Giuseppe Zoppelli su Tremalume di Fabio Pusterla
Parola navicella parola libertà
la velavento solca il linguamare
forzando norme ordine bufere
solo tragitto desiderio del vero
la falceluna allumina le tenebre
nel viaggio arrischiato di arsura
quando nessuna rotta stella dà
fiducia ai naviganti in cupocielo
onda che rinvia onda dura nera
davanti insulsi lidi mete incerte
verità che s’accende tremalume
in notti lunghe e incubi d’attesa
breve chiarore in levità dell’aria
annuncia giorno sole lucepiuma
l’altissima forse speranza che va.
La parola e il linguaggio articolato sono le più alte espressioni dell’intelligenza simbolica di Homo sapiens sapiens e della sua capacità di simbolizzare il mondo, che lo contraddistinguono dal restante vivente: parliamo e siamo parlati dal linguaggio (esistono, peraltro, anche linguaggi non verbali e pre-verbali), lo possediamo e ci possiede, lo formiamo e ci forma, lo modifichiamo e ci modifica, è langue e parole, e il nostro stesso mondo prende vita e forma grazie all’infinita combinazione delle lettere dell’alfabeto. Nessun’altra specie vivente lo possiede in così elevata misura, tale da consentire alla specie umana non solo di comunicare, facoltà che variamente possiedono anche le altre forme di vita, ma di elaborare e trasmettere patrimoni culturali, testimonianze e memorie, pensieri speculativi, saperi scientifici, narrazioni e cosmologie, creazioni letterarie e poetiche, rappresentazioni e trasfigurazioni del mondo, trascendenza dell’hic et nunc.
Sarà forse per questa ragione che Fabio Pusterla inaugura la raccolta Tremalume (2022) con un testo incipitario anomalo ed extravagante, “fuori formato”, non propriamente poetico né in prosa, ma che riunisce di entrambi specifiche caratteristiche, quali la misura del verso e l’a capo tipografico, se non che la lunghezza della riga è stabilita dall’autore stesso, e comunque molto più breve dell’andare a capo alla fine del margine destro della pagina, un testo – si diceva – dedicato alla parola, in special modo poetica: «Parola navicella parola libertà» (ma senza – appunto – versificazione, mentre il discorso è svolto in un unico e sinuoso periodo privo di interpunzioni e di punti fermi, con pochi articoli, soltanto cinque, e poche connessioni logico-sintattiche, sì che a volte ne risente l’unidirezionalità della lettura, e con frasi a volte interamente nominali, un linguaggio poetico – almeno in questo testo, si direbbe – di ascendenza simbolista ed ermetica tendente all’assolutizzazione del discorso stesso, che tuttavia contrasta con i presupposti poetologici di Pusterla, campione dello “stile semplice”, e con il resto della raccolta: 15 versi/righe in tutto, non rimati – solo qualche iterazione lessicale, qualche assonanza e rima interna – e non isosillabici, in prevalenza endecasillabi, ma anche metri che vanno dal novenario al doppio settenario, tenuti entro lo stesso spazio tipografico grazie all’aumento, a volte, degli spazi tra parola e parola).
Una parola, che per il poeta è atto di parole a fronte della langue (“linguamare”), che veleggia nel mare della lingua madre (si noti anche il sottinteso gioco linguistico “lungomare/linguamare”, da cui forse deriva, per associazione paronomastica, la neoformazione pusterliana), che la solca e attraversa in tutte le direzioni e con tutti i venti creando nuove e inesplorate rotte, sfidando le norme codificate e comuni, e le avversità del vivere: «la velavento solca il linguamare / forzando norme ordine bufere». Atto di fede e d’amore per la parola poetica, in continua creazione (neologismi che nascono soprattutto, come il titolo stesso della raccolta, dalla fusione di due termini, che danno vita a parole composte come velavento, linguamare, falceluna, cupocielo, tremalume, lucepiuma), mossa e messasi in viaggio da un leopardiano “desiderio del vero” e che, come la falce di luna (reminescenza dannunziana?), illumina l’oscurità in cui avviene il cammino, minacciato dalle tenebre e dall’arsura, ma soprattutto ormai privo – per l’uomo contemporaneo di fine e inizio millennio – di coordinate, di mappe, di astrolabi, di bussole, di portolani, di punti fermi, di costellazioni e stelle fisse (sono solo, ormai, come vuole Sereni, variabili), e nonostante le più avanzate tecnologie, con cui orientarsi in mare aperto, come scriveva già alla fine del Novecento lo storico Eric Hobsbwaum: «Alla fine del secolo è stato possibile per la prima volta capire come sarà un mondo nel quale il passato, incluso il passato nel presente, ha perso il suo ruolo, in cui le vecchie mappe e carte che hanno guidato gli esseri umani, singolarmente e collettivamente, nel loro viaggio attraverso la vita non raffigurano più il paesaggio nel quale ci muoviamo, né il mare sul quale stiamo navigando. Un mondo in cui non sappiamo dove il nostro viaggio ci condurrà e neppure dove dovrebbe condurci» (Il secolo breve).
E il poeta, a testimonianza di questo stato di spaesamento e di disorientamento in cui si trova l’umanità e di questo suo viaggiare a vista, per di più senza avere presente alcuna rassicurante meta, se non illusori approdi: «solo tragitto desiderio del vero / la falceluna illumina le tenebre / nel viaggio arrischiato di arsura / quando nessuna rotta stella dà / fiducia ai naviganti in cupocielo / onda che rinvia onda dura nera / davanti insulsi lidi mete incerte». Ma ecco la pascoliana “lampada della poesia” farsi strada con la sua fioca luce in cotanta tenebra, il tremalume, neologismo che marca la precarietà e il tremore spaventato di questa luce incerta che si inoltra in un mondo diventato improvvisamente indecifrabile e incomprensibile – nulla di fronte ai potenti riflettori e alle luci di scena della società dello spettacolo e della sovraeccitata industria del divertimento – che non promette salvezza o grandi rivelazioni, neologismo – dice il poeta nell’aletta di copertina – «in cui il tremore, la minaccia e la preoccupazione non eliminano affatto la piccola sopravvivenza di un lume, di una minima luce a cui affidarsi»: «verità che s’accende tremalume / in notti lunghe e incubi d’attesa / breve chiarore in levità dell’aria / annuncia giorno sole lucepiuma / l’altissima forse speranza che va». La debole e tremolante luce della parola poetica mantiene intatto il suo ineliminabile carattere utopico, secondo quel principio speranza indagato filosoficamente da Ernst Bloch, annuncia – se non l’improponibile Sol dell’avvenire – almeno un nuovo giorno, il sopraggiungere di una luce leggera come una piuma, non gravata solamente dalla paura e dal terrore di un mondo che ci spaventa e che ci presenta sfide tutte umane che paiono insostenibili e di cui siamo la causa (crisi ecologica e riscaldamento globale, pandemie, guerre).
La fiducia nella parola poetica è ulteriormente avvalorata dall’acronimo trasversale segnalato dalle lettere in grassetto che rivela ancora una volta quello che la poesia è per Pusterla: “parola navicella”, che trasporta l’umano, o ciò che di esso ancora sopravvive, lanciata nello spazio profondo, come quelle sonde spaziali che contengono le immagini di un uomo e di una donna che – a futura memoria – viaggiano negli spazi interstellari. Non a caso la “parola navicella”, la “velavento”, il “linguamare”, il “viaggio arrischiato”, così come il lasciarsi alle spalle le “bufere” e l’“onda dura nera”, paiono riecheggiare il viaggio di Dante nei tre regni dell’oltretomba (e anche la “parola libertà”, così cara al Catone dantesco): «Per correr miglior acque alza le vele / omai la navicella del mio ingegno, / che lascia dietro a sé mar sì crudele» (Purgatorio, Canto I, vv. 1-3).
Questa atipica ouverture, questo microtesto contiene l’intero macrotesto, come una goccia d’acqua sembra contenere l’intero mare, una sineddoche, una parte per il tutto: è, contemporaneamente, una dichiarazione di poetica e una riflessione poetologica, come quella sfera riflettente tenuta da una mano che ci restituisce l’autoritratto di Escher (Mano con sfera riflettente, 1935), e che dunque riflette l’autoritratto poetico di Pusterla, e una anticipazione dell’intera raccolta e del mondo che vi è rappresentato, come quelle sfere e quegli specchi convessi riflettenti in tanta pittura fiamminga, che ci restituiscono prospettive inedite e spazi altrimenti invisibili, come nel quadro di Van Eyck Ritratto dei coniugi Arnolfini (1434), in cui l’immagine nello specchio appeso al muro ci restituisce i due coniugi da un punto di vista rovesciato a partire dalle loro spalle e quella porzione di stanza che, altrimenti, resterebbe inaccessibile allo sguardo. O come nel dipinto di Quentin Massys L’usuraio e sua moglie (o anche Il cambiavalute con la moglie, 1514), in cui il piccolo specchio da tavolo, convesso, posto al centro fra i due, riflette quella parte di stanza fuoricampo, quasi del tutto occupata, nella deformazione, da una grande finestra illuminata dalla luce del giorno (e in piccola misura dalla presenza di un cliente, o dello stesso artista?), mentre l’avido cambiavalute in primo piano è intento a pesare le monete col bilancino distraendo la moglie dalla lettura di un prezioso e miniato libro sacro.
In fondo anche la poesia, che non è riproduzione della realtà ma produzione di nuova realtà, è uno straniante specchio convesso e deformante: rende visibile l’invisibile, reale l’irreale, e viceversa, confonde sogno e realtà, rappresenta quelle parti del vivere che restano escluse dalle solite e ridondanti immagini dei media. La poesia non semplifica e banalizza ma restituisce in tutta la sua complessità e contraddittorietà la realtà che, come insegnano il principio speranza e l’utopia blochiana, non coincide semplicemente con l’amministrazione del presente, con la sua superficie, con la sua presunta immobilità, con il realismo volgare irrigidito in un eterno presente: il reale è dinamico, è movimento, è un campo di tensioni, di contraddizioni, di latenze e di possibilità, in cui si fanno “sogni ad occhi aperti”, e – in fondo – l’arte è questo sognare ad occhi aperti, e in cui il desiderio rappresenta il mondo non così com’è, ma come dovrebbe essere. Il presente stesso è una stratificazione di più tempi, una compresenza di ritmi temporali, una poliritmia, un multiversum, una compresenza di diversi strati temporali. Anche per Pusterla, dunque, sopravvivono, nonostante i tempi di “cupocielo” e le “tenebre” che avvolgono il mondo contemporaneo, una “speranza che va” e un’apertura utopica.
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