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#cosaleggeleditrice - La fabbrica abbandonata di Fabio Franzin


Il post di questo mercoledì lo dedico a una rilettura che ho fatto quest’estate (ce ne saranno altre, anche più avanti).

L’importanza della lettura a distanza di tempo è sottovalutata, a mio parere, specie nei contemporanei.

Se è ovvio che porre tempo tra una lettura e l’altra ingloba tutte le esperienze fatte e assorbite tra la prima e la seconda, non è banale, e io lo trovo per me un ottimo strumento, porre l’attenzione sullo sviluppo dello scrivere di quel dato autore. Al percorso nella sua totalità.

Anche quando si va a rileggere un lavoro che non è né il primo né l’ultimo. È questo il caso di “’A fabrica ridandonàdha /La fabbrica abbandonata” scritto da Fabio Franzin e pubblicata nel 2021 da Arcipelago Itaca con nota di lettura al fondo di Manuel Cohen. (La nota era anche la motivazione con la quale questo testo fu premiato alla sesta edizione del Premio nazionale editoriale “Arcipelago Itaca”)


Tutte le poesie sono un unico racconto che si dipana nel tempo con sguardo disincantato e concreto, a volte terribilmente crudo e brutale. La raccolta è divisa in due sezioni, temporali, 1970-1975 e 1985-2010 e un’Appendice che invece si pone quasi come visione altra dei temi, a posteriori, sopra i fatti, ma attraverso essi.



Riporto un'unica poesia con le due lingue: il dialetto Veneto-Trevigiano dell'Opitergino-Mottese l'Italiano, le altre solo in Italiano per facilità di fuizione.


La fabbrica diventa all’ora anche metafora del nostro tempo, di una ricerca di performatività e di competitività estrema, a discapito dell’umanità, di coloro che rendono effettiva quella produzione, quel marchio, quel luogo.


Ma anche gabbia: sistema impossibile da combattere, che ha ancora la riminiscenza del “padrone” come uomo che comandava, oggi mero profitto, nell’epoca della capitalizzazione (anche delle vite).

Fabbrica come dismissione. Decadimento e arresa di un sistema, di una comunità.

Fabbrica come capannone nel quale imparare a diventare grandi e luogo che contemporaneamente ci cresce dentro, ci fa suoi. E non ci restituisce mai uguali a come ci si è entrati. E questo viene segnalato già dall’esergo della prima sezione, una frase di Milo De Angelis “L’inizio è stato questo, tra le rovine”, rovine nelle quali Franzin è stato bambino, è cresciuto, ne ha create altre.




Franzin non si smentisce ma pur restando fedele a sé stesso, alle sue tematiche e ai suoi Valori, ci restituisce nuovi testi, forme compatte simili graficamente sulla pagina in grado di raccontare una storia.



Vuoti e pieni, crescita e svuotamenti: la fabbrica come luogo fisico di formazione, ma anche e soprattutto come metafora della lingua. Il riconoscimento di una civiltà nella critica sociale e nella mercificazione della parola. Nella perdita di significato associato a ciò che viene scritto. Un dito puntato a chi dovrebbe essere non solo testimone, ma anche custode del dire, del mostrare, dell’accusare. Il senso più stretto di poesia civile, sociale, e al fondo, politica.



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