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#pietredifiume - Febbraio 2024


Moto proprio. Nel teatro degli anni Settanta

Area P, Milano, Sala consiliare di Palazzo Marino – Domenica 14 gennaio 2024

Carlo Penati


foto di Jean-Pierre Rey, “Marianna del ‘68”




Motu proprio. Nel teatro degli anni Settanta è stato scritto, salvo pochissimi inserti successivi, negli anni Settanta, più precisamente tra il 1976 e il 1979.

Raccogliere e rielaborare le poesie scaturite in quegli anni è stata un’operazione, dolorosa, di memoria ed anche di liberazione. Anzi i due aspetti sono fortemente intrecciati, perché, come scrive Giovanni Moro, figlio dello statista ucciso dalle Brigate Rosse, «non ci si può “liberare” degli anni Settanta senza imparare a ricordarli.»[1] 


Motu proprio è nato dal bisogno di riaprire lo sguardo su un decennio pieno di misteri e di violenza, ma anche ricco di trasformazioni positive, sul quale è più comodo stendere un velo lugubre e pietoso. È quanto hanno fatto e continuano a fare quelli che bollano quel periodo come gli “anni di piombo”, con l’aggravante di etichettarlo con una semplificazione falsificante: prendendo cioè una parte del problema, il terrorismo rosso, per ingessare un’epoca caratterizzata da questioni ben più rilevanti sotto il profilo politico e sociale e attraversata, oltre che da stragi di Stato e dal terrorismo nero, anche da moti di creatività, onde di cambiamento continuo, vitalità di nuovi soggetti politici e sociali, speranza in un mondo più giusto e a misura d’uomo.

Si pensi soltanto all’anno 1978; rapimento e uccisione di Aldo Moro e della sua scorta da una parte e, dall’altra, la nascita del Servizio Sanitario Nazionale con la legge 833 di Tina Anselmi, la chiusura dei manicomi con la legge Basaglia, la legalizzazione dell’aborto, l’introduzione dell’equo canone e via dicendo.


Pubblicare oggi Motu proprio vuol dire abbracciare questa tensione a riaprire lo sguardo sugli anni Settanta, che rimangono ancora come sospesi, irrisolti; una piega della storia, un raggrinzimento profondo degli avvenimenti perché sono in parte senza spiegazione evidente (anche se le ipotesi, come ricordava Pasolini in Io so, sulla prima pagina sul Corriere della Sera del 14 novembre 1974, per quanto non suffragate da fatti e documenti certi, appaiono ben solide). E solo la verità, che ci consente di comprendere e di fare memoria, può concludere questa fase storica secondo giustizia: «(…) essendo passati così tanti anni, la verità è l’unica forma di giustizia praticabile e auspicabile. In ogni caso è ciò di cui abbiamo bisogno come Paese per liberarci dei fantasmi degli Anni Settanta e insieme riscattare tutta quella decade come un elemento fondamentale, per quanto tormentato, della nostra storia e della nostra identità collettiva».[2]


E Giovanni Moro chiude il capitolo intitolato “Fantasmi” con una citazione del padre scritta durante la prigionia delle Brigate Rosse: “Datemi da una parte milioni di voti e toglietemi dall’altra parte un atomo di verità, e io sarò comunque perdente.”

Ad Aldo Moro ho dedicato l’esergo del libro, ricordando il 9 maggio 1978, giorno del ritrovamento del cadavere dopo il rapimento e la strage della scorta del 16 marzo di quell’anno.

 

novemaggiomillenovecentosettantotto

Il tempo è fermo

Un seme è caduto

Quali frutti nasceranno?

 

Perché dunque, dopo quasi cinquant’anni, ho ripescato, raccolto e rielaborato un materiale così ampio e apparentemente datato? Per tre ragioni:

1.     perché dopo mezzo secolo la cronaca, o meglio la Sincronaca (dagli anni Settanta) – che è il titolo di una mia raccolta pubblicata con Fara editore nel 2010 – in quanto cronaca collettiva, vissuta assieme (dal greco “sun”, insieme), e che avevo frammentariamente annotato in versi è diventata storia; e la storia chiede di essere raccontata e interpretata anche dallo spiraglio di una vicenda personale, quando si è stati immersi e trascinati nel suo gorgo;

2.     perché quel decennio è stato il decennio delle grandi trasformazioni, delle “crisi epocali” (come si tendeva a definire allora i passaggi della storia), che hanno ridisegnato – ma forse ce ne siamo accorti in ritardo – le regole della convivenza sociale, la percezione del futuro, l’identità stessa del nostro Paese e le dinamiche internazionali;

3.     perché gli anni Settanta sono stati la mia giovinezza, come di molti protagonisti di allora, e storia personale e storia sociale si sono intrecciate inestricabilmente, riconoscendo per la prima volta (rivoluzione ad un tempo antropologica, culturale e sociale) l’intersoggettività come cifra dell’esistenza umana e (con una consapevolezza successiva) cosmica[3]; e la riscoperta di Emmanuel Mounier, alla fine degli anni Settanta, mi aveva offerto, a partire dal suo testo Persona e Comunità, più materiale vitale e generativo di chi si attardava a discutere di struttura e sovrastruttura, di materialismo storico e materialismo dialettico, di soggetto e oggetto come due entità indipendenti e reciprocamente escludenti.


Rammemorare per decadi è una semplificazione che aiuta la memoria, racchiudendo i fatti e i ricordi in scatole ben catalogate, nella fiducia che queste categorie interpretative su base temporale ci aiutino a fare sintesi di un materiale ampio e diversificato e a darne un senso.

Per quanto riguarda la mia storia personale il decennio dei Settanta si apre con la V ginnasio sezione A al Liceo classico di Legnano e si chiude con una varietà di impegni che vanno da una borsa di studio della Rai, nel venticinquesimo di fondazione, per una ricerca sull’introduzione del mezzo televisivo nei cortili legnanesi, alla vicedirezione di una ricerca nazionale con il Pontificio ateneo salesiano di Roma sulla religiosità dei giovani italiani, alla collaborazione continuativa con l’Ufficio studio nazionale delle Acli, alla redazione di articoli di cronaca locale per alcuni quotidiani a tiratura provinciale e nazionale, alla conclusione dell’incarico triennale di segretario regionale lombardo di Gioventù aclista, alla produzione di articoli e saggi per libri e riviste in collaborazione con Giovanni Bianchi e i “ragazzi di piazza Petazzi”[4].


Passando al piano poetico, nel 1979 ero anche il più giovane redattore di Pianura, rivista di ricerca letteraria fondata da Sebastiano Vassalli e Raffaele Perrotta, sull’asse Bergamo-Milano-Novara-Ivrea (le riunioni si tenevano in casa di Sebastiano, a Novara, con interminabili discussioni).

Personalmente e poeticamente, mi ero affacciato alle soglie del decennio con le aspirazioni, gli slanci, le incertezze e i tormenti di un adolescente che aveva davanti a sé, a disposizione, un mondo intero in piena ebollizione.

Tanta materia, dunque, in quegli strani anni attraversati di corsa, senza sosta, in un moto ampio, collettivo, universale. Un teatro urbano pieno dei più vari accadimenti condensati in pochissimo tempo, come mai è accaduto in altre decadi. Materia per versi ampi, raccolti in quattrodici atti più un epilogo, come in una Via crucis.

“Via della croce” non per il peso dei legni verso il monte Calvario, ma per il frangersi di un percorso pensato univoco e diritto in molteplici incroci, dove si imboccavano strade che a loro volta si sfaldavano in labirinti senza fine. Come avviene in un percorso prezioso e tormentato di maturazione.

Per chi come me aveva quindici anni all’inizio dei Settanta e quasi ventisei alla sua conclusione, si può dire che in quel decennio di formazione ampia e variegata siamo entrati ragazzi e siamo usciti uomini. Con una piena e straordinaria concomitanza con una maturazione collettiva.

Se piazza Fontana è stata infatti la “fine dell’innocenza” (come l’hanno definita in molti[5] tra cui Michele Serra nel recentissimo docufilm della Rai su Giorgio Gaber) e la fine dell’infanzia sociale per le generazioni dei boomer, la chiusura degli anni Settanta ha coinciso con la fine dell’adolescenza per i movimenti che hanno animato e attraversato, allora, la storia italiana. Il termine più diffuso ed appropriato per definire questo passaggio collettivo di maturazione è: “complessità”. Ci si è resi conto, interiorizzandolo a poco a poco, che abitavamo un mondo non più fatto di tinte bianche e nere (in quel decennio, il 26 agosto 1972, anche la televisione italiana divenne a colori), di ragioni divise nettamente dai torti, di bene e male rigidamente separati, ma di fenomeni interdipendenti, variegati, ambivalenti, incerti, imprevedibili. Cambiando anche radicalmente la concezione e la natura del Potere nell’Occidente capitalistico, non più tutto concentrato in un “sistema” unico e compatto, ma frammentato in un policentrismo che può essere positivamente governato solo attraverso relazioni dialoganti.

Gli anni Settanta, a chi li ha vissuti profondamente, hanno insegnato che la storia non è un moto progressivo e irreversibile, che attraverso strati di contraddizioni (e grazie ad essi), procede verso il Sol dell’Avvenire o verso un’escaton anticipato del Regno di Dio che viene nella storia. Le grandi ideologie del “differimento”, che chiedevano sacrifici oggi per un bene assoluto futuro (o futuribile), si erano definitivamente arenate, inaridite. “O forse era tempo di vivere senza una grande idea?”, si domandava Svetlana Aleksieviĉ, bielorussa, nel discorso letto nel 2015 in occasione del conferimento del premio Nobel per la letteratura.

Abbiamo imparato a cominciare a vivere senza grandi ideologie che pretendevano di essere organiche ed esaustive, senza grandi Narrazioni (si sarebbe detto molti anni dopo) votate a spiegare l’intera realtà, l’universo degli accadimenti. Ci siamo confrontati con il senso di una convivenza priva di un centro unificante (e omologante?) unico ed esclusivo. Abbiamo imparato ad esistere come divenire.

E in questo divenire storia e vita personale da sempre si intrecciano (“il personale è politico” fu una parola d’ordine fondante del movimento femminista che nasceva anch’esso negli anni Settanta aprendo la strada a quella che si sarebbe poi definita “biopolitica”), ma in quel decennio in cui ci pensavamo al plurale, creatori insieme di mondi nuovi, mentre la realtà sociale esplodeva, la violenza – col breve anticipo di Piazza Fontana – urlava e urlava, le grandi Idee erano ormai esauste, non ci eravamo accorti che tutto cambia inesorabilmente.

Quali temi con lo sfondo degli anni Settanta attraversano il libro?

  • Ricerca, dalla critica al “sistema” dominante alla delineazione di nuovi modi di essere e di convivere (Quinto atto, Il sogno e l’evento: 1, 7, 8, 9)

  • Visione ideale, la motivazione più autentica e la speranza di mondi giusti, liberi, fraterni (Primo atto, 11 e 12)

  • Convegni, incontri interminabili per definire “la linea”, come se da quella dipendesse e discendesse il cambiamento della realtà (Primo atto, Nella moltitudine, 6; Tredicesimo atto, Personalmente, 9)

  • Sulle strade, in pubblico, in compagnia, in apertura e fraternità (Primo atto, Nella moltitudine, 2,3,9; Secondo atto, Cantilena della fabbrica, 9)

  • In contesti urbani: Roma, Milano, e nel Milanese i cortili, uno degli ambienti tipici della vita popolare (Primo atto, Nella moltitudine 3, Sesto Atto, Discordanze a sera, 1 e Decimo atto, Introflessioni notturne, 3); in contesti meditativi: l’Umbria con Assisi, Gubbio, Todi (Secondo atto, Cantilena della fabbrica, 6)

  • Fabbrica, come sfondo e elemento dirimente della dinamica sociale (Terzo atto, Al ritmo delle macchine, 1 e 2)

  • Treni, sempre in movimento per studiare e lavorare (Quarto atto, Amore in corsa, 5)

  • Crisi, la consapevolezza che un mondo stava terminando e che non si poteva ricostruire con gli stessi materiali e strumenti di prima (Decimo atto, Introflessioni notturne, 16)

  • Violenza e morte, i momenti tragici per mano dello Stato, dei neo-fascisti, delle BR & C. (Tredicesimo atto, Personalmente, 3)

  • Critica sociale e politica, a difesa degli oppressi, contro il potere cieco (Secondo atto, 5)

  • Personale e politico, fortemente annodati, con un continuo rimando reciproco, in mondi vitali (Terzo atto, Al ritmo delle macchine, 4)

  • Amore, in un contesto di libertà e di trasformazione dei costumi (Undicesimo atto, Mutabile verso, 1, 4, 6, 7)

  • Religione e fede, in un percorso di rinascita del sacro fuori dai recinti delle vecchie religioni (Dodicesimo atto, 11)

  • Internazionalismo, in una visione universale della persona e della storia, oltre i nazionalismi (Ottavo atto, 1)

  • Poeti, il senso del poetare in un periodo di continue crisi (Settimo atto, Poetare lento, 1)

 

E la poesia? Era il mio linguaggio quotidiano che si fissava, come appunti ancora timidi e incerti, su foglietti, block notes, quaderni, il retro dei volantini… cercavo attraverso le parole di dar forma alle mie emozioni ai miei pensieri che cominciavano a vagare liberamente, incerti viandanti della vita, sgorgando da un desiderio ingenuo di possedere il mondo. L’illusione antica di contrastare il destino con la forza delle parole. Così, del resto, nasce la poesia, come forma magica, prometeico e illusorio tentativo di avere potere sul tempo e sull’indifferenza del mondo attorno a noi evocando potenze superiori[6].

I fatti interni ed esterni, finché le parole non li trattengono, si perdono nel nulla. Ma le parole non dicono che l’irrealtà del reale, non possono che tradire formandosi l’intenzione e il significato originari, ed esse pure, se non accolte (o lette), sfumano.

A lungo ho pensato che il cuore della poesia fosse l’assoluto, la possibilità di liquefare i confini, di destrutturare il linguaggio usuale, di dialogare con l’impossibile. Ma forse il cuore più autentico del poetare è il limite, il non poter essere l’assoluto auspicato o temuto, il luogo totalmente libero in cui spaesarsi.

La poesia è piuttosto il luogo della grazia spigolosa, dell’universale sempre frantumato, dell’oscuramento luminoso del quotidiano farsi, nel mondo, di una presenza discreta e transeunte.

La poesia – per chi la crea – disvela, in quanto toglie i veli alle certezze assolute (dissolute?). Illude e disillude. Meraviglia e dissacra. Scuote l’umano che è in tutti. Perché apre all’immenso, il profondo che è in noi, mai tutto conoscibile, che ad ogni affaccio ci riserva una sorpresa lieta e terribile. Ciò che dentro soffia, l’ispirazione, fa (la poiesis per i greci, da cui poietés, il “facitore”), agisce, prima ancora di dire (il Dichter, dal latino dictare, il “dicitore” dei tedeschi)[7].

L’immenso a cui conduce e da cui nasce la poesia è la fucina di ogni possibile, perché ci immerge nella totalità indefinita dove anche noi siamo indistinti, da cui attingere un proprium che ci distingue e ci dà forma e si fa parole che, se ben ordinate[8], ci rendono viandanti, capaci di errare nel mondo e in noi stessi, immaginando ciò che possiamo essere[9] e attraversando (ciò che Heidegger intendeva per autenticità) tutte le esperienze e le possibilità di cui siamo capaci e che l’esistenza ci pone dinnanzi.

E nel cogliere ed esprimere una possibilità di essere, il poeta incontra il proprio limite e ogni volta va oltre, continuando il suo andare, senza alcuna meta precostituita. Perché, scriveva Hölderlin, “Un segno noi siamo, che nulla indica…”[10].

In questo andare senza meta “ogni poeta – scriveva Marina Cvetaeva – è in sostanza un emigrato”[11], un viandante con “passo di cometa: brucia e non scalda[12]”. Un viandante senza meta se non l’esistere come divenire, capace di accogliere l’accadere.

In quanto priva di punti fermi la mente non precipita nel nulla, ma sale verso la forma più alta di conoscenza, portando luce e buio nel conto imperfetto degli accadimenti a cui dà voce.

Ogni accadimento, interno e esterno a sé, è un incontro. La poesia è il canto dell’incontro, con i tanti noi e i tanti altri e altre: parole che danzano dall’uno all’altra, plasmano il silenzio curvandolo in abbracci, in un con-sentire che appaga la vocazione ad essere prossimi, della stessa natura e sostanza, appartenenti all’unica materia ed energia che abita l’universo.

I poeti trasformano la realtà in poesia rendendola sopportabile. Immaginano l’inesistente per rendere speciale una vita qualunque.

Per questo sono scomodi e poco letti ed ascoltati: perché, nel loro continuo fare e farsi, non si arrendono mai al già detto e al già dato.

 



Note al testo

[1] Giovanni Moro, Anni Settanta, Einaudi, Torino, 2007, p. 5.

[2] Ibidem, p. 112

[3] Il riferimento è agli scritti di Carlo Rovelli, e in particolare Sette brevi lezioni di fisica, Adelphi, Milano 2014, dove rappresenta un universo generato e retto da infinite relazioni.

[4] In piazza Petazzi, a Sesto San Giovanni, risiedeva Bianchi e lì per tutti gli anni Settanta (nel mio caso a partire dal 1973) passavamo a turno, o in piccoli gruppi, per impostare articoli e saggi o per fare da pubblico critico alla sua prolifica produzione poetica.

[5] Per tutti vale il riferimento a Giorgio Boatti, Piazza Fontana. 12 dicembre 1969: il giorno dell’innocenza perduta, Einaudi, Torino, 1999.

[6] Cfr. Anita Seppilli, Poesia e Magia, Einaudi, Torino, 1971

[7] Cfr, Francesca Sensini, La lingua degli dei, il melangolo, Genova, 2021, p. 32)

[8] Katá Kosmon, secondo bell’ordine, così devono comporsi la scrittura e il canto se vogliono ambire alla bellezza, ricorda Umberto Curi, L’apparire del bello, Bollati Boringhieri, Torino, 2013, p. 28

[9] “La poesia è la capacità di immaginare ciò che l’uomo può essere; è l’essenza stessa del senso di possibilità”, Flavio Ermini, Editoriale, in Anterem, Verona, n. 100, giugno 2020.

[10] F. HÖLDERLIN, Mnemosyne, in Le Liriche, traduzione di E. Mandruzzato, Adelphi, Milano,1993

[11] Cfr. Ranieri Teti, La vita impressa, Book editore, Ro Ferrarese, 2022

[12] Cfr. Marina Cvetaeva, Il poeta, in Dopo la Russia, a cura di Serena Vitale, Mondadori, Milano, 1988.

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