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Raffaele Floris, Non una parola inutile

“Non ci deve essere una parola inutile: tutto deve dire qualche cosa […]". Così scriveva Giuseppe Verdi a Francesco Maria Piave mentre il libretto del Macbeth stava cominciando a prender forma.

Così anche a me piacerebbe scrivere: nessun aggettivo superfluo, nessuna espressione arcaica o ridondante, ma – di converso – nessun cedimento alle mode o alle correnti. Meglio descritta, forse, di quanto possa fare io, per merito di Francesca Del Moro, è la mia poetica, recensita al concorso Bologna in Lettere, dal momento che è stata segnalata. “Raffaele Floris utilizza, com’è sua abitudine, schemi metrici regolari. È una poesia in cui il rigore formale coesiste con un’impressione di fluidità e leggerezza (queste erano le mie intenzioni: evidentemente, in questa breve silloge, l’esperimento è riuscito); in questi versi metricamente ineccepibili non si percepisce mai alcuna forzatura, né la minima traccia della fatica che un rispetto così inflessibile degli schemi scelti può comportare. Tra i temi a lui cari, primo fra tutti è il paesaggio di campagna da lui inquadrato con precisione fotografica fino a catturarne, zoomando, i dettagli: il torrente, i salici, le radici, i tronchi, i bulbi, gli steli, i rami senza linfa, le cinciallegre. È un mondo scandito dall’avvicendarsi delle stagioni: l’estate, l’inverno e soprattutto l’autunno. Appare forte il desiderio di trattenere ciò che è stato. E il passato è pronto a riaffiorare, proustianamente richiamato dalle percezioni sensoriali, prevalentemente olfattive e visive”, più raramente acustiche, aggiungerei io.

Prosegue Francesca: “Il tema della campagna potrebbe far pensare istintivamente a una natura idilliaca, pacificata e pacificante, ma non è questo il caso. È l’autore stesso a negarla esplicitamente contrapponendo la quiete di un’estate ideale e la vitalità talvolta violenta della stagione reale. In verità è proprio di contrasti che vivono queste poesie, di sorprendenti e spesso stridenti giustapposizioni, quali il furore del respiro e i deliri dell’estate. Accogliendo in sé la furente protervia dei soprusi, degli scorni e ancora la resa, il disinganno, il batticuore, la fatica di stare sul chi vive, la natura evocata è problematizzata, attraversata da attriti e tensioni, come la vita umana.”

La natura, diceva giustamente Francesca Del Moro: non l’ambiente, parola fredda, burocratica, abusata. Non credo, personalmente, che il contrario della parola poetica sia la parola violenta, la dichiarazione di guerra (la poesia epica dovrebbe esser lì a dimostrarlo), bensì la parola burocratica, meccanica, ossessivamente ripetuta per fini massmediologici più che per autentica e convinta adesione. Vi posso estrapolare un verso da La macchina del tempo, di prossima pubblicazione presso puntoacapo, per spiegarvi cosa intendo dire:


Rincorrere parole sostenibili

non servirà: non resterà più niente

di noi, sciame perduto d’invisibili.



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