top of page

Gianni Caccia su "Chi vive se ne pente" di Mario Marchisio



Dopo aver praticato la prosa come saggista e autore di aforismi (e in tal senso Il diadema delle tenebre resta più che mai emblematico)[1], l’eclettico Mario Marchisio ha deciso di sperimentarla nella veste di narratore. Sono nati così i tredici racconti di Chi vive se ne pente, edizione riveduta e ampliata della raccolta uscita anni addietro col titolo Carni scosse (Edizioni Aurora Boreale, Prato 2012), nella quale ritornano i temi cari alla poetica dell’autore, quali il gusto compiaciuto del macabro, che ricorda da vicino soprattutto le poesie necrofile di Bisbigli sotto il marmo[2], e soprattutto la visione dell’esistenza desolata e priva di qualsiasi speranza salvifica, essendo la carne, con allusione al significato ebraico di esistenza umana, luogo di corruzione tanto fisica quanto morale sin dalla nascita.

Nei tredici testi che compongono la raccolta Marchisio mette in scena vite turbate, sconvolte, spaventate da paure ancestrali, da catastrofi incombenti, o più semplicemente dal male che le carni, i corpi fanno o subiscono. E senza dubbio il loro filo conduttore, come è ben evidenziato nell’illuminante prefazione di Dario Capello, è quello della follia, più o meno lucida, e della vendetta: individui alienati, sottilmente perversi, profondamente infelici, talora irrimediabilmente diversi, segnati da un tarlo, una culpa naturae lucreziana come il Minotauro abilmente rivisitato di Ascanio, talora invece apparentemente normali come il signor Grifo di Condiscendenza o crudelmente bizzarri come la Cassandra di Fabiana, tali sono i personaggi che popolano questo campionario di un’umanità degradata che non conosce grazia o redenzione dal male.

Tema dominante del libro, e non poteva essere altrimenti, è in effetti il male declinato in tutte le sue forme possibili, cemento e collante dell’esistenza stessa, eternamente e irreparabilmente connaturato all’uomo, dal quale, si legge tra le righe, pare non ci sia altra difesa che il male stesso, come ben esemplificano le vicende dei racconti Guarigione, Rubino o del summenzionato Condiscendenza. E nelle pagine fa capolino, ancora una volta, quel sottofondo gnostico che costituisce un po’ l’essenza fondamentale del pensiero marchisiano, ben ravvisabile nelle raccolte poetiche sepolcrali di Tre giornate[3]: il mondo parto di Ialdabaoth, votato al male per sua intima essenza, l’impossibilità, o la problematica possibilità di una salvezza, come nel felicissimo finale aperto di Marmo.

Connesso a questo tema è il totale svilimento del corpo anche nel senso stretto del termine; la prigione di un’anima dannata, il ricettacolo del peccato non solo è l’oggetto della violenza più o meno gratuita, più o meno compiaciuta, ma è anche visto nel suo disfarsi, decomporsi, o semplicemente nel suo inesorabile correre verso la morte, la fine, l’approdo (altra costante della poetica di Marchisio) sottilmente corteggiato, tanto che forse la dissoluzione è l’unica salvezza possibile per una carne che come la rosa marcisce già al suo nascere. La vita, ci indica il titolo della raccolta, è di per sé una condanna, una maledizione verso la quale ogni pentimento non può che essere tardivo, come riassume in maniera icastica il dialogico Matrioŝka, non a caso posto a conclusione del volume. Ultimo, ma non meno importante ingrediente di questi racconti è l’impossibilità del rapporto fra uomo e donna, in sostanza l’incompatibilità e incomunicabilità fra i due sessi, quasi punto estremo e necessario di tutte le guerre fra individui; un tema che scorre sottotraccia in tutta l’opera ed è motivo conduttore di Coppie e Amnesia.

I racconti di Chi vive se ne pente si segnalano inoltre per la loro sapiente tecnica costruttiva, caratterizzati come sono da sintassi e da un linguaggio sempre tesi allo spasmo e da passaggi concettuali non sempre palesi; per questo lo sviluppo della storia non è mai banale e il lettore è chiamato a tener desta la propria attenzione per individuare i passaggi, gli scarti, le variazioni. Conferiscono poi un ulteriore pregio narrativo ai testi sia la presenza dei sottotitoli, secondo un uso tradizionale della novellistica (il che mostra, pur nella lontananza dal modello boccacciano, la capacità da parte dell’autore di maneggiare lo strumento della prosa narrativa), che ci informa della trama ma che non impedisce l’effetto sorpresa, il guizzo, l’impennata che dà la svolta al racconto (e sotto questo aspetto lo squallido quadretto familiare ben tratteggiato in Fabiana è un autentico gioiellino), sia scelta di evitare la rappresentazione esplicita sulla scena di atti violenti, che o sono accennati o sono già avvenuti dietro le quinte.


 


[1] M. Marchisio, Diadema delle tenebre, Edizioni dell’Orso, Alessandria 1990. La versione definitiva degli aforismi e pensieri è intitolata Caleidotératoscopio. Torto e ragione del frammento, puntoacapoEditrice, Pasturana (AL) 2021.

[2] M. Marchisio, Bisbigli sotto il marmo, Ripostes, Salerno 1992.

[3] M. Marchisio, Tre giornate. Poesie edite e inedite, Edizioni Aurora Boreale, Prato 2013 (si veda in particolare la prima, ampia sezione del volume, intitolata Il sarcofago).


Comments


Post in evidenza
Post recenti
Archivio
Cerca per tag
Seguici
  • Facebook Basic Square
  • Twitter Basic Square
  • Google+ Basic Square

© 2023 by The Book Lover. Proudly created with Wix.com

bottom of page