Edoardo Callegari, Estranea (Canzone) di M. P. Quintavalla al Piccolo museo della poesia di Piacenza
Il cuore tagliato in una luce sua
Maria Pia Quintavalla, Estranea (Canzone), puntoacapo Editrice 2022
“Ci vuole molto memoria per resistere ai ricordi”. La frase di Osip Mandel’stam, contenuta nel diario “Viaggio in Armenia” (Ed. Adelphi), ha accompagnato la mia lettura del libro “Estranea (Canzone)” di Maria Pia Quintavalla, pubblicato per la prima volta nel 2000 e ora rieditato da Puntoacapo Editore.
La sfumatura della voce di “Estranea (canzone)” risuona nuovamente dopo più di vent’anni dalla prima pubblicazione – e dopo la grande trilogia familiare “Album feriale” (Ed. Archinto, 2005), “China” (Ed. Effigie, 2010), “I compianti” (Ed. Effigie, 2013): romanzi in versi della propria origine, porti come un ramo d’oro di memoria - ed è colta come in un bal des têtes del “Tempo Ritrovato” Proustiano, in cui gli invitati appartengono a una Repubblica delle Lettere, composta di affinità elettive di voci che devono essere riconosciute per i dettagli di alcune allusioni, sguardi, metonimie.
Così “I sereni e i forti” (Vittorio Sereni e Franco Fortini), “l’inferno Senna” (Paul Celan), “la generazione né dissipata, ma mietuta osip” (Osip Mandel’stam); quest’ultimo a corona di una generazione successiva, in quanto emblema di un’anima mietuta dopo aver recitato a memoria Petrarca per ridonare dignità ai compagni nel comune abbruttimento del gulag.
E poi i nomi di “attilio” (Bertolucci) e di “Nadia” (Nadia Campana) – l’unico scritto maiuscolo.
È una lotta contro la morte, una Todenkampf di “Umbriferi prefazi” del ‘900, ombre di beati riaffiorati dalla loro luce per parlare ancora, ma di una generazione mietuta e lontano dalla apparente prise de parole del ’68 e culminata nella perdita di parola degli anni ’80.
È un personale percorso di “Station Island”, di Seamus Heaney, scritto nel 1984, in cui il poeta rivisita la propria esperienza di pellegrino e di visione poetica nell’incontro con le anime dei maestri (Dante e Joyce, visioni della assoluta creazione e distruzione del linguaggio), con le figure dell’infanzia e delle vittime dei troubles, lungo il percorso di un isolotto sul Lough Derg, nella contea irlandese del Donegal, dove la leggenda narra che a San Patrizio fu mostrato da Cristo l’ingresso del Purgatorio.
Quello di Heaney, però, era un viaggio onirico di espiazione. In “Estranea (Canzone)” il senso di straniamento ha la vertigine di affondare nella vera memoria e quindi appartiene a un vissuto di coscienza; a un’epica che si pone di fronte alla suddivisione tra “perdute genti e beati beati”.
“Di qui, di là paesi avevano // già nomi. Ma qui si va / tra la perduta gente, di là fra la beata / beata, di qui c’è il centro, là / il moderno e qua il sicuro ridacchiavano / i più rimaneggiando cartelli e indicazioni.”
Cantari epici, dove emerge la visione del mondo nella vita in versi dei grandi poeti, lontani da fazioni che hanno occupato lo spazio poetico di una generazione.
Fino ad essere un libro di formazione, o di nascita di una propria voce potente, come una “Axion Esti” di Odisseas Elytis (che nella tradizione italiana può essere assimilato a un Dignum est, o Laudato sii), dove dal mare, dal sole, dai profumi di mirto, dalle chiese ortodosse e dai corpi delle ragazze nasce la voce della terra come identità del poeta.
Eppure l’uso della lingua attraverso arcaicismi e neologismi, prescinde dall’autobiografia; con sintagmi quali: “Inferno Senna”, “Bianche eternivate”, “le donne i cavalieri le armi gli odori”, “incredule pieghe”, “agile ippogrifo”, “risoavute cantando forte”, al poeta non basta più la storia di un essere “tutto fratture e crampi” (Zanzotto) – ma vivere di “fratture instauratrici” (Michel de Certeau), dove il pensare di essere arrivato ad una meta definitiva è subito sostituito dalla consapevolezza di un “non è qui”.
A commento alla prima parte del proprio testo intitolato Mater (da “Quinta Vez”, Ed. Stampa2009, anno 2018), Maria Pia Quintavalla aveva fatto il nome di Sarah Kane come riferimento stilistico. In questa raccolta, invece, il buio non ha la totalità disperata della drammaturga inglese, ma si apre ad un percorso di uscita verso la luce, di un passaggio dall’ombra alla luce, che è l’itinerario che la letteratura deve compiere per avere il senso di un attraversamento che la compia. La scrittura drammaturgica più prossima è invece quella del norvegese Jon Fosse, in particolare in un brano di “Un giorno d’estate”, dramma in cui una donna trascorre la vita aspettando alla finestra di una casa in riva al mare, in attesa del ritorno del marito uscito da anni su una barca in solitudine e mai più tornato sulla terra ferma:
E io stavo là
e sentivo che diventavo vuota più vuota
che diventavo vuota
come la pioggia e il buio
come il vento e gli alberi
come il mare lì fuori
Allora non ero più angosciata
Allora ero una grande quiete vuota
Allora ero un buio
Un buio nero
Allora non ero niente
E anche sentivo che
sì era come se splendessi
Giù nel mio profondo
da questo buio vuoto
sentivo che il buio vuoto risplendeva
quieto
senza nessun significato
senza dire niente
il buio splendeva lì da dentro di me
in Estranea (Canzone), lo stesso senso di attesa, di irruzione di una possibilità di luce:
IX
Allora grida e sortilegi, spinte della
vita con le spalle chine e le finestre
chiuse laggiù nell’ombra del
fiorito fiume, che a tratti buono
tutto blu e profondo le facevano
un vuoto (monito)
allora lei sentiva che poteva
e domenica rifarsi intatta
congiungere i due lembi
del passato, e due nel terzo
occhio dimoravano (felici).
Stessa uscita dal buio unita al coraggio di confrontarsi “al mondo denegato, lo spopolatore / intatto” (mirabile riferimento beckettiano).
A che cosa si rende estranea questa canzone? Anzitutto, avvertiamo che l’estraneità introduce sempre un senso di pericolo nella bellezza, che a sua volta, cerca di alleviarsi nella direzione di una ascesa.
Da “(…) lui lo Stige in / un piccolo pensiero quello che le radici, / le più assise e belle”, la parola si spinge fino a raggiungere una superficie di terra: “la forma al centro, sola zolla”.
Questa salita uterina non si ferma nella terrestreitá; essa sconfina al “mite mare” della pagina finale (“In fondo alfine giunto fosse / un mite mare (dal centro)”), assente nella geografia dell’Emilia e che, invece, immerge nel “miro gurge”- grande fiume-mite mare dell’essere. O come nel riverbero degli inediti in “Saudade” (raccolta non ancora pubblicata):
Su scoglio acuto, rado di alghe
noi sostiamo,
ricordando la splendida pace che l’acqua
ci ha insegnato, nuova alla vita
e nuovi noi, viaggianti
adolescenti già teneri nella partenza,
rinati i corpi come la salvezza.
Come possiamo avventurarci per questa ascesa e al preludio di un’ascesa ulteriore di salvezza? “Estranea (Canzone)” esordisce con un esergo che ne è parziale risposta: “Il perdono è un attributo della materia viva” (La passione secondo G.H. - Clarice Lispector).
Maternità, femminilità, figliolanza all’insegna di un’ascesa terrestre di perdono fino a “Un pensiero ad altezza / d’albero / afferra il suono della luce” (Paul Celan, Filamenti di sole).
È quasi un paesaggio metafisico di pioppi lungo il grande fiume, di un “Albero che vive della cima” (Par XVIII, 29); in questa luce, in questa cima, in questo perdono, l’estraneità della canzone che introduceva una forma di pericolo nella bellezza, è tolta come ostacolo e il cuore tagliato in una luce sua: “Ma lo diresti quanto sangue-voce ci è voluta per tagliare / quel cuore intero in una luce sua” (Mater II).
Rimane della bellezza solo ciò che è perfettamente e profondamente umano: la carità, la delicatezza, l’innocenza, fino al senso della prima poesia della inedita Saudade, intitolata “C’è bisogno degli altri”. È questo “Comment vivre ensemble” (Roland Barthes) il confine ultimo della estraneità:
C’è bisogno degli altri,
come di un’illuminazione centrale
dalla volta del cielo non scurita
e non pronta alla sua notte,
l’eleganza eloquente che diceva
Lazzaro, vieni fuori.
Ma è presto è sera,
e in una luce sua rivivere, in velo denso
l’incarnazione dell’amore.
