Rossano Pestarino - Inedito e antologia
- almanacco
- 8 mar 2024
- Tempo di lettura: 7 min

*
Dice che forse chiuderanno Facebook,
quel cimitero a cielo aperto, verste e verste
di anime morte.
Questione, pare, di protezione dati.
È giusto, bisogna proteggerli,
i morti. Non si deve
rubargli quelle bianche vite, poi si incazzano.
A me invece rubatemi tutto,
la musica che (non) ascolto,
i film che scarico e (non) guardo, i libri
che compro e (non) leggo,
i posti dove vado e non vado;
ammucchiate di me dati su dati,
quando entro e quando esco,
dove clicco e riclicco nella notte,
quando il sonno è un Titanic
che di nuovo l’oceano non lo passerà…
Io non mi incazzo, sono un morto mite:
tutto quello che amo,
quello che (non) so e quello che (non) sono,
sappiate tutto di me, quel poco che.

Antologia degli editi
Da Lune d’Honan, San Cesario di Lecce, Manni Editore, 2012.
I granchi rossi
I granchi rossi dell’isola Christmas
macinano chilometri, di sghembo, ogni anno,
sotto il sole spietato, sugli asfalti,
sull’erba gialla e morta, si mischiano,
attesi con le piogge, alla vita
degli isolani: scavalcano gli zoccoli
gettati davanti alle porte, pizzicano
la coda ai cani stesi sui cortili,
salgono i marciapiedi
e cercano ristoro alle fontane
o sui prati da golf, fra le corse
dei bimbi a piedi nudi
nei campi della scuola: e avanzano,
avanzano testardi verso il mare
che videro per non più di un’ora quando nacquero.
Il mare chiama, pronto ad ospitare
tutto quel rosso, svelto a coccolare
miliardi di tenere uova e a farle schiudere
dentro il calore ermetico del plancton.
Nell’argento che piove dalla luna
le scogliere scarlatte
formicolano di femmine che vanno
in processione a scuotere la pancia
sul bagnasciuga come in una danza.
Poi torneranno alle foreste nel cuore
dell’isola: e sulle polpe prosciugate
che restano lì sulla spiaggia, uccise
dal viaggio d’amore verso la memoria del mare;
sulle carcasse coriacee che rimangono
schiacciate dai camion sulla strada, scavate
dalle galline, le nuove generazioni presto
passeranno come un fiume di sangue immemore,
già condannate al medesimo scempio vitale.
La scacchiera
Pescata d’occasione un dì d’inverno
che Genova d’un tratto fu più mite
nella mano guantata di papà,
smussata agli angoli di legno biondo,
rosse e crema le case, poi segnate
di pennarello nero con la sua
grafia nervosa e stretta.
Mi attendeva
ancora, all’orizzonte
lunare del futuro, la Novella
degli scacchi, con tutti gli altri libri:
l’angoscia dei perimetri,
la paranoia docile
della memoria, i passi più vicini
degli aguzzini mediocri e seducenti…
ma i pedoni marciavano stringendo
i ranghi; stramazzavano nitrendo
nella polvere grigia i cavalli
di un’immaginazione già scavata
dall’astrazione precoce, marginale
come il tarlo che campa
nei ripostigli, tra gli errori dei sensi
e il ballo in maschera dei pensieri paurosi.
Da Lingua che non so, Milano, La Vita Felice, 2014.
*
2012 deserto. Cominciamo bene.
Si è diffuso un morbo, un germe strano,
tra le quattro e le cinque, ha prosciugato
una a una le vene
di ogni carne, prima delle prime
luci dell’alba nuova, appena dopo
gli ultimi stanchi scoppi: reclinavano
la testa su un cuscino, proprio come
si era fatto da sempre per morire, e con il taglio
di una luce più sottile nella luce
sparivano, i profili,
le mani… E adesso questo
vuoto di strade sotto il bianco
che non abbaglia più nessuno, ormai,
e il silenzio colorato dei festoni
posati dalle mani dei papà…
Persino internet morto, lampeggia
webpage not found su tutti i monitor.
Tutto il mondo sfuggito finalmente alla rete
come la palla di un bambino cieco
che la segue col viso, corre cauto,
le lunghe dita avanti,
dove sente il rimbalzo, nell’angolo.
*
Chi si vede nello specchio pulito
dell’onestà, invecchiato,
(ma con che cuore), amaro, la ruga
d’espressione, quella del mite
sorridere, (della rassegnazione), che gli stringe
alle tempie, tra le mani
che non tremano ancora (ma le vene
corrono di un verde sempre più veloce),
con che cuore, la storia, negli occhi,
delle débâcle, anzi delle battaglie
non combattute (per delicatezza,
per tenerezza; per pietà e urbana
viltà): i campi intatti, asciutti
di sangui giovani, incalpestati
i sentieri delle imboscate, sciabole
con le else d’oro ignare
della vampa brunita del sole.
Da I pesci remo, Ancona, Italic, 2019.
Unico proprietario
Oggetto come nuovo. Conservate
le alucce originali, i nottolini,
superiori e inferiori; intatte
le pellicine, i dentini
di pipistrello; smalti originali
non scalfiti né rigati; legacci
soffici e vaporosi; come nuovi
anche gli scovolini.
È stato solo mio. Io, solo suo.
Perfetta la corona. Funzionamento perfetto – soltanto
una piccola (ininfluente) sfasatura, non percepibile
ai sensi umani. Manca
certificato. Regalo pettinini.
Fisso ore pasti.
Oppure
quando vi va, anche di notte, la notte
che non ha cuore, tanto
non dormirò, lo so.
Non dormirò. Aspetterò. Seduto.
Implosioni di pianeti
Sono lettere sigillate l’attimo prima,
sedie amorosamente
avvicinate ai tavoli – rimane la traccia
della luce che c’era quel dì,
fotografata immobile
negli occhi di chi ha visto.
Senza odore, senza dolore, i dileguati,
l’attimo prima, il vortice
esplode nelle orecchie, il cielo diurno rimanda
l’ultimo calore, l’ultimo
bagliore, l’ombra
delle creature lunga nella fuga.
*
Sulla terra beato chi gli basta nascere una volta soltanto.
A tempo debito cammina e parla,
nella bocca e nel cuore cambia i denti, cresce
nel diapason unisono del corpo e dello spirito.
I combattenti
I combattenti combattono per tutti:
per chi non lo sa, per chi finge di non saperlo
che c’è la guerra, sanguinosa, mai dichiarata,
le vite che volano via
annientate, soffiate
nel pieno rispetto dei patti e delle leggi.
Il nemico vigliacco cambia forma ogni giorno,
spara dagli angoli, dai tetti dove non ti aspetti di trovarlo;
sta acquattato nel cuore, nelle parole dei più cari,
degli insospettabili.
Cambia pensiero, è il pensiero la bomba
che peggio dilania: scatta a sorpresa,
è in perenne mutazione, come i virus
quando nel sangue cominciano a proliferare gli anticorpi,
l’attimo dopo
inoculato il siero.
I giorni chiari
E tornerà la notte
sulle strade vicinali.
Spaccati a sassate i lampioni,
tornerà la notte nera sugli sterrati
che collegano gli orti
e sui cavalcavia.
Torneranno le stelle, le lucciole,
gli occhi gialli dei gatti. Aspetteremo
i giorni chiari che faceva la luna
per camminare. La mattina
saremo stanchi sulle strade bianche di casa
Un dio grande
Non è per giorni o anni che dobbiamo contare,
ma le cantine saranno terrazzi
alti sotto le stelle,
il volo a piombo delle scale che scendono ai parcheggi
diventerà spina dorsale dei palazzi,
le diritte strade della terra
si annoderanno in un groviglio nero, dal fondo
il mare sveglierà le sue creature,
divorerà la spiaggia tutt’intorno al mondo,
un dio grande, di cui nessuno ha mai saputo parlare,
senza clamore o tremore,
senza gloria trionfante, militante
nella vittoria del suo non esistere,
verrà, incoronerà
le vite stanche e pure
di chi avrà meritato
la sua perfetta morte:
chi non avrà creduto sarà forte,
forte per sempre, in pace.
Da Espera, Genova, Il Canneto Editore, 2023.
*
Eppure io lo so che l’ho visto.
Non ricordo né dove né quando
ma l’ho visto. Ci ero dentro,
appeso dentro il vuoto.
C’era l’aria che viene di marzo,
il profumo dei fiori, gli azzurri
dei cieli. Tranquilla la strada
sotto i passi di tutti, ma tutti
eravamo sospesi in quel nulla
di colori leggeri, smarriti.
Alti alti, la testa in un pallone
che girava e girava.
Chi muoveva le braccia, credeva
stupidamente di volare, tersi
tutti negli occhi di calda meraviglia.
E le voci, e le grida a chiamarsi,
narici dilatate, come il cuore,
affaticato dal peso dell’aria
tutta nuova e diversa.
Vertigini allegre. E i pensieri
sottosopra, gli stomaci, le mani
che tremavano un po’.
Vestiti tutti stracci,
ci si alzavano addosso, come fossimo
tutti nudi nell’acqua corrente.
*
Se tutto dovesse finire,
magari presto, inaspettatamente, se dovesse
andarsene il respiro con il vento
che passa tra le piante un pomeriggio
di sole basso e mite,
perché quasi nessuno se ne accorga,
o abbia niente da ridire, o pensi
anche solo un minuto che forse
aveva un senso, quel colore di voce,
boh, niente, niente davvero, va bene così,
ora davvero non fa differenza,
la forma o la sostanza,
restare qui, partire,
lasciare impronte stanche
sulla polvere bianca delle strade,
la presenza, l’assenza,
tutto indistinto e bello,
e buono, bene così, la vita senza
respiro, tutto dura,
tutto rimane e verdeggia, la pura
coscienza non è niente
di niente, amen, addio.
*
Città che ti aspettano all’alba
fuori dalle stazioni,
straniero sempre, uno che non sa
la lingua, le abitudini, e domanda
sorridendo le strade, i posti, e poi
coi piedi nudi cammina cammina
sulla polvere fresca del giorno,
si fida della gente, dei sorrisi,
dei cenni delle teste,
diti puntati in mille direzioni,
i giri larghi che gli fanno fare
i cartelli, i cantieri, le interruzioni,
le deviazioni imprevedibili,
tutto quello che ci dissemina il destino
sul cammino per farci
riguadagnare il tempo
che stavamo per perdere per sempre.
*
Ho nel sonno un bel sogno
che riaffiora ogni tanto.
Tra le macerie brilla una moneta,
sul mare cammina un bambino
che mi ricorda qualcuno che non ero,
si sentono persone che conversano…
Non sono ormai più qui,
lo so, eppure non ci credo. Vedo
tante strade che tutte convergono
verso un solo orizzonte, e la luce
che si alza e si abbassa col respiro
del giorno, e le case
che si riposano come animali stanchi
perché siamo tutti fuori, per le vie.
E il silenzio è intatto nonostante
il rumore di fondo delle voci
e dei suoni della vita che va avanti:
e sei tanto stanco che cadi,
e sei tanto allegro che ridi,
e l’aria è tranquilla e bisbigliano
tutti gli uccelli tra i rami verdissimi,
e sei sveglio, e fa giorno alto e chiaro
e le stelle sono ancora nel cielo.
*
Aspetta e spera, ha raggiunto il livello di guardia
l’assurdità. Di tutto. Delle rose
che sbocciano d’inverno, delle stelle
australi e boreali,
del vento: delle cose
che furono belle. Dell’odio e dell’amore.
Delle parole e dei silenzi. Anche l’odio.
Anche l’odio era bello, era il mare,
che fa il matto e si placa,
prima devasta le coste e poi le bacia:
dal legno che restituisce
nasceranno fra le mani figure zoomorfe.
Era bello aspettare.
In spagnolo dicono sperare.
*
Non sono solo i poeti
a far parlare la vita.
La vita ha anche la voce
di cartelli, avvisi, manifesti
che tappezzano i muri di città.
Qui comprano auto usate,
di qualsiasi marca,
in qualsiasi stato,
«chilometrate, incidentate o fuse».
Perfetto endecasillabo.
Non c’è in tutto il De anima di Aristotele
una sequenza di participi così.
Che dicano il dolore e la stanchezza.
Che predichino l’essenza
non della vita ma di questa vita.
*
Sarà un po’ da oliare,
la porta del garage.
Si è messa a cigolare.
Tutte le volte, prima che si illumini
il vecchio neon, quel gemito dai cardini.
Come un sospiro umano: come gemono
le porte nel Castello
di Bartók. A volte di sollievo,
più spesso di disprezzo,
di ammutolita ira.
O forse di dolore.
Un vibrato di viole
quando accorda l’orchestra.
Là c’è il lago di lagrime.
Rossano Pestarino (Ovada, 1973) insegna Letteratura italiana presso il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Pavia. Si è occupato prevalentemente di argomenti relativi al Cinquecento e all’Ottocento. Ha pubblicato le sillogi poetiche Lune d’Honan (Manni, 2012), Lingua che non so (La Vita Felice, 2014), I pesci remo (Italic, 2019) e Espera (Il Canneto, 2023). Alcune sue poesie sono comparse in riviste on-line in traduzione inglese e catalana.
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