada la si mostri ad ognuno». Con altrettanta intensità, Kafka paragona il libro ad un’ascia che serve per frantumare «il mare ghiacciato che è dentro di noi».
Scrivere si dimostra dunque un’attività che rifiuta superficialità e negligenza. Prima di intraprenderla e di esercitarla converrebbe forse domandarsi se è proprio indispensabile farlo, o se non è invece possibile astenersene. «Guardi dentro di sé», consiglia Rainer Maria Rilke a un giovane poeta. «Si interroghi sul motivo che le intima di scrivere… si domandi, nell’ora più quieta della sua notte: devo scrivere? Frughi dentro di sé alla ricerca di una profonda risposta. E se sarà di assenso, se lei potrà affrontare con un forte e semplice io devo questa grave domanda, allora costruisca la sua vita secondo questa necessità… Un’opera d’arte è buona se nasce da necessità». In maniera perentoria, nella Prefazione a Il negro del Narciso, Conrad asserisce: «Un’opera d’arte che aspiri, per quanto umilmente, alla sfera dell’arte, deve dare giustificazione di sé in ogni sua riga».
La letteratura non è utile soltanto a chi ne fruisce, al mondo e ai lettori, ma anche a chi la fa, agli autori, dei quali diventa la passione principale e l’identità. Senza lei, Flaubert soffre di tedio («Tutto quello che è vita mi ripugna, tutto quello che mi travolge e mi ci rituffa mi spaventa… Ho in me, in fondo a me, un tedio radicale, intimo, acre e incessante che mi impedisce di assaporare qualunque cosa e che mi riempie l’anima fino a farla scoppiare»); Kafka non riesce a immaginarsi («Il mio posto è insopportabile perché è in contrasto con il mio unico desiderio e con la mia sola professione che è la letteratura. Siccome non sono altro che letteratura e non posso né voglio essere altro»); Canetti senza di lei si sente condannato all’infelicità («Respiro liberamente soltanto sopra un foglio bianco. Nella carta è il mio atman, l’anima del mondo», scrive ne La rapidità dello spirito e aggiunge, «Fintanto che scrivo mi sento sicuro…Se però non ho scritto niente per qualche giorno, sono smarrito, disperato, cupo, vulnerabile, diffidente, minacciato da cento pericoli») e Camillo Sbarbaro sostiene addirittura di non riuscire a vivere («A noi che non abbiamo / altra felicità che di parole / … / se non è troppo chiedere, sia tolta / prima la vita di quel solo bene.»).
Il rapporto fra scrittore e scrittura sembra contraddistinta dall’ambiguità, dalla contraddizione e dalla duplicità. Le lacrime di Majakovskij sono di dolore e di conforto, Flaubert considera lo stile una mania capace di generare godimento, e Kafka, componendo La condanna, avverte, oltre alla pesantezza, un po’ di gioia. In un volumetto intitolato Scrivere, Marguerite Duras ritrae tale lavoro simultaneamente come passione dispotica e liberazione. «La liberazione», chiarisce, «è quando si fa buio. Quando fuori cessa il lavoro. Rimane il nostro lusso di poter scrivere nel buio. Possiamo scrivere a qualunque ora. Non siamo penalizzati da ordini, da orari, da capi, da armi, da multe, da insulti… e ancora da capi». Per Antonia Pozzi, le parole poetiche costituiscono la «voce profonda» e il «profondo rimorso». Contrita e superba, umile e presuntuosa, Marina Cvetaeva chiama i poeti «noi paria e pari a Dio». Da marinaio esperto, Conrad sa rendere visibile lo sforzo creativo, «una cosa», dice, «di cui si può trovare un parallelo materiale soltanto nell’interminabile e cupa tensione di un passaggio invernale di Capo Horn in direzione ovest». Ciononostante ama talmente la letteratura da gridare: «Datemi la parola giusta… e vi sollevo il mondo».
La scrittura si presenta quindi contemporaneamente come sofferenza e piacere, malattia e terapia, vizio e virtù, condanna e salvezza, schiavitù e libertà. La figura retorica che meglio la rappresenta non è l’antitesi ma l’ossimoro. Mentre la prima affianca due termini opposti, il secondo ne tenta una sintesi paradossale, ingegnosa e intuitiva. Grazie all’ossimoro possiamo definire la scrittura per esempio una necessità faticosa, un piacere tormentato, una disperazione allegra e in qualunque altro modo adeguato. A cominciare da «doloroso amore», l’ossimoro che Umberto Saba, in una lirica pregevole dedicata all’avventuroso e contraddittorio Ulisse, riferisce alla vita e noi estendiamo alla letteratura.
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