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#pietredifiume - aprile 2025

  • almanacco
  • 7 apr
  • Tempo di lettura: 9 min

 “CERCARE UN PAESE INNOCENTE”

LO STRANIERO E IL PERTURBANTE TRA SCIENZE UMANE E POESIA

Sonia Caporossi

 

 




Girovago

 

Campo di Mailly maggio 1918

                 

In nessuna

                   parte

                   di terra

                  mi posso

                  accasare

 

                  A ogni

                  nuovo clima

                  che incontro

                 mi trovo languente

                 che una volta

                 gli ero stato assuefatto

 

                 E me ne stacco sempre

                  Straniero

 

                  nascendo

                  tornato da epoche troppo

                  vissute

 

                 Godere un solo

                  minuto di vita

                   iniziale

 

                 Cerco un Paese

                   innocente

 

                               Giuseppe Ungaretti

 



 

Il concetto di straniero, in termini novecenteschi magistralmente esemplificato nel celebre Girovago di Giuseppe Ungaretti, è di terrificante attualità in tempi come questi, in cui la xenofobia della porta accanto ha trasceso trumpianamente il livello della decenza e si è incarnita come un canchero nella metamorfica parvenza di uno pseudoragionamento politicante. Per cercare di penetrarne l’intima natura, per dipanare come e perché si stia assistendo, al giorno d’oggi, all’orribile espressione di un razzismo svincolato da qualsiasi senso di colpa, occorre innanzitutto farne una disamina scevra da sovrastrutture, cominciando col capire che l’idea di straniero trascende la semplice questione anagrafica. Per Remo Ceserani, ad esempio, si tratta di una proiezione culturale o psicologica implicata storicamente con la percezione relativa al singolo paese. Per Umberto Curi, del resto, tale proiezione psicologica e culturale si manifesta attraverso la constatazione che “lo straniero è ambivalente – è l’ambivalenza. In quanto è thauma, non posso vivere la sua presenza, il suo arrivo, se non come una minaccia. Ma insieme avverto, nel cuore stesso del pathos che è inseparabile dal contatto con lui, che quella pur ineliminabile minaccia è per me feconda, mi conferisce qualcosa che, pur inconsapevolmente, attendevo da tempo e di cui non potrei fare a meno. Posso respingerlo – certamente – in quanto è minaccia. Ma contestualmente, se mi accingo a questo, percepisco anche un mio profondo e irrimediabile depauperamento. Alla sua duplicità dovrei saper rispondere con altrettanta duplicità. Dovrei riuscire a temerlo e a desiderarne l’arrivo, a spalancargli le porte della mia casa, e insieme a tenerlo fuori da essa, a respingerlo con la massima fermezza, e contemporaneamente ad accoglierlo come se si trattasse di una benedizione” (U. Curi, Straniero, Raffaello Cortina Editore 2010, p. 12). Una tale contraddizione ci pone di fronte ad una sorta di estraneità di secondo livello: nello straniero percepiamo l’estraneità che vige in noi stessi.

Julia Kristeva, semiologa di Sofia, psicanalista a Parigi, nel suo Stranieri a noi stessi. L'Europa, l'altro, l'identità (uscito originariamente per Feltrinelli e poi riedito da Donzelli nel 2014 in una versione riveduta e accresciuta), sottolinea come la concezione dell’autoestraneità sia base di partenza ineliminabile per comprendere appieno come il tema dell’alienazione si sia storicamente svincolato dalle idealizzazioni posthegeliane, per assurgere infine al livello di un’urgenza psicologica e sociale di inaudita attualità. In quest’opera, che mescola punti di vista multiformi come antropologia, religione, sociologia e psicologia, Kristeva pone l’accento sulla definitiva estetizzazione della figura dello straniero così come viene problematizzata in Occidente: essa appare definita più nel cinema e nella letteratura che nei saggi e negli studi psico-sociologici. Ma quali sono gli elementi dello straniero che Freud chiamerebbe perturbanti, in base ai quali l’individuo autoctono percepisce il senso di straniamento che porta e comporta il rifiuto del contatto?

Il primo elemento perturbante per chi è autoctono è di natura antropologica: il volto dello straniero esula infatti dalla fisiognomica locale, impedendo così la soluzione dell’ambiguità inquietante che lo straniero non può risolvere in sé stesso, essendone il portatore, e l’indigeno non risolve di fronte allo straniero, essendone il ricevente. Quest’ambiguità viene vissuta su più piani semiologicamente contrastranti, ognuno pendant dell’altro. Da una parte lo straniero è portatore di una felicità nuova, per aver realizzato in modo appagante il desiderio della fuga dalla propria terra, la quale incarna una dimensione problematica che si tenta di risolvere con la lontananza. Si tratta di una felicità che rimane estranea e incomprensibile per l’autoctono, il quale non ha mai fatto esperienza dello sradicamento; d’altra parte, permane nello straniero una nostalgia perenne e irrisolvibile, che odissiacamente non si scioglie mai. Con Ungaretti, “In nessuna / parte / di terra / mi posso / accasare”; proprio da questo languore originario derivato dallo sradicamento sorge una sorta di piacere sottile, momentaneo o puntuale, un cogliere di colpo l’istante che sottintende la percezione dell’immediatezza di una pasoliniana, “disperata vitalità” e che consente, nel componimento ungarettiano, il “godere un solo / minuto di vita / iniziale”.

Del resto, se lo straniero rappresenta per eccellenza la figura dell’orfano su un piano prettamente psicanalitico e simbolico, proprio per questo motivo egli è libero e autotelicamente padrone del proprio destino; d’altra parte, lo straniero è soggetto frequentemente a umiliazioni, schiavitù, sottomissioni e autosottomissioni coatte. Da una parte, lo straniero non ha passato, ma solo presente, e quindi agisce libero; d’altra parte, il proprio passato esercita un peso immane su ogni decisione che egli deve prendere, perché psicanaliticamente deve sopportare il fardello del terrore ancestrale nei confronti del tradimento della Madre Terra: “A ogni / nuovo clima / che incontro / mi trovo languente / che una volta / gli ero stato assuefatto”, scrive Ungaretti manifestando in termini di idiosincrasia lirica la contraddizione insita in tale accoglimento/tradimento.

Da una parte, in determinate condizioni di sradicamento traumatico, lo straniero è portatore di odio in sé stesso: egli rivendica la superiorità della propria origine, odia l’autoctono e i suoi valori che egli considera in realtà disvalori in quanto differiscono dai suoi, mostrando quindi  un evidente abbarbicamento alla propria cultura e un certo grado di ostilità reattiva nei confronti della cultura che lo ospita; d’altra parte, come sappiamo, egli è anche oggetto di odio a sua volta, capro espiatorio di tutti i mali della società ospitante, punto nevralgico di sfogo delle tensioni oppositive e della violenza; in quanto tale, in condizioni di ignoranza e intolleranza prenaturati, la sua presenza rende possibile la reduplicazione del germe dell’instabilità politica e sociale. Ancora: da una parte, nel proprio necessario bilinguismo d’acquisizione, egli deve predisporsi a un altro sistema comunicativo con strutture ed elementi sociolinguisticamente determinati; d’altra parte, lo straniero rispetto all’indigeno è più capace di rimanere in silenzio, si rifugia di più nell’autoauscultazione e nell’interiorità, nell’afasia di chi pensa senza parlare e tiene oscuro e celato il proprio pensiero.

Da una parte, dagli anni Ottanta in poi, a differenza dell’Europeo lo straniero concepisce il lavoro come un valore assoluto, considerandolo lo strumento tramite il quale la società ospitante può redimerlo e farlo avanzare socialmente; d’altra parte, nell’arco di una generazione circa, egli comincia a educare i propri figli non alla cultura del lavoro, ma a una cultura meno schiavista che consenta alla prole di vivere meglio di come egli stesso abbia potuto vivere fino ad allora. I figli degli stranieri, quindi, non posseggono lo stesso valore del lavoro dei padri. Però, da una parte, lo straniero ritiene di possedere, rispetto all’autoctono, un patrimonio superiore di vita, anche solo una biografia da narrare che possegga valore esperienziale autonomo; d’altra parte, è invidioso del destino dell’autoctono che nella propria vita non ha dovuto necessariamente compiere scelte radicali. C’è poi l’elemento dell’esoticità socialmente accettata. Da una parte, infatti, lo straniero si presta facilmente a essere considerato dall’ospite una figura esotica, affascinante, barocca, depositaria di un insieme di luoghi comuni, di un insieme di banalizzazioni da barzelletta, permeato dall’alone dell’interessante e del bizzarro. A livello semiotico, le parole, il modo di pronunciarle, l’accento, l’intonazione contribuiscono a questo suo alone di esoticità; d’altra parte, dal punto di vista sociologico le parole dello straniero nel momento delle decisioni vitali non contano niente. Le sue parole non determinano promozione sociale se non in base a sforzi individuali, il linguaggio non lo gratifica e non gli consente di staccarsi dallo scoglio, non possiede forza e risonanza, in breve: egli non ha voce in capitolo nel mondo a sua volta estraneo che lo circonda.

Infine, da una parte lo straniero è lo sradicato, l’indifferente alla stessa società che lo ha accolto; d’altra parte, egli possiede in germe un’attitudine reazionaria persino superiore a quella degli autoctoni, in quanto difende spesso i valori locali più dei locali stessi, come per un masochistico impulso all’assimilazione. Questo significa che anche lo straniero, in definitiva, può esercitare una certa dose di razzismo e intolleranza: proprio ciò che in psicanalisi prende il nome di nucleo fanatico.

Da tale quadro diairetico kristevano si deduce come il linguaggio sia la dimensione archetipica fondamentale per un livello di analisi psicanalitica della nostra xenofobia (più o meno) inconscia. I termini con cui viene identificato lo straniero sono il risultato inconscio della storia culturale e sociologica del soggetto autoctono, che lo appella con termini come forestiero, diverso, invasore, primitivo, selvaggio, nemico, esule, profugo, zingaro eccetera. In senso religioso, lo straniero assume un valore positivo: può essere concepito archetipicamente come il pellegrino, l’ospite, il mendicante.

In senso psicanalitico freudiano, è ancora la lingua a venirci in aiuto per penetrare il senso recondito della nostra posizione di fronte all’altro-da-noi. In tedesco la parola heimlich significa nascosto, Das Unheimliche assume il significato di sinistro, pauroso; incarna quindi il perturbante, tutto ciò che non risulta familiare: «Il perturbante è quella sorta di spaventoso che risale a quanto ci è noto da lungo tempo, a ciò che ci è familiare.» (Sigmund Freud, Il perturbante, 1919). In base alla comunanza della radice, in noi inconsciamente permane la concezione dello straniero come il sinistro, l’inetto, ovvero colui che non si adatta, che rimane estraneo rispetto a un sistema di decodificazione di norme e convenzioni sociali, linguistiche, culturali, di comportamento, condivise nel nostro ambiente di riferimento, che inevitabilmente non è il suo, e che quindi non possono essere sue. In senso filosofico-esistenziale, lo straniero è infatti l’estraneo, il distaccato, il non empatico, l’alieno (anche nella variante giudicante medicalizzata: l’alienato), colui che non appartiene al nostro mondo innanzitutto interiore, alla nostra geografia esistenziale, e che non prova i nostri stessi sentimenti di fronte alle cose e alle persone. Il protagonista del romanzo Lo straniero di Albert Camus, Meursault, viene condannato al processo non tanto per aver ucciso l’arabo senza alcun movente, quanto per non aver mostrato la minima emozione per la morte di sua madre. Questo ci fa comprendere come a gravare incessantemente sullo straniero sia una sorta di giudizio morale eteroriflesso, che gli imputa di non essere come noi perché forse non sente come noi, perché non siamo sicuri che possegga i nostri stessi sentimenti di fronte alle cose: la diversità estetica (in senso filosofico) assurge a colpa, esattamente come accade archetipicamente alla condizione dell’omosessuale.

Ma se le cose stanno così, se la paura dello straniero è qualcosa di così profondamente radicato in noi, come se ne può uscire senza forzature e senza autoflagellazioni?

Ciò che manca alla nostra percezione della foreigness è la visione chiara di un luogo che non renda lo straniero, heideggerianamente, Weltloss, privo di mondo; laddove, peraltro, è lo straniero, nell’autorispecchiamento identitario in cui egli stesso si percepisce persona nel proprio mascheramento sociale, che non riesce a risolvere in sé questo discidium con l’altro da sé.

Al fine di dipanare il senso intrinseco di questa condizione drammatica, è funzionale il celebre componimento di Ungaretti in cui la figura di Moammed Sceab si profila come il doppio identitario del poeta, ugualmente esule al mondo e a sé stesso:

 

Locvizza il 30 settembre 1916

 

Si chiamava

Moammed Sceab

 

Discendente

di emiri di nomadi

suicida

perché non aveva più

Patria

Amò la Francia

e mutò nome

 

Fu Marcel

ma non era Francese

e non sapeva più

vivere

nella tenda dei suoi

dove si ascolta la cantilena

del Corano

gustando un caffè

 

E non sapeva

sciogliere

il canto

del suo abbandono

 

L’ho accompagnato

insieme alla padrona dell’albergo

dove abitavamo

a Parigi

dal numero 5 della rue des Carmes

appassito vicolo in discesa.

 

Riposa

nel camposanto d’Ivry

sobborgo che pare

sempre

in una giornata

di una

decomposta fiera

 

E forse io solo

so ancora

che visse

 

Il dramma umano e sociale di Moammed Sceab consiste nel non avere più patria, nell’essere kristevianamente “straniero a sé stesso”, dramma che si manifesta anche volontariamente nel suicidio identitario, letterale o metaforico, e nel rigetto politico (“amò la Francia / e mutò nome”); eppure, Moammed avrebbe potuto riscattarsi attraverso la possibilità di autoabitarsi, di trovare una casa nella comunicazione di sé stesso a sé stesso e di sé stesso agli altri, ovvero nel linguaggio: quel linguaggio che a sua volta, sempre con Heidegger, è la “casa dell’Essere”, quel linguaggio che determina, con Wittgenstein, “i limiti del mio mondo” e che Ungaretti, in quanto poeta ermetico latore di una parola assoluta, possiede e maneggia in maniera autosalvifica attraverso la primigenia istanza del poetico, che è la comunicazione.

Solo comunicandosi, attraverso la sfera primigenia del sentimento estetico che è sempre intimamente dialogico, è possibile abitare chi siamo, uscire fuori dalla condizione di estraneità a noi stessi di cui parla Kristeva e riuscire nel piccolo miracolo dell’osmosi culturale e dello scambio, in un gioco di rispecchiamenti e riflessi che sia privo di qualsiasi ombra minacciosa, di qualsiasi dichiarazione preventiva di ostilità, anche nel senso politicamente più esteso dell’agire comunicativo di tipo partecipativo e democratico, non coercitivo e non-violento a cui pensa Habermas. Solo uscendo fuori dalla monade ristretta del nostro orizzonte individualistico attraverso la parola che si fa richiesta e interesse nei confronti dell’altro, possiamo comprendere l’intima bellezza della domanda primigenia: “chi sei?”. In seguito, una volta avviata la conversazione, la conoscenza reciproca del nostro “stare nel mondo” possederà l’autenticità e la forza veritativa necessarie affinché il resto venga da sé. E solo allora, conciliando con Balslev e Rorty “noi” e “loro”, non saremo più stranieri, né a noi stessi, né agli altri.

Fintanto che questo accadrà, non potremo fare altro, in termini ungarettiani, che dedicarci all’approccio, predisponendoci con tutte le nostre forze a “cercare un paese innocente”.

 




 

 

Bibliografia di riferimento

 

M. Heidegger, Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze 1984.

Aa.Vv., Lo straniero ovvero l’identità culturale a confronto, a cura di M. Bettini, Laterza, Bari, 1992.

Remo Ceserani, Lo straniero, Laterza, Roma-Bari, 1998.

M. Heidegger, Lettera sull’«umanismo», Adelphi, Milano 2008.

A. N. Balslev, R. Rorty, Noi e loro. Dialogo sulla diversità culturale, Il Saggiatore, Milano 2001.

J. Kristeva, Stranieri a noi stessi. L’Europa, l’altro, l’identità, Donzelli, Roma 2014.

J. Habermas, Teoria dell’agire comunicativo, 2 Vol., Il Mulino, Bologna 2017. 

Giuseppe Ungaretti, Girovago e In Memoria, da L’allegria (1914-1919), ed. 1942, in Vita d’un uomo, Mondadori 1969

 

 

 

 

 

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