NOTE a Margine - Giuseppe Zoppelli
IN LODE DELL’ULTIMISSIMO
A Lele, a un mese
1 Tra l’oscuro lavoro del lombrico
2 che non visto trasforma in silenzio
3 la terra degli orti presso la Dora
4 – e senza promesse di eternità –
5 e l’osceno spettacolo del bipede
6 vanaglorioso che si esibisce
7 sul proscenio ecco scegli il verme
8 calunniato che vive sotterra
9 tra i morti e che se esce allo scoperto
10 inerme dopo il piovasco
11 è crocifisso sulle spine dall’averla
12 o tra il becco si contorce del merlo.
(1° maggio 2024)
ESERCIZIO DI AUTOESEGESI
Non l’avevo mai fatto prima. La prima volta è stata in occasione dell’antologia Quindici anni. Antologia di testi poetici con autocommento (a cura di Cristina Daglio e Mauro Ferrari, Pasturana (AL), puntoacapo, 2023), intendo pubblicare una poesia col commento dell’autore. Perché non riproporre l’esperimento? Ci sono dunque ricascato: riprovo ora con un altro testo poetico inedito, appena composto, accompagnato da un tentativo di autoesegesi.
Principiamo dal titolo, e proseguiamo poi quasi verso per verso: non “in lode dell’Altissimo”, come – ad esempio – nel Cantico delle creature di Francesco d’Assisi il cui incipit, non a caso, suona «Altissimu, onnipotente, bon Signore», ma in lode di quello che è considerato nella nostra tradizione culturale – nella scala naturae, nei bestiari medievali, nel pensiero moderno cartesiano e post-cartesiano, secondo cui gli animali sono semplici macchine e automi – l’ultimo degli ultimi, l’inferiore, quello che sta più in basso, l’ultimissimo, anche – come vedremo – in accezione morale e figurata.
I primi due versi rimandano implicitamente all’ultimo studio (L’azione dei vermi, 1881), in realtà pensato molti decenni prima, di Charles Darwin sui lombrichi e sul loro compito fondamentale, metafora in qualche modo dei ciechi e instancabili processi evolutivi: essi – indefessi, tenaci, caparbi – compiono in tempi lunghissimi un’impresa straordinaria rivoltando, vagliando, dissodando, rigenerando la terra e favorendo la formazione dell’humus, fino a modificare alla lunga il paesaggio stesso.
Il terzo verso ha una connotazione strettamente biografica, poiché attinge alla memoria personale, e si riferisce all’orto che mio padre vangava, concimava, coltivava, diserbava – col mio modesto aiuto – negli anni Sessanta dello scorso secolo in una località, Pont-Suaz, alla periferia di Aosta lungo la Dora Baltea (i cosiddetti “orti urbani”).
Il verso successivo, che è da ricollegare all’undicesimo, precisa – ironicamente – che questo lavoro instancabile, invisibile e nascosto dei lombrichi – benché meritevole – non prevede alcuna ricompensa, terrena o ultraterrena, e che non è svolto dietro promesse di gloria o di eternità (quanto, invece, prevede la nostra religione per gli esseri umani: e si rammenti, come ci ricorda Tonino Guerra nella poesia E’ paradéis l’è brótt, che secondo la dottrina gli animali sono esclusi dal Paradiso).
I vv. 5-7 chiamano in causa, infatti, la presenza di Homo sapiens, che si è preso la scena sul palcoscenico della Storia e che, nella sua boria, protervia, superbia, arroganza, presunzione, ha finito per sottomettere, soggiogare e sfruttare la natura e gli esseri viventi, instaurando un vero e proprio “vanaglorioso” dominio sull’intero Pianeta, considerandosi ora il vertice della scala naturae ora a immagine e somiglianza di Dio ora superiore in base ad una differenza ontologica. Il bipedismo e la posizione eretta, ricordati al v. 5, hanno rappresentato un momento cruciale nella storia evolutiva della specie Homo, liberando gli arti superiori, favorendo la prensilità e il pollice opponibile e, di conseguenza, importanti modificazioni dell’apparato cerebrale, la creazione di utensili, armi, strumenti, in definitiva lo sviluppo della mente e della tecnologia.
Al v. 8 il termine “calunniato”, riferito al protagonista di questa poesia, il verme, riprende quello utilizzato da Montale allorché rimprovera gli incauti poeti di aver calunniato nei loro versi l’upupa (si ricordi, in particolare, l’immagine lugubre che ne dà Foscolo nei Sepolcri): «Upupa, ilare uccello calunniato / dai poeti […] / […] / nunzio primaverile, upupa, come / per te il tempo s’arresta, / […] / come tutto di fuori si protende / al muover del tuo capo, / aligero folletto, e tu lo ignori» (Upupa, ilare uccello). Qui la calunnia è riferita ad alcuni modi di dire, ad esempio “lurido verme” o “viscido come un verme”, che, se da una parte suonano moralmente offensivi nei confronti della persona a cui sono rivolti, suonano oltremodo dispregiativi nei confronti degli “spregevoli” lombrichi, proprio di quelli che compiono il suddetto silenzioso lavoro e che vivono in comunione e in prossimità con i cari morti nella terra.
Gli ultimi tre versi, certamente crudi, mostrano il destino a cui il nudo e indifeso verme va incontro una volta che, dopo la pioggia, affiora in superficie tra i “viventi”, facile bersaglio dell’averla e del merlo, e senza che se ne dolga, anzi quasi accolto con rassegnata accettazione, e senza ricevere ricompensa alcuna.
Torna qui, infatti, al v. 11, l’immagine cristologica del martirio e della crocefissione di Cristo, così fondamentale nella poesia di Pascoli X Agosto incentrata sul Male insensato, nonché il dileggio della corona di spine con cui egli viene “incoronato” (così come il verme è dileggiato e disprezzato nel comune sentire): l’averla ha infatti l’abitudine di infilzare le sue prede sui rovi.
La provocatoria contrapposizione di fronte alla quale è posto il lettore ripropone quella tradizionale, per criticarla e rovesciarla, tra l’uomo e gli altri animali, a cui per lungo tempo non sono state riconosciute intelligenza, emozioni, senzienza ecc.: gli si chiede, insomma, paradossalmente, di scegliere – un’opzione più etica che fattuale – tra il lombrico-costruttore e l’Homo sapiens-distruttore.
Sul piano propriamente formale, la poesia, in corpo unico di 12 versi, può essere per comodità suddivisa in tre quartine: spicca comunque, anche visivamente, una certa compattezza del testo data da un tendenziale isomorfismo versale, con prevalenza deca e endecasillabica, o di misure appena superiori, a fronte di un solo ottonario. Il tessuto verbale incrocia omofonie ricercate ora tramite iterazioni (oscURO/lavORO/dORA; prESSO/promESSE/crocifISSO; o ancora la catena oSCEno/esibiSCE/proSCEnio/SCEgli), ora assonanze (lombrico/visto, sotterra/averla, becco/merlo), ora tramite una trama di rime interne, a distanza, disseminate lungo il testo (terra/sotterra, orti/morti, ecco/becco, verme/inerme), o imperfette (averla/merlo).
L’explicit propone un iperbato che rovescia l’ordine sintattico consueto della frase (così com’è rovesciato, a livello tematico, il rapporto uomo/animale), mimando un certo movimento fortiniano, entro un discorso, peraltro, dall’andamento tutto sommato lineare – spezzato da qualche enjambements – che non necessita della punteggiatura (con l’eccezione dell’inciso al v.4), sentita dall’autore come secondaria e ininfluente, preferendo affidarsi non solo alla sua musica, al suo ritmo e al suo dettato interiori, ma anche a quelli che, altrettanto interiormente, può sentire e ricostruire il lettore. La preposizione “tra”, sebbene di diversa valenza, apre e chiude il componimento dandogli un andamento circolare che imita la ciclicità stessa del vivere: dalla vita attiva del lombrico nel primo verso alla sua morte nell’ultimo, che nutre a sua volta altra vita, quella dell’averla e del merlo, in un perenne – questo sì – alternarsi di inizio e fine.
L’autoesegesi, di per sé, non garantisce alcun risultato, la sentenza sulla riuscita o meno del testo spetta al lettore, e non ha la pretesa di sostituirsi alla sua interpretazione o al giudizio della critica, ma può forse aiutare a comprendere – oltre ad obbligare l’autore a scavare nei recessi della sua opera, non sempre così palesi ed evidenti al momento della composizione, in quanto non sempre poeticamente presente e trasparente a sé stesso – come nel testo finale convergano contestualmente intuizioni e stimoli diversi e disparati, da quelli esistenziali, personali e biografici, a quelli latamente culturali, a quelli intertestuali dettati, anche involontariamente, dalle reminescenze poetiche, cioè – in sostanza – a far comprendere come “lavora” chi scrive.
Qui resta inevitabilmente esclusa, però, tutta la parte correttoria in fieri relativa al testo nel suo farsi – dalla formulazione della prima parola, a volte del tutto casuale e inattesa, che mette in moto associazioni di idee e di parole, a quella della frase a quella del verso, dalle integrazioni ai ripensamenti, dagli spostamenti – anche di versi – alle numerose revisioni, dai dubbi lessicali alla ricerca di sinonimi, dalla ricerca di una corrispondenza tra il ritmo interiore (tra pause e respiro) e il metro a quella del titolo, che a volte può addirittura precedere la composizione, ecc., che conducono dal primo stentato abbozzo al testo ritenuto conclusivo e compiuto; insomma il labor limae, che una volta restituivano gli “scartafacci” cartacei della critica stilistica, tutto quel lavorio che non è scomparso solo perché, ora, l’autore scrive al computer.
L’autocommento può contribuire così, in parte, ad elaborare e a delineare una sorta di fenomenologia dell’atto creativo e poetico (nonché indirettamente trasformarsi in una dichiarazione di poetica), il che forse giustifica la ripetizione dell’esperimento qui tentata, anche se non esistono leggi in merito invariabilmente seguite dagli autori, poiché ognuno procede secondo un suo metodo, così come a volte – per miracolo – nascono testi già intonsi che non richiedono ulteriori interventi e revisioni. L’esperimento, però, non è fine a sé stesso: la speranza è che il lettore, dopo, ritorni al testo, il solo che abbia centralità e assoluta priorità. Il rischio, in queste righe, è di dire troppo, rispetto a quanto i versi dicono, ma anche così fosse, sarebbe l’ennesima conferma del rapporto inscindibile e imprescindibile tra il testo e il contesto, quel contesto che continua a premere e spremere il testo.
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