Dario Capello su "Corpo contro" di Daniela Pericone
A che punto è la notte?
La domanda più antica, e senza fine. A che punto è la notte? Sempre quella ritorna, insistita nelle sue varianti. La risposta della sentinella (... e sto pensando all’“inutile allerta della sentinella” che sta a “guardia della notte”) qui, nella poesia di Daniela Pericone, così come nel profeta Isaia, potrebbe suonare sconcertante: se vi piace interrogare, venite, continuate a interrogare, senza fine. Ma quel che davvero poi importa non è tanto sapere quando finirà la notte, ma cosa significhi “notte”, fin quando “si vive trascurando il buio / in un inganno di luce”.
“Tutto converge a una solitudine / non sia turbato il silenzio / la sua compiutezza”.
È questo il libro di un’anima solitaria, che ha alimentato la sua parola con lunghi silenzi, l’ha potenziata con esercizi di solitudine. La poesia di Pericone è vicina a quel silenzio, a quel destino notturno da cui ogni parola proviene e a cui ritorna, con innumerevoli gradazioni. Il silenzio delle Sirene, dicono, è più potente del canto, è il vero canto.
È ancora questo un libro di versi concentrati e condensati, ripeto, concentrati e condensati, con la percezione diffusa di qualcosa che sta per prendere fuoco.
Un’aria, un soffio incombente e incandescente trascina con sé il pensiero e lo conduce, insieme alle sue ombre, tra i fili dell’alta tensione.
Daniela Pericone ha scelto la via seria della poesia. Quella dell’ostacolo, del contrasto, della frontalità. Occorre scovare un barlume di verità dentro la nostra stessa ombra. È il grande tema delle ombre. Ombre che anche quando non ci parlano in modo diretto ci lavorano ai fianchi.
Una poesia rigorosa, quella di Pericone, guidata da un metronomo interno che la scandisce, la scava, più che levigarla, appunto, la scava, e con questo riesce a far vivere le parole comuni, quelle ordinarie, di noi tutti, fino al punto di renderle misteriose. Spalanca una luce straniera sulle cose di ogni giorno... (“la vecchia seicento / celeste di cielo”).
Una poesia dunque anche dura, anti-petrarchesca, mai sentimentale, che ha rinunciato a usare la prima persona singolare, quell’“io” tanto ingombrante quanto ambiguo. L’“io” è sempre un altro. Così come il volto che ci guarda dal fondo di uno specchio è lo stesso e un altro.
Una poesia forse melanconica, nel senso alto e antico della parola, ma netta e perentoria. Qui siamo pur sempre sotto il segno della Metriotes, come la chiamavano i greci, cioè della misura dei tempi, delle parole e delle pause. Ma per “malinconia” intendo l’esito di una certa nostalgia dell’origine, come di un’armonia intravista ma irrecuperabile, di un Eden perduto... quelle “case in rovina”.
Già fin dal titolo Corpo contro, spicca quel “contro”, avversativo che fa pensare a una disputa, a una posizione forte, marziale e discorde. I segni poi, in questa direzione, nel corpo della scrittura sono davvero tanti: “contro le ombre”, “controvento”, “contromano” ecc... È come se premesse un’urgenza di combattimento, di rivolta, o almeno la necessità di contrastare la minaccia delle ombre, l’irruzione di forze estranee e spaesanti.
Ne nasce una poesia aspra, scossa da potenze telluriche, dove “dannata è la gentilezza” e dove soprattutto si divide “la schiera / delle vittime e dei carnefici”. Siamo sempre più vicini, anzi, siamo ormai dentro ai “fuochi della battaglia”, in un’aria di sfida contro un mondo contradditorio. Certo, nella poesia di Pericone la giusta dizione, la voce, scatta proprio dalla tensione della contraddizione, dal fuoco del contro-verso.
Tutto il libro è pervaso da antinomie, da una dialettica di contrari che non pretende di essere risolta: “vita non vita”, “voce e assenza di voce”, ma più in generale, il domestico contro il selvaggio, l’arcaico incombente fin dentro il quotidiano. È tutto un mondo di forti antinomie, dalle quali può scaturire la bellezza di un’apparizione: “la guancia spaccata del sole”. Qui... e altrove, si avvertono echi di Rimbaud.
Da un punto di vista più tematico, o psico-tematico, la figura chiave vistosa è composta da un doppio, la casa e lo scudo. C’è un nido da proteggere: la voce della poesia diventa formula magica, incantatoria, una forza di protezione, “scudo contro le ombre”. Altrettanto ricorrente è il tema, speculare, o la metafora personale, della casa, casa-nido, dimora. Sempre minacciata. “Sarai fra le tue mura / mai più al sicuro”. Così, scandito come un oracolo. Impressionante la potenza e la terribilità, da antica tragedia greca, in quest’ultimo verso, di quel “mai più”. Never more, era l’inciso ripetuto e fatale di una poesia celebre di Allan Poe.
Tutto il libro, dicevo, è scosso da potenze telluriche, anche al di là della raffinatezza della postura e della versificazione ben modulata. Circola qui un’aria greca, dove “la furia di Medusa / riflessa nello scudo” trapassa idealmente nello specchio di ogni mattina, quando compare “l’altra”, quell’“altra che mi guarda” e che “si mostra indifferente alla mia sorte”. Così, nello specchio di ogni mattina si apre e si chiude un abisso.
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