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SU ALCUNE STAMPE APPESE NELLA CASA DI KAFKA, ALCHIMISTENGASSE 22 - Paolo Gera



 

L’INDIANO

 

 

Nella casa di Alchimistengasse, numero 22, Kafka poté affiggere alle pareti varie stampe, operazione che gli sarebbe risultata difficile negli appartamenti dove viveva insieme alla famiglia. Kafka amava moltissimo le illustrazioni di luoghi lontani e le rappresentazioni dei loro abitanti.

Buffalo Bill inizia le sue tournée europee tra la fine del 1880 e l’inizio del 1890. Un decennio. L’ultima arriva a Praga nel 1906. Insieme al grande cacciatore di bisonti si esibiscono noti capi indiani come Toro seduto, diventato una specie di mummia a uso folcloristico, di cui si percepisce a pulsazioni intermittenti, sempre più fioche, l’antica fierezza.  Tra il 1908 e il 1913 i film western con i combattimenti fra cowboys e pellerossa invadono l’Europa.

Kafka ebbe dunque l’occasione di vedere gli indiani, se non dal vivo, proiettati sullo schermo di una sala cinematografica; se non al cinema, sui rotocalchi che davano resoconto del Wild West Show. Il gran circo di Buffalo Bill si era esibito addirittura davanti alla Regina Vittoria. Non si sa da quale giornale ritagliato o da quale libro strappato, là nello studio o nella camera da letto, è appeso l’indiano di Franz Kafka.

Io, da parte mia, ricordo l’immagine di un indiano a cavallo, con la piuma fra i capelli, i segni sul viso e sotto un pomellato senza freno, la perfetta riproduzione del mio indiano archetipico: selvaggio, feroce, libero. Pensavo fosse un ritratto idealizzato di Crazy Horse, ma se ne vado alla ricerca su Google, ecco comparirmi davanti le ballerine col caschetto nero e i rotondi seni nudi del famoso locale parigino.

Kafka attaccò alla parete l’immagine del suo perfetto indiano a cavallo.  Ne era incessantemente attratto. Voleva essere come lui e alzando spesso gli occhi al ritratto si esercitava su quanto di quello potesse togliere, pur continuando a riconoscerlo come un indiano al galoppo sulla sua bestia. Fissava e poi chiudeva gli occhi. Nero. Li riapriva. Via gli speroni. Nero. Via le briglie. Nero. Via il collo e la testa del cavallo. Alla fine, rimaneva solo la brughiera falciata dalla corsa. Nessuna materia e nessuna forma, libertà da tutti i legami atomici, solo pura energia. Ecco dove conduceva l’essenza dell’indianità: qualcosa che non si poteva imprigionare non dico in una riserva, ma in una qualsiasi visione del mondo. Una corsa vertiginosa sulla prateria, ormai staccati da terra. Ma altro che indianità! Quell’ebbrezza desiderata valeva per ogni essere umano.

Mi viene ora il dubbio, ma non ho voglia di intraprendere ricerche filologiche, che l’indiano di Kafka non fosse un nativo americano, ma un cavalleggero del subcontinente asiatico.  Cosa me ne importa! Sono libero di immaginarlo come voglio e penso che Kafka sarebbe contento della mia iniziativa, del mio slancio.

 


 

  

 

L’OASI E LA CAROVANA

 

Un’altra immagine appesa da Kafka in Alchemistengasse 22 è un’illustrazione del libro di Sven Hedin Von Pol zu Pol. È stata estratta con cautela utilizzando un taglierino o delle forbici, in modo che chi avesse poi aperto il libro, neppure si sarebbe reso conto che fosse inserita inizialmente fra le pagine scritte. Si tratta “della fotografia di una carovana in sosta nell’oasi di Tebbe, quella di un caravanserraglio in cui (…) sono visibili cammelli e carovanieri in abiti arabici, e le immagini sovrapposte di un sciacallo e di una jena.” (Luca Crescenzi, Il libro del tempo, p. XIII) Sotto la foto di notte si accucciano gli sciacalli arrivati dal deserto e Franz Kafka dal letto dove è steso ne sente il tramestio delle zampe e i deboli guaiti. Non si permettono di ululare, ma di raspare contro la porta chiusa sì. Discretamente lo convocano a sedersi fra loro, senza rivestirsi, - figuriamoci, può rimanere in pigiama -, per la storia che hanno da raccontargli e per la richiesta che pensano di sottoporgli. Hanno capito che è un europeo. Un europeo distruggerà un giorno tutti gli arabi, mortali nemici degli sciacalli: questa è la profezia tramandata dalla notte dei tempi. È una contesa che hanno nel sangue e che finirà nel sangue, ma non saranno gli sciacalli a contaminarsi: neppure tutta l’acqua del Nilo potrebbe lavarne l’impurità. Occorre un europeo, uno venuto dal Nord, a tagliare la gola agli arabi, a uno a uno.

La mattina dopo Franz si sveglia e corre sotto la foto, la esamina accuratamente, il viso spinto verso l’alto e gli occhi accesi.  Pensa di scriverci un racconto su questa storia di arabi e sciacalli, un racconto da affidare alla pubblicazione sul giornale di Martin Buber, Der Jude. Per noi ossessionati dall’ dell’interpretazione e confusi dallo sviluppo della contemporaneità, è come scrivesse su uno specchio e che il senso rimbalzasse infinite volte senza raggiungere un che di definito o la precisione che certi lettori pretendono. Nel racconto si parla di sangue. Gli sciacalli vorrebbero la vista purificata dagli arabi, sino all’orizzonte: “non più il grido dolente di un montone sgozzato dall’arabo; tutti gli animali devono morire in pace; indisturbati devono lasciare che noi beviamo tutto il sangue e che li purifichiamo fino alle ossa.” Si pone in contrapposizione il rito introdotto nella storia umana dal sacrificio sostituivo del capro al posto di Isacco e la legge naturale dei coprofagi. Ma questa legge non è sbranare senza requie e assume una sua mistica competitiva.  Una pratica che accomuna ebrei e mussulmani consiste nel consumare la carne solo se è stata lavata perfettamente da ogni traccia di sangue. Kosher, halal.  E Franz nella vita quotidiana si affida a una decisione che trasforma l’ortodossia in eresia. La sua presa alla lettera così pignola, attraverso la scelta di una dieta strettamente vegetariana, supera il comandamento e lo smonta di ogni presunto valore. Il padre Viktor, disgustato, a tavola pone fra sé e il figlio la barriera di un giornale spiegato, per non dover assistere allo scempio salutistico del figlio: per pranzo, semi, frutti, ortaggi.

Ma chi sono gli sciacalli? Porteranno fra i denti al loro emissario omicida, il loro Messia, delle forbicine coperte di antica ruggine. Sono le forbicine che recidono il prepuzio dei neonati durante il Brit Milà? Sgozzare gli arabi con il minuto strumento con cui si circoncidono i bambini ebrei di otto giorni, coperto dalla ruggine della tradizione biblica… Sciacalli, arabi, ebrei: c’è un cortocircuito identificativo. Vari critici hanno sostenuto l’identificazione del popolo degli sciacalli con quello ebraico, ma sono questi particolari strumentali a stabilire un legame ambiguo tra innocenza e colpa, tra storia e natura.  Come spesso succede nei racconti di Kafka il fronte semiotico viene ritorto e rigirato, come succede nella chirurgia della milà, dove l’epitelio viene ripiegato su sé stesso dopo il taglio del prepuzio. Dopo la circoncisione il mohel succhia dal pene ogni traccia di sangue. In questo incrocio irriducibile di segni, gli sciacalli odiano gli arabi perché non lasciano a loro la ripulitura del sangue degli animali uccisi, come fonte di ostentamento, ma anche come rispetto di una sacra regola primordiale.

L’interpretazione contemporanea si colora della perversione dettata dalla Storia che Kafka non ha potuto conoscere. Nel racconto l’europeo si rifiuta di assumere il ruolo simbolico di assassino degli arabi. Sei anni dopo la composizione del racconto, veniva firmato l’accordo di Losanna (1923) in cui alla Francia e all’Inghilterra venivano affidati i mandati per il Levante e la Mesopotamia, formalizzando la creazione di stati-regione sconosciuti a questi territori, dove per secoli le persone e le merci si erano potute spostare liberamente senza controlli doganali. La Palestina doveva essere inizialmente uno stato arabo, poi venne promessa agli Ebrei. I nuovi stati arabi si liberarono dal colonialismo passando all’autonomia governativa, senza che si fosse spenta l’idea religiosa di una grande unificazione. Grandi passi economici si sono poi stretti fra europei ed arabi, ma ancora una volta la minaccia del radicalismo islamico ha deformato la prospettiva della contesa: ostaggi in tuta arancione sgozzati davanti alle videocamere non dalle forbicine coperte di ruggine millenaria, ma dai coltelli da macellaio usati dall’Isis.  Si arriva sino ai nostri giorni, all’attacco di Hamas, a Gaza. Chi sono gli sciacalli? Chi vuole spingere chi, verso il deserto?

Kafka non mette mai paletti di recinzione al significato. La sua penna scorre in modo tale che non possa fermarsi volutamente nella cristallizzazione di un giudizio. Tutto si ribalta nel suo opposto. Le vittime diventano carnefici, i carnefici vittime.

Nel finale del racconto gli arabi offrono un cammello morto agli sciacalli perché possano sfamarsene, ma appena alcuni di loro ne addentano la carne, fanno schioccare la frusta colpendoli sul muso e respingendoli. La mano che viene tesa è la mano che colpisce. L’offerta di pace nasconde l’ostinazione di continuare la guerra. L’europeo alla fine trattiene il braccio dell’arabo e quello si convince a non continuare nel suo estenuante gioco.

«Hai ragione, signore» disse, «lasciamoli al loro lavoro; per giunta è ora di mettersi in cammino. Adesso li hai visti. Bestie meravigliose, non è vero? E come ci odiano!»

Ma gli sciacalli non possono liberarsi degli arabi né gli arabi degli sciacalli. C’è un legame più forte dell’amore e dell’odio. È quello che fa calcare insieme da millenni la stessa terra, è quello che, animali e uomini, fa alzare lo sguardo verso l’orizzonte del deserto.

 

 

 

 

 

IL CIRCO

 

Una stampa appesa alla parete della camera da letto di Franz Kafka è una riproduzione di Le cirque, dipinto da Georges Seurat ed esposto a Parigi nel Salon des Indépendants nel 1891. George Seurat è un pointilliste: per chi guarda occorre trovare la giusta distanza, affinché i puntini colorati non corrispondano ad un pulviscolo insignificante, ma delineino un’immagine precisa e dettagliata. Si tratta di una cavallerizza con costume giallo, in audace equilibrio su un cavallo bianco al galoppo sul segmento di una pista circolare. L’elegante direttore impomatato ha appena fatto schioccare una lunga frusta serpentiforme, un clown bianco e arancione è in primo piano, ritratto di spalle rispetto allo spettatore, ma si intuisce abbia il solito sguardo da pagliaccio, stupito e ammirato. Dietro la bella sul cavallo un altro acrobata giallo compie un’evoluzione a testa in giù, in modo da formare un cerchio funambolico composto dalle braccia trionfali della ragazza, le sue che stanno per toccare terra e gli zoccoli scalpitanti del cavallo.  Dietro di loro c’è il pubblico, molto accalcato all’entrata, disposto in maniera più rada sulle tribune. Ragazzi si sporgono dalla galleria per gustare meglio lo spettacolo.

Kafka è andato a cercare il suo spettatore proprio là sopra, perso in un buio che le luci della ribalta non riescono a penetrare.

Sotto la stampa del circo di Seurat, c’è sul muro una fotografia delle officine Prager Asbestwerke Hermann & co. Si vedono una ventina di uomini e donne intorno a quattordici macchine alimentate da motori diesel, mediante cinghie di trasmissione. La ditta di Karl Hermann, di cui Franz è cognato, produce materiale ignifugo, protezioni resistenti al calore, copri guarnizioni. In una parola amianto. Amianto. Lo spettatore individuato da Kafka in galleria, è un operaio che dopo l’orario di lavoro si è concesso la distrazione del circo, ma è tormentato dalla visione di una ragazza che la polvere di amianto ha fatto sua. Non può togliersela di mente. È quella che si vede nella foto delle officine Hermann, scostata a sinistra, con una mano sospesa sul nastro che trasporta i pezzi finiti.

Il racconto che Kafka scrive e che ha come titolo In galleria sovrappone le due immagini. La replica infinita del divertimento circense è l’allegra copertina dell’eterno ciclo produttivo della fabbrica che si perpetua “all’infinito nel grigio futuro che continuamente si schiude” e gli applausi scroscianti e ripetuti per l’esibizione della cavallerizza “sono in realtà magli a vapore”. Un paradiso posticcio copre l’inferno quotidiano.

Il ragazzo seduto in galleria immagina che sia la collega – ne è forse innamorato? – “cadente e tisica (…) a girare senza sosta in cerchio per mesi sulla pista di un circo, spinta dalla frusta spietata di un capo spietato.” Vorrebbe scendere e interrompere il macabro stillicidio, dire alt! , salvarla infine. Ma è l’altro spettacolo a essere messo in scena, quello di una cavallerizza bella, bianca e rossa, che il capo accudisce premurosamente e alla fine dell’esibizione tanto rischiosa accoglie fra le sue braccia: “la bacia su entrambe le guance e reputa insufficiente qualunque omaggio del pubblico.” La macchina sfavillante dell’intrattenimento è una proiezione cavernicola della macchina metallica e dura della produzione. I giri meravigliosi sulla pista sono quelli squallidi e faticosi della catena di montaggio. Il capo adorante in apprensione per il pericolo a cui si espone la sua cara, è quello inflessibile che urla di incrementare il ritmo a una sua operaia di cui non vuole cogliere lo sfinimento. Il ragazzo in galleria vede il giro ripetuto dello spettacolo corrente e quello senza consolazione della giornata lavorativa. La ragazza non potrà essere salvata: “lo spettatore in galleria appoggia il viso sulla balaustra e sprofondando nella marcia finale come in un plumbeo sogno, piange senza saperlo.”

Gli altri, ignari, continuano a seguire, incantati e incatenati, gli acrobati, i domatori, i trapezisti. Kafka nel 1917 riesce a ritrovare il documento che smaschera la falsificazione fantasmagorica, trova la giusta distanza che rimette a posto la vita rovesciata. Mette una sotto l’altra le due stampe.

Cinquanta anni dopo, nel 1967, così scriveva Guy Debord: “Lo spettacolo sottomette gli esseri viventi nella misura in cui l’economia li ha totalmente sottomessi. Esso non è altro che l’economia sviluppantesi per sé stessa. È il riflesso fedele della produzione delle cose e l’oggettivazione infedele dei produttori.” (La società dello spettacolo, 16)

 


 

Nota:

La storia delle immagini appese alle pareti nella casa di Kafka è del tutto inventata. Questo espediente romanzesco mi ha permesso però, svincolandomi da un approccio maggiormente filologico, di svolgere in maniera più libera, con lo slancio proprio di un racconto, alcuni spunti critici che ritengo fondati.

 

Per i racconti “Sciacalli e arabi” (pp. 35-39) e “In galleria” (pp. 19-20) si è utilizzata l’edizione curata da Luca Crescenzi per i Meridiani Mondadori (2023). Per il racconto “Desiderio di diventare un indiano” (p. 113) si è fatto riferimento a Tutti i racconti, a cura di Ervino Pocar, Mondadori, 1970, 2023.

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