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Graziella Sidoli su "Il regno doloroso" di Paolo Valesio







Nota introduttiva a Il regno doloroso, di Paolo Valesio (Viareggio, Diaforia, 2024; edizione

originale: Milano, Spirali, 1983).




Condensare in poche parole il panorama polimorfo di questo ampio testo non fa giustizia alla sua complessità. Si apre, questa nuova edizione, con un’avvertenza editoriale nella quale si dice che il libro “viene riproposto nella sua integrità e forza linguistica e in toto come romanzo ‘disallineato’ per forma e contenuti.” Cosa che in effetti osserva anche Valesio nelle sue note diaristiche in fondo al libro: non c’era un tentativo di allinearsi a movimenti o scuole. Il “disallineamento” è per questa lettrice, l’originalità di quel romanzo di cui mi sono innamorata nel 1983.


D’altra parte, non si può applicare questo termine “disallineato” alla coerenza di forma e idee.

Le idee in questo scritto sono chiaramente annodate nel con-testo, enunciate dall’autore dentro alla stessa narrazione, e poi ancora nelle note finali già menzionate, e intitolate Piccolo diario di lavoro. Perché gli oggetti qui sono disposti in modo uniforme e la coerenza di idee è “uni-formata” secondo una struttura precisa e un filo conduttore che lega il tutto. Per “oggetti” intendo ogni minima e minuziosa cosa che questo autore-osservatore ci fa quasi ossessivamente notare, vedere, e pensare –– sì pensare, perché questo è un testo denso di riferimenti e citazioni letterarie, filosofiche e teologiche (very Valesio). È una quotidianità incommensurabile, che non solo non sfugge all’autore, ma che egli vuole afferrare per la sua esplorativa ricerca della rivelazione che ciascun minuto e microsecondo contiene. E che ci conduce a guardare al di là, perché “la cosa” (a thing of beauty is a joy forever, ci disse Keats) è un ricettacolo colmo di significati, nella costellazione dei momenti e movimenti di questa nostra condizione umana.


Questo romanzo poetico non esclude nulla, perché tutto (il sacro e il profano) viene incluso: anche “la vita interiore, la storia, la società e la natura”, che Valesio nelle sue note finali provocatoriamente ci dice essere escluse. Escluse, forse, nel senso specifico; ma appaiono ontologicamente; semmai, velate, perché giacciono sotto e dentro a ogni oggetto, ogni cosa che incontriamo. E che troviamo nella poesia di questa prosa, come quando dice: in “una bava di vento” […] o nel “fracasso delle foglie secche” […] o nel “perfetto silenzio” che “si costruisce da solo, come fosse tutto un paesaggio di montagna”, dove si “contempla il silenzio mentre esso eleva sue scaffalature di roccia, erba, terra nella mente”. Questa poesia è una inclusione del Tutto, che attraversa e si presenta anche senza l’intenzione dell’autore –– perché così fa la poesia.


Poesia e prosa si abbracciano, si intrecciano, si uniscono in un atto che apparentemente avviene in modo spontaneo e fluido, nel quale impera l’endecasillabo che per Valesio è stato un tempo una passione, e qui vediamo sparso in versi continui e irrompenti. L’estasi, permettetemi di usare questa parola, è l’esperienza che s’incontra in queste pagine colme di tutto il bene e il male, il brutto e il bello, le strade dell’America e quelle dell’Europa, l’Eros, e “tutto il resto”, come scrive l’autore. Cioè, tutto quello che sta nella: “dura realtà, dura lezione dell’oggetto, nel momento stesso della sua folgorazione quando i cortinaggi dell’illusione bruciano”. È questa ricerca della “folgorazione del momento stesso” che guida l’esperimento valesiano.


Bisogna “disascondersi” (parola che appare in uno dei 10 capitoli): nulla da nascondere in questo libro, che avidamente vive e scrive senza ritegno tutto ciò che si presenta all’occhio attento, in cerca dello svelamento per chi guarda senza maschere o filtri –– senza allineamenti –– nella insaziabilità della scrittura: qui evidente, ma che possiamo notare anche nell’opera di Valesio sempre in progress.


L’epigrafe del romanzo è una frase di Ralph Waldo Emerson: “È strano come sia doloroso il mondo reale –– il regno doloroso del tempo e dello spazio”. Valesio dice: “come tradurre la dolorosità della minuzia?”. E definisce la sua scrittura come: “sogno che illumina di luce cupa un cerchio di riflessione costante, che i malevoli chiamano delirio […] Basta un gesto a rivelare tutta una vista visionaria: è come se una mano scarna sollevasse per un istante una cortina, rivelasse tutto un paesaggio abbacinante di sole invernale, poi lasciasse cadere la tenda”.


Valesio non cessa di darci indizi di come leggere la sua trama –– il tessuto della realtà con i fili orizzontali che attraversano quelli verticali –– trama che poi metaforicamente ci ingabbia in quel tempo che, con un limitante e convenzionale significato, chiamiamo moderno.


La “dolorosità della minuzia”, si diceva, perché si sa che “l’arte è crudele”. Ascoltiamo il pensiero di Aurelio, uno dei tre personaggi (specchio dell’autore) seduto a una conferenza: “quello che ora vorrebbe fare, e non riesce, è scrivere […] Duecento persone guardano dall’alto questa mano che si muove lentamente sopra un rettangolino bianco che essa sta annerendo, spiegato su un ampio rettangolo di legno chiaro, e si domandano oziosamente quali mai siano le parole che in questo istante vengono scritte laggiù in fondo, pensando che esse debbano avere qualche rapporto con la vita intima dentro quella testa là, mentre invece non sono null’altro che queste parole qui”.


Un “nodo di sguardi per un istante, subito sciolto e dimenticato”. La parola “istante” è continuamente ripetuta. In quegli istanti, Valesio cerca il mistero che si cela nel tempo che li ruba, nei gesti che scompaiono, negli oggetti e i dettagli microscopici viventi in una realtà che rimane invisibile; ma insiste, resiste, e cerca il divino in ogni non-divinità, soprattutto nella sua apparente banalità.


E si domanda: “È l’unica risposta possibile quando in un punto particolare di tempo e luogo come questo, tutta la ragnatela dei movimenti che tiene insieme la struttura quotidiana del mondo minaccia di lacerarsi? Il segreto necessario è quello di tessere i fili senza mai arrestarsi ma anche senza pensarci troppo (movimenti, non pensieri) e senza calcare la mano?”.


Valesio ci parla senza mai concludere con un messaggio o peggio una teoria, per il suo voler cogliere e afferrare, cioè scrivere “tutti i dettagli, nella pelle del mondo attorno a lui”. Questa bramosia di scriverlo tutto in questo romanzo, come si dipana nel tempo, attraverso gli anni dopo quel 1983? Una risposta la possiamo leggere nel già citato Piccolo diario di lavoro. Ma ci chiediamo ora noi: cosa succede, come si sviluppa, quali forme prende la sua scrittura? Si è estesa, questa bramosia, ramificandosi in altri generi? Questo “disallineamento” sembra allinearsi, ma invece può continuare per quello che in effetti la scrittura non può non smettere di richiedere al tempo: cioè di inseguire la sperimentazione –– che non è lo sperimentalismo (categoria che si apre e poi non può non chiudersi, come ogni categoria); perché la trasformazione della lingua stessa e della creatività individuale è una ricerca senza fine o finalità.


Forse ci sarà qualcuno che voglia ancora chiedersi se ci sia veramente una trama in questo romanzo: la trama è la filigrana di punti che costituiscono la coerenza del tessuto vitale della nostra esistenza. Il Regno doloroso non è un collage, un patchwork o un pastiche: si sente in ogni scena e scenario la mancanza sia di un inizio sia di una fine. Sono momenti inafferrabili, osservati nella loro totalità: la voce poetica non cerca di soffermarsi, ma solo di incontrare. E l’autore è grato di poter sorprenderli per un istante nella loro inspiegabile corsa. Tutto si muove come in natura, senza perché e senza ragione: perché così è, e così sia.

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