Rinaldo Caddeo sui racconti di Mario Marchisio
Mario Marchisio, Chi vive se ne pente, puntoacapo editrice, Pasturana (AL), 2020.
«Chi vive se ne pente è una danza macabra di geometrie dentro un’architettura immaginifica, un labirinto dove tutte le strade sono deviazioni e sorprese.» (p.5), scrive con incisiva icasticità, Dario Capello, nella sua prefazione, intitolata Allegro con macabro, al volume di Mario Marchisio. E prima ancora aveva parlato di «un confine che vaga nell’aria, inafferrabile.»
Quale confine?
Un confine, in primo luogo (ma non solo), tra vita e morte.
La morte è una sorta di prolungamento della vita con altri mezzi, tanto per echeggiare Karl von Clausewitz, proprio perché è vero il contrario: la vita è prolungamento, con altri mezzi, della morte.
Vita/Morte: nel territorio confinario, ai limiti tra morte e vita, nella no man land, dove i vivi attraversano il limite della morte e i morti il confine della vita, l’autore raccoglie il rumore che attraversa il silenzio e gli restituisce un linguaggio.
Questa waste land è fertile di trasfigurazioni mitologiche, di metamorfosi, di teratologie: pitoni, sirene, tritoni, nereidi in ambiente urbano come nei quadri di Böcklin, cagnacci rabbiosi, un giovanissimo Minotauro, bambinello con testa di toro nascosto e accudito in una soffitta, ghiri che entrano nel personaggio narrante e lo sostituiscono, il corpo di Santa Teresa che si divincola dalla situazione marmorea in cui l’aveva formulato l’arte di Bernini e grazie al potere allucinatorio multisensoriale di Gesualdo impiegato modello, apprezzato per la sua meticolosità nel lavoro, diventa un corpo di donna in carne, pelle, sangue e ossa.
E pure non ci sono spiccate stravaganze nella lingua di queste tredici novelle. Si tratta di un forbito italiano medio-colto, discorsivo, con tonalità confidenziali.
L’esordio di ogni testo getta il lettore in medias res. In mezzo a una riflessione o a una condizione esistenziale o alla descrizione fisica del protagonista come in una novella di Pirandello.
Le novelle, inoltre, sono precedute da una sintesi in corsivo, come nel Decameron. Condivido la definizione di Decamerone nero fornita da Capello. Come Boccaccio Marchisio, a modo suo, rispetta le cinque w (who, what, where, when, why) del giornalismo di cronaca.
Dunque i suoi racconti sono realistici? Sì, se non fossero assurdi. Ma non sono assurdi come nel teatro dell’assurdo di Beckett o di Jonesco o nel fantastico di Kafka, di Saramago o nel meraviglioso di Buzzati o di Calvino. I racconti di Marchisio sono strani. La loro stranezza gode di una cifra peculiare.
Sono strani perché nella misura in cui sembrano volerci dire tutto, senza inganno e senza frode, senza infingimenti e senza illusioni o pretese di stupire noi lettori, con la voce dei protagonisti, con lo sguardo schietto del loro punto di vista, ci lasciano di stucco con apparizioni semi-velate, in fuga da se stesse e da noi, di un sottostante babelico, sotto o sovra-mondo mostruoso.
Parole intrise di sangue, circuito dal silenzio. Frasi incessanti perché pronunciate sul punto in cui dovrebbero cessare o reticenti perché non dicono ciò che ci si aspetterebbe o si vorrebbe sentire. Parole che rimbalzano su di un pavimento duro e oscuro, rimandando un’eco di stranimento all’incrocio tra estraneazione e riluttanza, quando dovrebbero spiegare che cosa è successo. Siamo nei paraggi dell’espressionismo ma non ci sono urla di Munch o pianti o tremiti melodrammatici. I gridi sono trattenuti o a bocca chiusa, i pianti sono sprofondati dentro. Gli occhi, coadiuvati dagli altri sensi, oltre Edgar Allan Poe o Alberto Savinio, ci parlano di qualcosa di assurdo con uno sguardo traslucido e unheimlich (perturbante, allarmante, sinistro). Un unheimlich venato di sarcasmo, più vicino a una sospesa disperazione che a un’angoscia abissale, come gli occhi spalancati e sbalorditi della Medusa di Franz von Stuck che ci guardano dalla copertina, in un apice drammatico che sembra suggerire e nello stesso tempo chiedere un perché.
Il linguaggio di questi racconti è molto aderente alla mentalità, alla cultura, ai modi di dire e di pensare dei suoi personaggi, ma non per questo meno disponibile a increspature e arabeschi. Spesso colloquiale non si sottrae a similitudini, metafore, deformazioni allucinatorie, guizzi metafisici, citazioni colte, fantasmagorie barocche e/o fiabesche: «La neve si contorceva sui rami neri degli alberi» (p.10), «come la luna, la pancia di Grete nel frattempo cresceva.» (p.11), «Aghi di pino marittimo, dai rami che beccheggiavano là in alto, volarono ai loro piedi e una gonfia nube cremosa, striata d’argento, coprì a poco a poco il sole mentre il resto del cielo sfoggiava impassibile le sue vesti di zaffiro.» (p.19), «la cupola della cattedrale, con i suoi costoloni chiari, è un grosso fungo in un bosco di marzapane.» (p.21), «Dai vialetti laterali si profilava adesso la mole geometrica delle siepi di mortella e il pennacchio dei cipressi, simili a fiamme nere contro lo sfondo turchino del cielo.» (p.27), «Il prato le sussurra nell’orecchio le leggende dell’infanzia, quando una sola estate può dischiudere e dissipare un universo intero, e il confine tra quotidianità e magia vaga capricciosamente nell’aria, come la peluria dei soffioni che la mano di una bambina schiaffeggia ridendo.» (p.42), «Ogni istante, da quel sublime artigiano che è, pietrifica in eterno i gesti, gli sguardi, i pensieri che poi viaggeranno a nostra insaputa per il resto dei millenni a venire, staccati da noi, immemori e silenziosi come un pianeta nella sua orbita.» (p.46), «Stavo per tornarmene a casa con un paio di trote e qualche cicala di mare nella borsa, quando vedo la punta di un pesce spada conficcata in quello che parrebbe l’avambraccio ben tornito di una donna. Un cadavere di traverso in mezzo ai pesci, sul banco di un mercato?» (pp.98-99). Cadavere che si rivela essere niente di meno che quello di una naiade sul banco di un mercato del pesce: è soltanto l’allucinazione di un personaggio?
Ecco, spesso così, in modo furtivo, come per una alterazione appena percepibile, semi-nascosta dalle forme visive dei contorni normali della quotidianità, fa irruzione un altro mondo, attraverso uno sbaglio di natura mimetizzato dalle maglie del reale, con l’epifania favolosa, la chimera apocalittica, la rivelazione di un inconfondibile assurdo.
In SPIRE (Tritone e nereide), la metamorfosi apocalittica diventa euforica, liberatoria, in una temperie di realismo magico alla Bontempelli, tra Böcklin e DeChirico. Nata in un sogno notturno, squarcia la realtà tetra del mattino di un qualunque giorno: «Senza esitare, mentre si spalancava la finestra e i vetri smerigliati andavano in frantumi, i due saltarono dallo scoglio con uno slancio e una grazia inauditi. Li accolse l’abbraccio delle onde verdazzurre che avevano invaso il cortile e s’erano spinte sempre più in alto, sommergendo il balcone della signora Giovanna.» (p. 59).
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