top of page

Paola Nasti su "Serie nera e verde" di Giusi Drago

  • almanacco
  • 17 mar
  • Tempo di lettura: 10 min


Immagine Di Paola Nasti
Immagine Di Paola Nasti


Note di lettura su Serie nera e verde di Giusi Drago

 

 

Hilma af Klint, una delle madri dell’astrattismo novecentesco, attribuiva grande importanza simbolica al colore verde; che nasce dalla sintesi dei primari blu e giallo - rispettivamente riferiti, dalla pittrice svedese, al femminile e al maschile. Il blu notturno e il giallo solare si uniscono a costituire il colore verde, che sarebbe la manifestazione simbolica della coppia. Nella sua ultima raccolta, Serie nera e verde (Seri editore, Macerata, 2024) Giusi Drago ha giustapposto, sin dal titolo, due serie e due colori – o forse un’unica serie, che è sia nera che verde, di colore cangiante. Due serie e due colori contrapposti: come la morte e la rinascita? Il verde, pensando all’opus magnum alchemico, è transizione dalla nigredo – morte e decomposizione – alla realizzazione della rubedo, l’opera al rosso, compimento finale delle trasmutazioni alchemiche. Il Cristo verde, di quella che è forse la più bella deposizione mai realizzata in pittura, dipinta da Rosso Fiorentino, è una allucinazione sbalorditiva, in cui il colore del corpo morto già allude alla sua resurrezione, pura viriditas. Quando si interroga il titolo di un’opera di poesia ci si perde in una serie infinita di considerazioni e congetture, che a volte nulla hanno a che fare con il contenuto del testo, con le intenzioni del poeta; d’altra parte il titolo è una specie di scudo di Achille, un mandala riferito ad ogni singola poesia raccolta e, esso stesso, testo separato e indipendente, poesia a sé.

L’indice di questa ultima raccolta di Giusi Drago ci dice subito alcune cose. Ad esempio: che la serie nera è lunga il doppio della serie verde. E che, per quanto sia “nera”, comprende l’interludio “comico” dedicato a Goethe e Spinoza. Ci dice anche che la serie verde si conclude con una specie di sintesi, intitolata Serie nera e verde - animale e vegetale; e che questa sintesi è disposta nell’indice come parte dell’antitesi, inglobata in essa. Ancora. La Serie nera e verde - animale e vegetale viene dopo il Sistema-prato e il Sistema-fiume - due sistemi, minerali e vegetali: una nuova dieresi dopo la manifestazione di ben due sistemi paralleli. Il nero e il verde intrecciati nella mescolanza di regno animale e vegetale. Il regno animale corrisponde forse al nero della prima parte della raccolta? che è “nera” perché parla della funesta condizione umana – dalle lombalgie agli sfratti, dalle paresi del volto alle guerre? Il nero animale-umano si contrappone forse al verde vegetale? La dialettica non può chiudere, quando si tratta di poesia, sistema aperto per eccellenza; nemmeno quando è una poesia fortemente strutturata, e di pensiero, come quella di Giusi Drago. L’autrice è, di formazione, filosofa e pratica professionalmente il mestiere di traduttrice, dal tedesco; forse l’esercizio massimo di riflessione e di pensiero, cioè quello che si applica alla lingua.

La NNUI (Nota Nichilistico Utopistica Introduttiva) è un buon viatico a inizio raccolta. Si parla di zappatori-dissodatori, assunti a giornata; e di uova di dinosauro; di legge morale in perpetuo conflitto, in eterno tandem col Male Radicale; di atti di pacificazione e di crolli di natalità. Sin dalle prime battute la cifra del conflitto attraversa quest’ultima opera della Drago. Serie nera e verde è il suo libro più complesso, quasi summa dei precedenti – tutti i temi risultando qui ben connessi in un unico organismo vivente. È, rispetto ai precedenti, un libro dialettico; che mostra, però, il deflagrare di ogni dialettica, di ogni tic-tac del ragionamento. Il nichilismo e l’utopia si guardano negli occhi, sin dalla prima pagina, in una ricerca di pace senza pace, senza composizione (prologo, sviluppo e conclusione attraversati dalla non-conciliazione, dalla sua impossibilità feconda). Questo libro dicotomico è l’esposizione della piaga, dello smarrimento balbettante di tutte le dialettiche. La poesia sembra sgorgare direttamente da questo dolore dell’inconciliabile.

Il poemetto Non si sono detti niente, seconda parte in ordine di apparizione, risulta costituito di cinque testi. Il tema della separazione, della fine dell’amore è disposto. Parole in gramaglie, in veste di vedovanza. Unioni che si chiudono in bestemmie davanti alle porte automatiche di un supermercato. Preghiere e silenzi contrapposti, uno contro l’altro, a denti digrignati: abito di gente sorda, dura, edera nera / che fiorisce in gola e prima o poi la chiude tutta; allitterazioni, assonanze e dentali in una spaventosa bocca dentata che si riempie di piante soffocanti. La fine già era compresa nell’inizio, una fine senza salvezza, che porta, piuttosto, al nascondimento, alla latenza-latitanza; a una dissolvenza che non lascia il posto alla pace, né al discorso; piuttosto conduce al silenzio, che sverna nella bocca, ha facili trionfi / nel non avere voce o suono (…) trionfo di nostra deposizione come animali sociali / come animali amanti, invece, tripudio di smagrimento. Il paradosso del tripudio non di floridità, ma di smagrimento; il trionfo e il suo opposto convivono nelle stesse ossa / di topo che si assottigliano / lo squittire di chi ripete in serie / i multipli le separazioni. Tutto già scritto in anticipo: nelle vene del racconto un inizio e una fine velenosa / la prima scorciatoia presa per la clandestinità.

La seconda mini-serie, Che strana lingua, mette in scena, anche visivamente, la frattura, che è frattura del discorso. Le parole sulla carta si fronteggiano in due colonne, di tanto in tanto tenute insieme da un verso comune centrale, una specie di sigillo. Il dialogo con sdoppiamenti e convergenze, possibilità di integrazione e distinzione simultanee. Il coro della tragedia; le battorinas dei pastori sardi. Disorientamento nella lettura, che può procedere linearmente; o in verticale, quasi per colonne.  Nuclei di senso attraversano la pagina nelle possibili direzioni di lettura; come se non si trattasse più della capacità di seguire il filo continuo del discorso. Che qui rivela la sua natura: dis-corso, appunto. Ancora una volta, la coppia che si rompe. E l’esile conciliazione delle parole centrali: è semplice, s’impara subito. La conciliazione è nella pazienza dell’imparare. Già lo diceva, l’autrice, in Bestie sempre in salita (2014) – parlando di animali resi docili dal buio e infine disponibili alla luce. La parola poetica sana la frattura con la sua esattezza e con la sua perfezione; ma sempre si consolida col solo scopo di dissolversi: Per un attimo tutte le parole / galleggiano dentro / la bocca senza intralciarsi / o urtare contro / gli argini dei denti / tutte parole rotonde / quelle inventate, quelle imitate / le proprie, le altrui / tutte così cortesi nel dissolversi / in quell’attimo di perfezione.

In Under Attack troviamo, ancora una volta, la manifestazione della coppia che si rompe; questa volta una parte tenta di sbranare viva l’altra: Perduta ogni garanzia / e la reciproca grazia / ti svegli in tribunale / dove un giudice sempre deduce / una verità da un’altra. E dopo le efferatezze del tribunale, quelle della ricerca di una casa, di un posto in cui stabilmente abitare, raccontate nella serie Milano per minotauri. Naturalmente la vicenda immobiliare-edilizia è metafora di altro. La sezione ha in esergo le parole di Giuliano Mesa, poeta caro all’autrice: passa il tempo e fa danno. Gli affanni della ricerca si solidificano in terrori e ossessioni: la cronofobia, angoscia del non essere in tempo; la fotomania, la mania della luce che si traduce nell’autoscatto e nella necessità di appuntarsi addosso una faccia. I minotauri proprietari sono contrapposti ai rivoluzionari, seduti su sedie alla Voltaire, che si fanno sparare e sparano, ma dal tetto delle case – non dentro le case. I minotauri, invece, salgono su e giù con gli ascensori, senza tregua e senza mai raggiungere l’aria aperta che si trova sui tetti, a contatto del cielo.  La ricerca della casa dà luogo a domolatrie; la casa e il tetto sono rimandi reciproci all’essere dentro e fuori; e forse al desiderio di abitare fuori dalla casa-labirinto, come la mistica medievale Alpais de Cudot di cui parla Buber, che non sopportò più di entrare in una stanza e per questo trascorse tutta la vita fuori, all’intemperie.

Dopo la dissociazione del verso (Che strana lingua) la dissociazione del volto in In pasto alla sfigurazione. Raffigurata l’alternanza di due metà che non coincidono, di cui una non è in continuità con l’altra: occhio contro occhio, bocca contro bocca. Il conflitto insanabile si sposta nella carne, nella sua parte più esposta, nel viso: Non c’è figura dove c’è divorzio / fra una metà e l’altra della faccia / dove una semibocca caccia di casa l’altra. Persino da questo è facile imparare: in ginocchio davanti alla forza / della sfigurazione arrendersi, dimettersi / dichiarare che la forma è antiquata…  rinunciare a molto… pure all’azione strutturante della forma. La rinuncia non significa, certo, resa. Significa spostare il combattimento su un altro fronte, senza requie. Significa attivare cure di bellezza – più connettivina, più connetti-vivacina per tutti / i tessuti smangiati dalla carie sociale. La vicenda del volto in pasto all’emiparesi allude ad altre sconnessioni, ad altri divorzi; alla fine della forma che rendeva intellegibili le cose, la realtà storica; allude alla ricerca di nuove forme. Picasso e le sue buone novelle.

Questa serie di vicende di affanno e sventura cede poi il passo a testi incentrati su Goethe e Spinoza, gli olimpici campioni di Occidente, che guardano, dall’alto dei secoli, la vicenda della sfigurazione, mantenendo – loro che ancora possono – intatta la figura, la sintesi. Seppure imbarcati in vicende umane, troppo umane. Come l’ascolto dei Pink Floyd; o il varco di un fiumiciattolo emiliano che per caso richiama alla mente il grande fiume tedesco.  S&G si intitola il poemetto loro dedicato. Quasi tutta la sezione, mozartiana, è centrata su Goethe. In questi testi la Drago intreccia la grande cultura, i classici, con il paesaggio del presente, in maniera irriverente, giocosa e vitalissima. Quasi a formare un talismano, le vicende di S e G vengono inserite ancora nella parte nera della serie; come un antidoto contro la devastazione. Sono specchio puro della ragione, filosofica e poetica, che restituisce la forma ad ogni sfigurazione; sono la magia dell’immagine che ritrova se stessa e diventa felicemente leggibile e chiara, eterno rifiorire del fiore / azzurro e nuovo di Novalis. Questi due improbabili supereroi scendono sulla terra sfigurata, in jeans e giubbe borchiate, in una qualche provincia emiliana, per raccontare il loro disagio; per deporre il loro essere campioni dell’ordine e mostrarci cosa c’è dietro la loro restituzione perfetta: qualcosa che non smentisce/tradisce, mai, l’essenza profonda del reale-in-forma; che rivela, piuttosto, il percorso accidentato della trans-formazione. La traduzione del nulla in senso, la trans-figurazione dell’insensato. La sezione si apre con un esergo dall’Ethica more geometrico demonstrata: il monstrum non ancora de-monstratum d’Occidente è la pretesa riduzione del significato alle meschinità del finalismo antropocentrico. Effetti di allucinazione / in un vasto sistema di grotte e ombre sono i vacillanti significati che attribuiamo alle cose quando, impazienti, pretendiamo di vedere. Di nuovo si spezza la linearità del verso della Drago, che diventa interlineare e sconnesso – parole singole sotto il rigo possono riferirsi allo spazio che manca nella linea superiore; ma anche avere significato deviante, link per nuove derivazioni di significato. La fluidità del testo poetico diventa, di nuovo, come un fiume carsico che entra ed esce dalla superficie della terra. L’illusione millenaria del nome, della sua affidabilità, della sua certezza, si contrappone alla verità del senza nome-senza occhi: hanno nome / occhi / esistono / perché il mondo sia credibile allo sguardo … la luce del sole / insegna / che per vedere / bisogna salire più in alto dei percentili. Goethe se ne sta con le scarpe nel fango e osserva lo Zena, che vorrebbe essere il Reno, e il Reno che vorrebbe essere il Danubio; e capisce che questo vostro piccolo Reno e l’ancor più piccolo Zena / al confronto sono poeti appartati / ma i resti di organismi marini sono evidenti / tanto sulle più alte montagne / come su basse colline. Il fondo del mare si trasferisce sulle montagne (e sulle colline) e dice di questa trasfigurazione – che è poi la stessa trasfigurazione operata dal linguaggio della poesia, grande e piccola. Un Goethe addicted, che non sa più distrarsi dalle notifiche delle app, dagli schermi luccicanti nella notte; che per questo non sa più scrivere il Faust; dipendente dalla droga psichedelica dei Pink Floyd, di cui ascolta in loop Atom Earth mother, e sente che una tenia multicolore gli fiorisce nelle orecchie. Il comico viene fuori, in questi poemi, senza dissacrazione né rimpicciolimenti; un comico affettuoso, si direbbe, nato dalla lunga consuetudine dell’autrice con i testi del grande maestro tedesco della poesia, e che ci restituisce un Goethe che impara a guidare tra le curve della strada per Monghidoro, con la P di principiante sul cruscotto posteriore - perché in qualcosa almeno pur dev’essere scarso, bisognoso di sentirsi dire “bravo”.

Le fratture della serie nera si compongono, infine, in una struttura che non ha nulla di solido. È la struttura dell’acqua. La fiumità si direbbe categoria dello spirito nella Serie verde. Si può osservare una sorta di fedeltà dell’autrice al tema del fiume, sin dagli inizi della sua scrittura (si veda almeno Delta Dunâri, del 2014). Nella figurazione naturale convergono, ancora una volta, temi filosofici importanti: Eraclito e i presocratici, che sono stati oggetti di studio giovanile da parte della Drago. I fiumi come le vene azzurre che percorrono la terra. L’acqua, per ossimoro, è il più solido dei sistemi. La conciliazione può solo essere affidata al trascorrere fluido e provvisorio: e quel male, si sa, non può risolversi, / ci vuole fiumità, ci vuole una bella camomilla / quando la volontà entra, come le piace, come / le fa comodo, in opposizione con le altrui: war.

Anche il prato, il “sistema prato”, epicentro di rivoluzioni, manifesta la provvisorietà della conciliazione, la sua estrema precarietà, il suo non essere segnato dallo stigma dell’identità: come se il prato fosse un blocco d’erba / umida o secca e non diaspora rigata da fratture, / coagulo di fazioni, asilo di congiure. ⁠Nel sistema prato si identificano, ancora una volta, natura e storia, privato-personale e pubblico-universale. Può essere volto dissestato dalla sfigurazione; o semplice distesa d’erbe; o campo di schieramento di eserciti. È il tema, zanzottiano, del paesaggio, che si mostra in una declinazione nuova nella poesia della Drago.

L’ultima sezione parla di Jung, di Pauli e di elefanti: merce di prima qualità, fatti fatali – merce nera, / noir, contrabbando – la banda suona litanie // di fallimenti e d’altro canto si sentono i lamenti / dell’erba che marcisce senza motivo / ferma sotto la pioggia // verde poco narrativo rispetto al nero”.  L’elefante-pensiero si aggira inquieto nel verde-nero della foresta: cammina e cammina nella foresta / sempre all’interno del mondo / o della nostra testa // non è ogni cervello qualcosa / di solitario e di unico? Refrain degli ultimi testi: l’unicità è singolarità preziosa, ma è anche solitudine, irriducibile e straziante. La selva quasi infinita dei significati si rivela forse l’immagine vera e ultima dell’intreccio del verde e del nero di tutta la raccolta; la silva silvarum di Dante e di Bacone, di Pauli e di Jung, interna ed esterna rispetto ad ogni singolo cervello; la sua impenetrabilità e il suo creare false piste, in cui ogni elemento si smarrisce e lamenta insignificanza; eppure non può venir meno all’intreccio; e all’intreccio, storico e naturale, non può opporre alcun ordine definitivo: spesso per ignoranza del tema dominante / anche i libri si disarticolano nella foresta / e di tutte le tracce seguono la più irrilevante // sempre al centro di tutto c’è / un fuoco divenuto casa un tetto / per coprire lo spreco / che noi sempre facciamo / del verde in nero.

 

 

 

Comments


Post in evidenza
Post recenti
Archivio
Cerca per tag
Seguici
  • Facebook Basic Square
  • Twitter Basic Square
  • Google+ Basic Square

© 2023 by The Book Lover. Proudly created with Wix.com

bottom of page