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Mattoni a vista, di Raffaele Floris

Raffaele Floris, Mattoni a vista, Postfazione di Ivan Fedeli, pp. 64, € 12,00, puntoacapo Editrice, Pasturana 2017

di Mauro Ferrari

Mattoni a vista, del pontecuronese Raffaele Floris, è la raccolta di un poeta attento e misurato, che in una carriera poetica già probante ha dato alle stampe solo tre titoli, e neppure di grande foliazione: Il tempo è slavina (1991), L’ultima chiusa (2007) e, dopo il fortunato romanzo La croce di Malta (2013), questa Mattoni a vista, subito premiata con il II posto al San Domenichino, che comunque Raffaele ha già vinto con altri premi significativi, tra cui il Guido Gozzano nel 2009.Non si pensi per questo a un rapporto occasionale con la poesia: Floris è poeta di ampie letture e riflessioni profonde, che gli hanno consentito di affinare una poetica riconoscibile e originale, ma anche coraggiosa nel riproporre temi, ritmi e accenti tradizionali che ne costituiscono oggi la personalissima voce poetica. (Sottolineo en passant come oggi la poesia più avvertita mostri l’esigenza di un ritorno se non all’imitazione della tradizione a una quota di comunicabilità dell’esperienza, che chiuda troppe stagioni di poesia intransitiva, opaca, in cui il poeta non si assumeva la responsabilità piena del testo; va detto, comunque, che non bisogna confondere una poesia che punta a dire del mondo, esplicitamente e perdonate il temine, razionalmente, con tanta similpoesia che non si pone il problema fondamentale dello stile; discorso che vale anche per poeti importanti – sulla grandezza si vedrà – che fanno della poesia un diario in versi puntando ingenuamente o forse in malafede sull’affabilità e sulla sincerità – caratteristiche che non hanno nulla che fare con l’arte.)Dico questo perché la poesia di Floris non è mai ingenua o “facile”, sebbene comunichi a tutti almeno i primi livelli di significato, e anzi è intrisa appunto di tradizione, competenza e profondità che non vanno confuse con quela semplicità che è una conquista espressiva. Parlavo, introducendo L’ultima chiusa, la raccolta di dieci anni fa, di un «poeta fuori del tempo» e di un timbro «inconfondibilmente elegiaco». Dicevo anche: «Il “respiro lieve delle cose” è sottratto alla dimensione umana del cambiamento e rimanda quindi all’Essere, ma è anche una modalità in cui questo Essere è in qualche modo avvertibile e fruibile come necessaria persistenza». Sono annotazioni che oggi confermo, alla luce di una raccolta straordinariamente matura, ma vorrei spingermi un po’ oltre.Vero, il tono rimane senza dubbio caratterizzato da un lirismo teso a tratteggiare le “lacrime delle cose” (Virgilio e Gabriella Sica) tramite i topoi dell’ubi sunt e del villoniano mais où sont les neiges d’antan; però Floris ha saputo partire da qui per ampliare di molto la propria visione poetica: credo infatti che il libro si strutturi non solo la prima antinomia strutturale, vale a dire l’asse temporale Passato/Presente, ma anche, come vedremo, su una visione ciclica della realtà, bene esemplificata dal ciclo delle stagioni. “Fuori del tempo” mi pare quindi oggi una definizione valida ma da circoscrivere con attenzione, perché in questa raccolta Floris parla del mondo moderno con lucidità e profondità di visione.All’estate, che giustamente il postfatore Ivan Fedeli definisce la stagione più amata (come momento della luce, della pienezza e della maturazione), si contrappone l’autunno (che prelude all’inverno), con tutto il corollario di sovratoni tendenzialmente negativi.La prima opposizione (Passato/Presente) ha come immagine centrale quella del titolo, i “mattoni a vista” che caratterizzano una modernità (più o meno post-) che ha tagliato i ponti con il passato, e che quindi non ha radici né memoria, come se fossimo giunti in un luogo in preda ad amnesia: sono le case nuove, i nuovi stili di vita così bene ritratti nel testo in qualche modo eponimo e proemiale (p. 7). Subito però un accenno quasi casuale ci porta al centro della riflessione del poeta: «la stufa a legna . . . sembrava viva»: è chiaro che il confronto è soprattutto fra un passato che ha spesso il sapore di un Eden perduto e che al di là di ogni facile nostalgia è legato alla vita, a legami sociali più saldi, e un presente di disseccamento e morte spirituale, come confermano altri versi: «Ora vedo il deserto / presidiare le strade / col suo cuore di software» (p. 54); o anche: «il rito della spesa / al centro commerciale» (p. 11); si vedano anche le splendide La ceppa (p. 16) e Corte vecchia (p. 22), e persino la parte finale del romanzo La croce di Malta.I testi che assumono valore memoriale, anche personale, hanno la precisa funzione di approfondire questa dicotomia anche attraverso «i vecchi dei cortili» (p. 7) convocati ad hoc, come il nonno della bellissima poesia a p. 9. Sono figure associate spesso all’autunno, che si fanno però assenze (p. 33), fantasmi (p. 40), quasi fossero figure ossessionanti oltre che ricordi amicali e ideali compagni di viaggio. Non si può non cogliere un’altra dicotomia centrale, che è quella tra Vita e Morte: e questo mi conduce a una nuova annotazione a proposito della poesia di Floris, e che forse può rendere conto dell’esergo dedicato a Pontiggia (p. 44): siamo in presenza di una dimensione mitica che avvolge tutto il mondo di Floris a partire da una concezione ciclica delle stagioni e, di conseguenza, del tempo. Una conferma obliqua può anche venire da Gli uomini delle giostre (p. 48: «ogni ritorno è docile al solstizio»): se da un lato il ritorno dei giostrai conferma il ritorno di un tempo gioioso preceduto dall’attesa e seguito dal ricordo, non si può non notare come la giostra sia in sé un simbolo di quella stessa ciclicità, con ascendenze persino medievali – la festa, la sospensione del tempo, il capovolgimento dell’ordine.Allora la tensione tra passato e presente si sposta su un altro piano: se il ciclo naturale garantisce una serena visione del tempo, e quindi del futuro, tramite il ritorno all’identico (più stoico che nicciano), i segni del tempo (della corruzione, della rovina) che vediamo attorno a noi non potranno non essere visti come minaccia, come possibile faglia. Ecco allora lacerti come (facendo una piccola scelta): non c’è più tempo (p. 12, 13, 47)il tempo ha perduto le cose, ha ingoiato la vita (p. 16)il tempo si sta sgretolando (p. 18)tempo che ci resta (p. 29)che il tempo ha consumato (p. 30)il nostro tempo è consumato (p. 39)il tempo si consuma (p. 41)al tempo che scompare (p. 47)svanisce il tempo (p. 49)dilaga il tempo (p. 52)il tempo si sfarina (p. 55) (e se «c’è ancora tempo» è per dedicarsi al rito della spesa, p. 11). Insomma, è una visione che si potrebbe definire apocalittica, di una vita umana accerchiata dal nulla in cui le cose precipitano, sebbene sia controbilanciata dalla pietas umana, di ascendenza classica, stoica e cristiana: la stessa pietas che spinge il poeta a scrivere, a far restare i propri versi, la propria visione del mondo, che io definirei persino ammonitrice.

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