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Silvio Aman su "Il vaso di Pandora" di Anna Bani


Anna Bani, Il vaso di Pandora, Ancona, peQuod, 2023, pp. 109, € 16,00.

 




Anna Bani, poetessa e filosofa di elevate capacità narrative, lega questa raccolta di brevi racconti alla ricerca della verità con una prosa tematicamente sempre diversa, dinamica, ricca di spunti riflessivi ora espliciti ora latenti come spesso accade nel corso delle narrazioni d’arte, e dove si tratta di aspetti storici in funzione di appoggio, le impiega offrendo loro nuove sceneggiature.

Nel racconto di apertura, Pandora, la seducente figlia di Efesto (bella come Venere, benché con funzioni diametralmente opposte) soggiace al destino impartito dagli déi, sia pure con duplice finalità: diffondere fra i terrestri ogni genere di mali per mano dei gelosi olimpici, ma permettere, con l’uso della sua metis, di scoprirne gli autori, come quando si parla di scoperchiare la pentola, o si ricorre all’adagio che il diavolo le faccia, privandole però dei coperchi. Ma sentiamo cosa le dice Mercurio:

 

Il mio dono sarà un po’ diverso dal solito… diciamo che ti piacerà rovistare negli angoli, metaforici e non; potrai andare in tutte le direzioni come una bestia che utilizza il suo formidabile fiuto, svelare i più intricati misteri ma… attenzione a non infrangere i divieti!

 

L’imposizione del divieto e del giuramento, avvicina il racconto della Bani a quelli in cui compaiono degli esseri fatati – basti pensare a Melusina e Lusignano, a Morgana e a Lohengrin – ma con l’esito fatale della loro infrazione, per cui anche la metis di Pandora soggiace a un limite strutturale prestabilito: soccombere alla curiosità e dimenticare l’imperativo proprio nel momento in cui vien meno il pensiero delle sue conseguenze. Questo ci porta a pensare che la sventura – o il suo impulso – sia già presente nel soggetto come evidenzia l’atto mancato di scoperchiare il vaso. La figlia di Efesto percepisce quest’azione come estranea, appunto perché inconscia. Ecco, infatti, cosa avverte nell’aprire il vaso:

 

Non provavo niente, nonostante avessi mille volte immaginato di compiere quell’atto con l’animo in subbuglio, in quel momento mi sentivo svuotata, come un automa che obbedisca a una volontà estranea.

 

Ma qual è per davvero la situazione di Pandora? All’inizio della vicenda, quando lei ha già ottenuto l’immortalità (non per mano di Efesto, ma della narratrice) troviamo le seguenti parole:

 

Vengon le bambine a rubar more nel mio giardino e gridano: “Pandora, perché te ne stai chiusa, Pandora perché te ne stai sola?”

 

La risposta alla domanda delle bambine ce la offre stessa protagonista al termine del racconto: la donna immortale, poiché priva del tempo, è una morta, solo un’idea velata, ossia la rappresentante della condizione umana…

 

Da allora, vago tra gli uomini e a capo velato [idea o principio fatale] viaggio tra le loro sventure. Ultimamente vivo in questo giardino che la notte sa di more, come ai tempi di Prometeo; attendo ogni giorno la visita delle bambine per immergermi, dimentica, nelle loro fresche cantilene.

 

Ma anche le fresche cantilene delle bimbe, con la loro cellula ritmica, lasciano intendere qualcosa di enigmatico e irrisolvibile. Sarebbe, inoltre, interessante chiedersi se con la paronomasia: more/notte possa emergere l’anagramma morte suggerito dal colore nero delle polidrupe e della notte, giungendo così alla paronomasia multipla di more/notte/morte.

 

L’infinita catena dei mali è insomma legata alla materia con la quale Prometeo costruisce i viventi vincolandoli al tempo, che nel prendere sede in loro segue le tre fasi rappresentate dalle Parche. Non a caso Anna Bani, nel suo accattivante racconto, le inserisce per dar luogo all’arco esistenziale in un cui ogni essere umano può giungere alla consapevolezza di sé avendo per estremo confine il nulla. D’altronde, anche gli olimpici, sia pur privi di ogni sostanza deperibile, sono storicamente dei transeunti. Nel dialogo fra Pandora e il suo sposo Epimeteo attorno alla condizione degli esseri nel loro da-sein, l’Autrice non manca, infatti, di nominare come segno di speranza l’essere per la morte, di cui Rilke fu, se non sbaglio, il moderno vessillifero:

 

«E la morte? Può scamparli anche dalla morte?»
«Nessun uomo può scampare dalla morte, ma è proprio grazie ad essa che realizzeranno le cose più prodigiose. Se essa non ci fosse, trascorrerebbero giorni tutti uguali, nulla avrebbero da aspettarsi, né le loro scelte avrebbero un senso».

 

La raccolta costituita da otto racconti, con l’iniziale Sa di more la notte e il finale La sposa di Shabbatai Zevi, potrebbe alludere, in termini numerici, a un’ottava musicale racchiusa dalla stessa nota tonica, cioè quella del destino, che seguendo il consiglio di Epimeteo occorre accettare.

 

«Non troverai mai pace, Pandora, se non sarai capace di accettare il tuo destino!»

 

A tal riguardo fu Nietzsche a scrivere (cito a memoria) che in un primo momento si lotta contro il destino, ma poi occorre tenerlo per mano come un bambino, tuttavia distinguendo l’articolata rivelazione di ciò che si è (gnōthi sautón) dalla coazione a ripetere (Wiederholungswang) spesso subita come una fatalità. Si veda, al riguardo, il comportamento di Oriana, parassitata dall’invidia, in Articolo cinque.

L’Autrice inaugura il suo nuovo e bel libro riprendendo le origini del mondo secondo le narrazioni della mitologia greca legate alle ierogamie, al polemos e al fato, indicando con ciò l’esistenza del mana nonché di una legge occulta cui non è possibile sottrarsi. Agli umani resta solo la speranza di trascendere il reale con le loro creazioni poetiche, cosa che nel pensiero della Bani mi pare avvenga in termini immanentistici, senza alcuna traccia di Cristianesimo.

Tre racconti (cioè Un colpo di sole, Compagni di alte mura – con inserita la presenza del famigerato dottor Mengele – e Salon Kitty) appaiono invece maggiormente orientati a svelare le verità biografiche e quelle storiche, spesso criminosamente occultate. In quelli di ordine prevalentemente psicologico potremmo indicare Gustave e Caroline (riguardo alla fede di Caroline Flaubert nel fratello, ritenuto hébété dalla famiglia: costei fa le veci della madre, il cui sostegno al figlio è ritenuto importante per la sua riuscita) e il succitato Articolo cinque riguardo all’irrefrenabile invidia di Oriana. Essa, come indica implicitamente l’Autrice, sorge dall’impotenza, cioè dal volere e non posso.

Fra i racconti a sfondo politico, Un colpo di sole riguarda il disturbo di un ragazzo che un medico liquida come fisiologico, mentre il suo improvviso mutismo dipende dall’aver involontariamente assistito al rapimento di Matteotti. Lo psicologo dottor Castellaneta – convinto antifascista – lo libera dalla paura di essere ucciso per rappresaglia, infondendogli il culto della libertà, e in che modo? Nel regalargli le livre de chevet della sua gioventù dedicato al libertario romano Spartacus.

In sintonia col contenuto del celebre vaso, qui non mancano nemmeno scoperte orribili legate alla natura, tutt’altro che perfetta, anzi vero e proprio museo degli orrori, come in L’uomo lupo dove in scena troviamo lo scettico, antidogmatico Montaigne, e il re di Navarra, suo amico, ossia il rappresentante del potere assoluto. Dopo aver visto il bambino-mostro tenuto da una mendicante, che se ne serve come spettacolo per spillare soldi ai curiosi, l’autore dei celebri Essais narra al re il suo incontro con l’ipertricotico Gonsalvus (ricordiamo, al riguardo, il dipinto dell’irsuta Antonietta Gonzalvo nella Celeste Galeria di Mantova) l’uomo lupo accolto da Caterina de’ Medici, che gli fa insegnare le lingue classiche, rendendolo un uomo colto, poi sposo di una dama di corte.

Evidente il contrasto fra questo gentile uomo-ferino, al quale Montaigne teme di assomigliare…

 

(devo ammettere che lì per lì l’iniziativa di Etienne [il valletto che su invito della sovrana presenta Gonsalvus] forse perché inaspettata, mi mise in un grande imbarazzo; credo però che la mia vera paura fosse quella di scoprire questa strana creatura troppo simile a me e di scoprire me troppo simile a lui che, in quel momento, mi appariva soltanto un animale)

 

e la nota espressione homo homini lupus, forse secondo la comune idea che siano gli animali a mostrarsi umani, mentre nella natura umana domina il bellum omnium contra omnes, tema riproposto da Linneo laddove lo estende alla natura nella sua totalità, ancora una volta nel senso della guerra di tutti contro tutti.

Le opinioni qui riferite a Montaigne, che Anna Bani parrebbe far proprie (dopo che Enrico ha offerto una lauta elemosina alla madre del mostro, quello gli dice: «Non sarà col denaro che risolverete i suoi problemi, ma forse questo è un gesto che serve più a noi che a colui che lo riceve») alludono all’amor di sé di cui testimonieranno in maniera immutabile le Maximes del duca François de La Rochefoucauld: la generosità è interessata e l’atto gratuito è cosa rara.

Con La sposa di Shabbatai Zevi, la nota iniziale di questa drammatica ottava rappresenta diversamente la questione del destino, perché l’ebrea Sara lo vuole da sempre contro ogni difficoltà, anziché subirlo. Vuole, diremmo, ciò per cui è versata in modo primario e tenace, come può accadere alle persone di grande talento. Non a caso, alla domanda di Abravhanel: “come fai a sapere queste cose” (riferite alla Bibbia) convinto le si debba acquisire per trasmissione dottorale, come normalmente avviene, anziché assecondando un’intima e indefettibile persuasione, Sara risponde: “Non le ho apprese, le so!” Non ha infatti senso discutere la fede, tantomeno certe connaturate predisposizioni, altrimenti dovremmo chiedere a chi possiede un orecchio assoluto, da dove gli è giunto, o a un genio dove ha appreso la genialità.

L’inscalfibile desiderio di Sara, ebrea cresciuta in ambiente cristiano, di sposare il rabbino Shabbatai Zevi, persona realmente esistita (egli nacque a Smirne nel 1626 e morì a Dulcigno nel 1676) considerato da molti il nuovo Messia, potrebbe rammentarci la nostalgia della patria originaria, come alla goethiana Mignon il paese dei limoni. Si tratta di misteriosi trasporti refrattari a indagini razionali, anche se non è detto che tanta passione si plachi per sempre nella meta oggettuale, anziché volgere verso qualcosa di ulteriore e indefinito.

La figura di Sabbatai Zevi suggerirebbe l’ipotesi di una parodia degradata dei profeti – e dello stesso Gesù – anche riguardo alle visioni ultraterrene del resto tipiche in ambito biblico, ad esempio della Merkawah. Eppure è simile personaggio a rappresentare il destino di Sara, ebrea fuggita da un convento (la sua vita è una continua diaspora) raccolta in un cimitero ebraico da Joseph Zakkai e sua moglie, poi giunta in Alessandria d’Egitto con mercante di coralli Levi Ber da cui fugge trovando riparo – per la seconda volta – nell’ipogeo di una necropoli ebraica nei pressi del tempio dedicato a Serapide, dio dei morti. A quel punto la rapiscono per venderla come schiava a Livorno, dove appare lussuosamente vestita, con un monile ferma velo ornato di serpenti dagli occhi rossi e lucertole. Il serpente, animale ctonio, risponde a opposte simbologie, perché nella Bibbia è maledetto, mentre nel mondo greco, unitamente al sauro, richiama l’eterna giovinezza.

Resta da comprendere cosa significhi effettivamente per l’orfana Sara risalire al suo mondo ebraico lungo un itinerario costellato da sonnambolismi, misteriose presenze notturne e soste nel luogo dei trapassati, e se agisca inconsciamente in lei il desiderio di poterlo fare solo attraverso la morte (nel senso di una rinascita) se possiamo avvicinare la culla alla tomba, dove il simbolo riposerebbe in se stesso senza rimandare ad altro.

In questo racconto sembra essere ancora Sara, pasionaria ante litteram dotata di forte ascendente, e non Shabbatai, a presentare tratti assimilabili a Gesù, non solo perché conoscitrice dei testi sacri, ma anche per il fatto di trovarsi – cosa del resto impensabile per una donna ebrea di quel tempo – a discutere con i dotti rabbini nella sinagoga. Attraverso le parole di Sara potremmo trovare una concezione dualistica: il Messia deve raccogliere in sé il male attivo in Dio, emanato dalla sua mano sinistra. Non ci vuol molto a cogliere in questa concezione un accento critico rispetto alla Genesi, dove Jeowah crea enti considerati impuri e maledetti, per non parlare della sua primitiva caratteristica di dio crudele e signore degli eserciti, poi raddolcita in ambito cristiano. Il male è dunque presente in natura fin dal principio, e ogni selettiva purificazione avviene al prezzo di produrre scorie (uno stato di disordine ben evidente nel nostro sistema produttivo) come indica, senza mezzi termini, Anna Bani per l’interposta Sara:

È inevitabile che rimanga la scoria dopo che si è raffinato l’oro e la feccia man mano che si schiarisce il vino.

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