#cosaleggeleditrice - dalla Collana Portosepolto, peQuod
Avevo inizialmente considerato di scrivere riguardo a tutta la collana diretta da Luca Pizzolitto (ora anche da Massimiliano Bardotti), Portosepolto, edita da peQuod, ma poi, avrei avuto troppo poco spazio per ciascuna voce, così ho scelto di occuparmi oggi di due raccolte estremamente diverse tra loro.
Ambedue i volumi godono delle prefazioni di Elio Grasso che ci ha abituati negli anni a essere estremamente affilato nelle osservazioni. Non riporterò qui nessun brano da esse, meritano di essere lette per intero.
Parto da Genna, rigorosamente in ordine alfabetico e anche di uscita
È un libro fatto di grandi vuoti. Lo spazio bianco della pagina è essenziale e si vede una costante sperimentazione anche metrica (vari i componimenti con strutture simili a Haiku, ma che non li sono).
La cifra è quella della ricerca di indefinizione, tanto che l’ultima sezione personalmente la definisco un prosimetro che si distanzia da tutto ciò che può essere definito in un genere o nell’altro.
Le tre sezioni “Dedalo”, “Albedo” e “Impermanenti” segnano il passo e il percorso che secondo me l’autrice compie per giungere alla “Rarefazione” del titolo.
Cioè la dispersione dell’essere (dell’Io) che si fa così sottile e labile da disperdersi nel tutto, quindi rivelando una ricerca spasmodica di un’appartenenza e, allo stesso tempo, della non definizione.
È un libro d’aria, essenziale, quasi come se ogni singola poesia non fosse altro che un sasso gettato nello stagno dal quale le onde di propagazione debbano essere diverse per ciascun lettore, secondo il suo sentire.
“nell’ora dell’aurora” di Daìta Martinez, invece si presenta completamente differente nella struttura, un unico scivolare dei testi quasi fossero il flusso di un fiume che cambia velocità a seconda della pendenza o delle rocce che incontra.
Tuttavia questo flusso ha caratteristiche particolari nella stesura del testo nella pagina: si tratta infatti di testi disposti ritmicamente, quasi come se fossero partiture musicali, senza segni di interpunzione, solo qualche corsivo qui e là a porre accenti e attenzioni su parole specifiche.
Qui si trova il corpo, lo spazio dell’esistere, collocata nella casa, in ciò che si reputa casa, tanto da formare colonne e archi e muri anche visivamente con i testi (e coi suoni che si susseguono e talvolta inseguono in strutture elaborate di volute all’interno delle pagine.)
Cosa resta, quindi, di due raccolte così differenti?
Il percorso che le due autrici ci obbligano a fare dentro e fuori la pagina, quello che loro stesse hanno vissuto come divenire del sé, di appropriazione di definizione e smarrimento.
Riporto qui il punto 15. di “La via della narrazione” di Alessandro Baricco perché estremamente ficcante di queste due scritture e dice meglio di quanto io possa fare ciò che penso:
“Lo stile è di pochi. Sgorga da un’intimità altissima e misteriosa con un particolare materiale. Non si può insegnare, lo si possiede. È un evento. Accade quando il linguaggio, qualsiasi linguaggio, cessa di essere uno strumento esterno e diventa prolungamento di un corpo. Mano, non martello. Respirazione.”
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