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Alessandro Carrera, Padroni della terra, signori della guerra. Da Quasimodo a Dylan

[Intervento al Convegn della Biennale Poesia e Oltre, Marengo (AL) 18 giugno 2022 - cfr. http://biennaledipoesia.wix.com/biennale]



Come giurato di un premio per la traduzione di poeti italiani in inglese, qualche anno fa ho passato un paio di giorni a leggere poeti italiani del Novecento e del Duemila trasposti nella lingua di Walt Whitman e di Emily Dickinson. Ripercorrere ciò che credevi familiare in un’altra lingua è un esercizio utile. Te lo fa apparire in una luce nuova, rivelatrice. Appare subito quale poeta è fatto per la traduzione e quale poeta non lo è. Anzi, a seconda della bravura del traduttore, la poesia scritta nella tua lingua può suonare anche meglio in un’altra, o perlomeno le svanisce di dosso quel sapore di scolastico che si portava appresso. I manoscritti che ho ricevuto comprendevano, tra molti altri autori, due scelte del secondo Quasimodo, quello della “poesia civile” che la mia generazione ha imparato su ogni libro di testo dalle scuole medie in poi, e che oggi viene evitata quasi si trascinasse appresso qualche forma di contagio. Non so se si trattasse di pura coincidenza o se la presenza di quelle due traduzioni fianco a fianco potesse suggerire che il Quasimodo virtuoso, quello delle poesie semplici e per nulla ermetiche, contro la guerra e l’ingiustizia, avesse un futuro in inglese che in italiano probabilmente non è più destinato ad avere. Certo è che il Quasimodo civile mi suonava meglio in inglese che in italiano. Ma era merito del traduttore o di un’assonanza testuale che si è insinuata mentre leggevo le sue traduzioni? Qui mi riferisco a Anno Domini MCMXLVII, inclusa in La vita non è sogno (1949):



ANNO DOMINI MCMXLVII

Avete finito di battere i tamburi a cadenza di morte su tutti gli orizzonti dietro le bare strette alle bandiere, di rendere piaghe e lacrime a pietà nelle città distrutte, rovina su rovina. E più nessuno grida: «Mio Dio perché m’hai lasciato?». E non scorre più latte né sangue dal petto forato. E ora che avete nascosto i cannoni fra le magnolie, lasciateci un giorno senz’armi sopra l’erba al rumore dell’acqua in movimento, delle foglie di canna fresche tra i capelli mentre abbracciamo la donna che ci ama. Che non suoni di colpo avanti notte l’ora del coprifuoco. Un giorno, un solo giorno per noi, padroni della terra, prima che rulli ancora l’aria e il ferro e una scheggia ci bruci in piena fronte.


Poiché “padroni della terra” diventa “masters of the earth” in inglese, e siccome da quando Dylan ha vinto il Nobel devo occuparmi di Dylan ancora più di prima, dalla cura dei suoi testi agli articoli che mi chiedono di scrivere su di lui, ho sentito subito l’eco di “Masters of War”, la canzone che Bob Dylan compone nel gennaio del 1963 dopo aver ascoltato l’ultimo discorso del presidente Eisenhower, quello che metteva in guardia l’America “dall’influenza incontrollata, perseguita o non perseguita, recentemente acquisita dal complesso militare-industriale”:


Su venite, signori della guerra,

dico a voi che create le armi,

voi che fate aeroplani di morte,

voi che fate le bombe giganti,

voi che state nascosti dai muri,

o nascosti dai vostri scrittoi,

una cosa dovete sapere,

che con me la vostra maschera non serve.


Quasimodo è oggi snobbato per tanti motivi, uno dei quali è il suo abbandono della poesia ermetica, ellittica, evocatrice, siculo-greca dei suoi esordi a favore di una poesia impegnata ma sempre condotta in un registro elegiaco, di lamento più che di indignazione. Buona per le antologie scolastiche, insomma. Dylan invece è stato ferocemente contestato quando ha abbandonato la sua giovanile arte dell’indignazione, nella quale non aveva rivali, per approdare a una versificazione post-simbolista, modernista, allusiva, in alcuni casi (non molti) anche “leggera”, ma rigorosamente chiusa ad ogni obbligo di “prendere posizione”. Curioso, vero? Se nasci ermetico, devi rimanere ermetico. Se nasci poeta di denuncia, allora denuncia e non perdere tempo a fare l’ispirato. E hanno ricevuto il Nobel tutti e due. Curioso anche questo, vero?

Che cosa durerà di più, in poesia? I padroni della terra di Quasimodo o i signori della guerra di Dylan? La domanda non è irrilevante, e non solo perché la terra è ancora soggetta a padroni e la guerra è ancora agli ordini dei suoi signori. I due testi che ho citato sono entrambi semplici, diretti. Usano un linguaggio colloquiale. Ma uno è scritto e l’altro è cantato. Recitare ad alta voce la poesia di Quasimodo non aggiunge nulla a ciò che già dice. Recitare il testo di Dylan senza il canto gli toglie parte del suo potere. Quanto è grande questa parte? Ed è una mancanza che sentiamo anche quando il testo è tradotto in verso libero, e dunque non si adatterebbe più alla musica?

È sufficiente tutto questo per concludere che Dylan non è un poeta? E, d’altra parte, quale dei due testi, se qui avessimo il tempo di confrontarli verso per verso, apparirebbe più preciso, più incalzante, più efficace poeticamente? Il lindo, dimesso dettato di Quasimodo o il ribollire inconsulto di Dylan, sempre eccessivo, sempre sopra le righe? Quasimodo prega i padroni della terra che lascino in pace l’umanità almeno per un giorno; Dylan gli va a dire che nemmeno Gesù li perdonerà mai, con l’inaudita, ma anche splendida arroganza di essere lui a stabilire che cosa Gesù può o non può perdonare:


Che cosa ne so

per parlare non interrogato,

direte che sono un ragazzo,

direte che non sono istruito.

Ma una cosa la so,

e sono più giovane di voi,

che nemmeno Gesù

quello che fate lo perdonerà mai.


E nell’ultima strofa si augura addirittura che muoiano in fretta (una strofa che molti tra coloro che hanno realizzato cover della canzone non hanno mai avuto il coraggio di cantare):


E spero che moriate,

e la morte vi colga ben presto.

Seguirò la vostra bara

in un pallido meriggio,

resterò a vedervi calare

nel vostro letto di morte,

e rimarrò sul bordo della fossa

finché sarò sicuro che sarete proprio morti.


Rimaniamo dunque con la domanda: quale fra i due testi ha maggior forza? Quale dei due, se dovessimo scegliere, vorremmo portare con noi? Soprattutto, quale dei due può suscitare un oltraggio commensurabile al tema che affronta? Io, per me, non ho dubbi, ma non ho dubbi neanche nel volerli tutti e due.



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