Alessandra Corbetta, Poesia come progresso
Il termine “poesia” deriva dal verbo greco ποιέω, che significa fare, produrre, creare; in esso è contenuta la radice sanscrita pu- che rimanda al concetto di generazione e procreazione. L’attività che la poesia porta dunque insita in sé è legata a un operare concreto, che però attinge e conduce a qualcosa di trascendente rispetto al soggetto agente. La poesia, fin da subito, si presenta allora come un luogo di parole, suoni e immagini antecedenti e conseguenti a chi, di volta in volta, li unisce e li traduce in verso.
All’interno della società contemporanea, ipercomplessa e iperconnessa, per riprendere il dualismo ben argomentato tra gli altri dal Professore Piero Dominici, anche il linguaggio ha subito profonde modificazioni; e se questo è indice di vitalità, poiché solo le lingue morte smettono di evolversi, è altresì sinonimo di un cambio radicale di paradigma, dal momento che la rivoluzione digitale, con la sua pervasività e potenza, ha accelerato e ingigantito la misura del cambiamento.
La sociolinguista Vera Gheno, in Social-linguistica. Italiano e italiani dei social network (Cesati 2017), nell’indagare alcune delle modificazioni occorse alla comunicazione con l’avvento dei moderni strumenti mediali, evidenzia come, anche dal punto di vista formale, molte siano le incursioni del linguaggio poetico, a partire da un uso della punteggiatura che non segue le tradizionali norme della grammatica, passando per la scriptio continua e la cosiddetta mentalità del minuscolo (D. Crystal), fino alla ripresa massiva di onomatopee e forme linguistiche di riproduzione del suono.
Sebbene questa compresenza possa apparire paradossale, alla luce soprattutto di una visione della poesia che continua a essere viziata da retaggi e, dunque, parziale, essa dimostra come invece sia necessario procedere a una nuova disamina di cosa l’arte per eccellenza della parola sia, cosa rappresenti e cosa possa fare per la società contemporanea e per le sue forme comunicative, in modo che davvero si possa iniziare a parlare di poesia come progresso.
Il punto di partenza deve essere posto nella rivalutazione delle dinamiche che legano poesia e Rete e condurre al superamento del dualismo sterile tra posizioni dicotomiche che annoverano, da una parte, coloro che vedono nel web una possibilità di salvezza per la poesia e, dall’altra, chi riscontra nella realtà digitale il cimitero della scrittura poetica.
Lelio Demichelis, docente di sociologia economica, nella prefazione al volume di studio Distanze obliterate. Generazioni di poesia sulla Rete (Puntoacapo Editrice 2021), si interroga sulla possibilità di fare ancora poesia nell’era digitale, evidenziando le differenze che intercorrono tra il pensiero calcolante di cui l’odierna società capitalista occidentale è intrisa e quello meditante/meditativo, per riprendere la definizione heideggeriana, di cui il linguaggio poetico si fa portatore. Alla Fabbrica-rete, fondata su ritmi rapidissimi, quali devono essere quelli della produzione, del consumo e della comunicazione, la poesia contrappone un tempo altro e conduce a processi di riflessione e analisi capaci di risvegliare un pensiero critico, fondamentale per riconoscere, ed eventualmente opporsi, alle logiche sostenute dalla visione del mondo totalizzante e omologata che viene costantemente proposta. Poesia, dunque, come trampolino per un approccio dialettico al reale, per una riappropriazione del linguaggio e delle dinamiche cronologiche dell’uomo e non della macchina, una macchina-web che, di fatto, ha disatteso molte delle promesse inizialmente avanzate.
La Rete, infatti, aveva assicurato un abbattimento delle distanze spaziali cosicché, anche se lontani, si sarebbe rimasti vicini, con centinaia di chilometri ridotti a un clic. Contestualmente, la riduzione distale avrebbe investito anche la sfera temporale: la possibilità di facile recupero di amicizie e rapporti ascrivibili a un tempo altro della vita rispetto a quello presente, comunicazioni rapidissime, tempi di passaggio tra “penso di fare/faccio” pressoché ridotti a zero. Eppure, e la realtà pandemica ne ha dato chiara dimostrazione, la Rete ha presentato il conto altissimo dell’eliminazione apparente di queste distanze, generando una modificazione del rapporto pubblico/privato non ancora metabolizzata pienamente e una separazione nella vicinanza, una disgregazione di quello stesso villaggio globale che essa stessa aveva contribuito a costruire. Insieme ma soli, espressione con la quale è stata tradotta nella nostra lingua la titolazione dell’opera Alone together di Sherry Turkle, ben sintetizza questo fenomeno dove la nuova distanza è definibile come distacco e cioè come allontanamento forzato da qualcosa in precedenza unito, dalla quale deriva la perdita di valore dei simboli preesistenti (σύμβολον è ciò che è stato messo insieme) e la ricerca spasmodica di nuovi.
Per rendere concreto il progetto di avvalersi della poesia come strumento, insieme ad altri, utile per realizzare una nuova idea di progresso – un progresso che sia etico, sostenibile, inclusivo e quindi umano – è necessario tornare a interrogarsi su una serie di questioni, che possono essere considerate dimensioni sottoinsiemistiche rispetto al tema-cardine Poesia & Rete.
Il primo punto è rappresentato dalla liceità e dall’autorevolezza nell’esprimere pareri: se tutti sono doverosamente liberi di dire come la pensano, in sedi ufficiali, come conferenze, convegni o aule scolastiche, la questione andrebbe affrontata da parte di soggetti competenti, tenendo conto che in questo caso la competenza non può e non deve circoscriversi al solo ambito poetico ma essere, prima di tutto, socio comunicativa dei media e delle nuove tecnologie. Il rischio più grande, come già si sta verificando, è quello duplice di incorrere, da un lato, in spiegazioni personali, fatte di impressioni legate alla propria esperienza di consumatori/produttori di contenuti mediali di stampo poetico, indispensabile ma assolutamente non sufficiente; dall’altro di affidarsi alla sola referenza poetica, che non è referenza per poter spiegare questi nuovi fenomeni di larga diffusione del verso; dunque, sebbene il supporto dei poeti sia fondamentale per conoscere la sostanza intrinseca della poesia in termini di fruibilità e pratiche di utilizzo, è indispensabile un lavoro sinergico con esperti della comunicazione e dei media. La poesia non è e non può essere trattata come un oggetto: la poesia è un’arte fatta di poesie, ognuna con delle proprie caratteristiche di qualità e costituzione e tocca ai poeti spiegarne e mostrarne il potenziale, affinché, con i sociologi della comunicazione e dei media, possano essere fornite delle risposte adeguate ai quesiti che i nuovi scenari del Web stanno smuovendo.
Secondo punto, la necessità di distinzione delle piattaforme: quando si parla di Poesia e Rete bisogna aver ben chiare le differenti tipologie di medium attraverso cui la poesia viene veicolata e, di conseguenza, i diversi prodotti finali di cui si fruisce; le riviste cartacee di poesia trasmutate in digitale sono una cosa, i siti o i blog che nascono per diffondere versi sono un’altra; la poesia su Instagram non è la poesia su Facebook.
Terzo punto, la questione sociolinguistica: come era avvenuto per il concetto di amicizia applicato a Facebook, anche il termine poesia deve essere contestualizzato e ridefinito in relazione alla Rete; è fondamentale comprendere cosa viene inglobato sotto questo iperonimo, se è avvenuta una trasmutazione semantica e, sulla base di ciò, definire se è proprio o improprio parlare di poesia e, se lo si fa, stabilire in maniera potenzialmente univoca cosa si sta indicando.
Quarto punto, i possibili scenari: le società che si occupano di tecnologia, così come le grandi aziende produttrici di manufatti e di servizi, puntano sempre più sullo storytelling e quindi sul contenuto linguistico e semantico, di cui i poeti sono i maggiori esperti, nonostante il neologismo di aura markettara possa far pensare diversamente. Lo slittamento e l’apertura verso nuovi orizzonti non deve essere vista a priori come un abbassamento della qualità o uno sradicamento dannoso dalla purezza originaria ma, al contrario, come un canale diverso, con proprie regole e metodi, in cui la poesia potrebbe inserirsi per rafforzare la sua presenza nel mondo, il suo avere di nuovo voce in capitolo; in altre parole è da considerarsi la questione di una nuova era della poesia, in cui la presenza della stessa sui diversi canali offerti dalla Rete potrebbe coincidere con un far avvicinare/far abituare alla scrittura in versi un numero sempre più sostanzioso di persone le quali, magari, potrebbero limitarsi a una fruizione passiva oppure diventare buoni lettori o appassionati o altro ancora.
La poesia, insomma, dopo essere stata a lungo relegata, anche per sua stessa azione e volontà di alcuni suoi esponenti, in nicchie letterarie e sociali, deve tornare ad acquisire una posizione centrale rispetto al linguaggio e a ciò che accade nel mondo di cui, la parola, insieme all’immagine, continua a essere il più potente mezzo comunicativo e trasmissivo.
Il filosofo e poeta Alessandro Pertosa afferma che «la poesia prova a dire ciò che non si può dire, sapendo di non poterlo dire ma volendolo dire lo stesso», rendendo evidente come a quest’arte spetti non solo il compito di nominare peculiarmente il dicibile ma, soprattutto, di trovare i termini migliori e gli accostamenti più adatti e sorprendenti per nominare l’indicibile, nonostante questa operazione sia tutt’altro che facile, poiché richiede massima conoscenza della lingua, in tutte le sue componenti, e anche capacità di accostarsi alle zone di luce e di ombra che abitano ogni essere umano.
Già David Whyte, nel 1997, con il suo Il risveglio del cuore in azienda, rimarca la necessità, anche all’interno dei contesti aziendali, dell’«intuito del poeta e della sua capacità di attenzione», indispensabili per porre in relazione «la sfera interna dell’anima e della creatività con la sfera esterna della forma e della materia» poiché «invitare l’anima in azienda significa fare spazio non solo all’aspetto apollineo, luminoso e razionale, ma anche a quanto di dionisiaco vi è in ognuno di noi: la furia, l’irrazionalità, la passione, il nostro lato oscuro». Se, dunque, la nostra società, attraverso soprattutto la pervasività del digitale, tende a mostrare una visione sempre più parziale e manipolata del reale, tendendo a escludere o minimizzare tutto ciò che riguarda la sfera della bruttezza, della vecchiaia, della malattia e della morte, la poesia, con il suo sguardo aperto e lungo, abbatte la futilità dell’esclusione, ricollocando opportunamente tutto ciò che inerisce alla dimensione umana e ristabilendo la densità della parola, ormai sospesa tra assenza e abuso.
Umberto Fiori, uno dei più importanti poeti italiani contemporanei, in un’intervista di qualche anno fa rilasciata a «Formavera», prendendo atto della progressiva perdita di forza e di persuasività della parola, riconosce nella poesia il luogo dove arrivare alle parole è ancora possibile; dichiara, in quella sede: «La poesia è una parola che non ha spiegazioni. Poi noi la possiamo spiegare, naturalmente, ma la poesia dice le cose in modo assoluto e definitivo, e senza nessuna giustificazione, nessuna spiegazione; ripeto: noi giustamente la interpretiamo, usiamo altre parole, c’è tutta l’ermeneutica della poesia, come di tutti i testi: la nostra tradizione è fatta così. Però la poesia è veramente l’esperienza di essere arrivati alle parole; le parole diventano qualche cosa che tu non controlli più. Sei come un elefante che barrisce, uno scarafaggio che pigola…».
Nella poesia, pertanto, la parola torna a significare e a farsi ponte verso l’Altro; il progresso a cui la poesia può condurre è allora il tentativo di ricompattare il Noi infranto, di ricollettivizzare le monadi isolate che siamo diventati. Perché, se la poesia è parola che crea concretamente, allora essa deve tornare a farsi azione poiché, come scriveva David Maria Turoldo, «Poesia / è rifare il mondo, dopo / il discorso devastatore / del mercadante.».
Alessandra Corbetta (Erba, 1988) è dottore di ricerca in Sociologia della Comunicazione e dei Media e lavora come Adjunct Professor e Teaching Assistant presso l’università LIUC-Carlo Cattaneo.
Ha conseguito un master in Digital Communication e uno in Storytelling. Ha fondato e dirige il blog Alma Poesia (www.almapoesia.it), con il quale ha anche curato la pubblicazione del volume Distanze obliterate. Generazioni di poesie sulla Rete (puntoacapo Editrice 2021). Collabora con il blog spagnolo di letteratura e poesia Vuela Palabra, scrive per il giornale online Gli Stati Generali e per UniversoPoesia - StrisciaRossa; per Rete55 conduce la rubrica “Poetando sul sofà”, dedicata a grandi autori della poesia italiana. Sue poesie sono presenti in diverse antologie e tradotte anche su riviste straniere. La sua ultima pubblicazione in versi è Corpo della gioventù (puntoacapo Editrice 2019), mentre l’ultima produzione saggistica è Corpi in rete. Rappresentazioni del sé tra visualità e racconto (Libreria Universitaria 2021). Per puntoacapo dirige, con Dario Talarico, la collana di poeti esordienti Controcorrente. Tutta la sua attività è consultabile sul sito www.alessandracorbetta.net.
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