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#pietredifiume - maggio 2024

VERSO UNA MISTICA DEL BUIO, O QUASI.

Maura Baldini

 

 

Amami come la talpa ama la sua tenebra

(Dylan Thomas)

 



 

Ogni giorno, sul mio lago, l’aurora è un coagulo-sole, s’innalza lenta dietro cime basse, esplode nella culla di due crinali incrociati e fa del cielo un’urna di luce.

A ogni nuova alba la cecità notturna frana al di fuori del sonno, e noi pensiamo di essere salvi. Perché il sonno, si sa, è la nostra anteprima di morte, dal quale ogni giorno la vita si slega attraverso la luce.

Fiat lux (Genesi, capitolo I, versetto 3): suona così, nella nostra memoria religiosa, il gesto divino della creazione, il principio dell’eternità.

E da questo comando in poi, la luce è divenuta simbolo fausto e benigno per antonomasia.

Simbolo dei simboli, fra i più indagati, meditati, magnificati, non fosse altro per il banalissimo fatto che senza luce ci si estingue. Eppure, la rinomanza della luce esula dalla sua funzione biologica, ha radici altrove, nei più disparati modelli culturali, dalla teologia alla filosofia, dall’alchimia all’astrononomia, radici che s’annodano al pensiero e ne affinano i percorsi.

Proviamo a divagare molto rapidamente.

Già nelle antiche religioni persiane dualistiche, come lo zoroatrismo e il mitraismo, la luce è sostanza divina. Mitra, ad esempio, che nasce nel solstizio d’inverno, è un dio-luce, ha natura solare, è spirito di luce e calore.

Platone introduce nella filosofia occidentale la concezione della luce come sostanza divina, paragonando la luce dell’idea del bene alla luce del sole che fa essere le cose e le rende conoscibili illuminandole (Platone, Repubblica).

Al contrario, per i filosofi neoplatonici, la luce è teofania, poiché manifesta la realtà divina senza, tuttavia, stabilirne l’essenza, che rimane inconoscibile.

In effetti, è proprio nel Medioevo che sboccia una vera e propria mistica della luce, la quale, attraverso una vasta nomenclatura (lux, lumen, splendor, claritas, radium, reflexio etc.), concepisce la luce come espressione di una realtà sconosciuta e indicibile, e, dunque, come strumento di accesso alla divinità, ma non come rivelazione del divino. D’altronde, la luce divina è primigenia, increata, inconoscibile. Mentre la luce che permette lo svelamento del lato misterico di ogni cosa è una amalgama di splendore e tenebre, dunque è luce creata.

Ha ancora a che fare con l’atto della genesi la luce su cui medita Meister Eckhart, per il quale la creazione è il tempio di luce di Dio.

Ma abbandoniamo ora il gesto creativo, per rammentare che la luce è stata a lungo meditata anche come strumento di conoscenza. Per Sant’Agostino, ad esempio, che intende l’interiorità come una sorta di legge epistemologica, la conoscenza emana non soltanto dall’anima, ma anche da Dio, che a essa comunica la sua luce per offrirle la certezza della conoscenza.

Gli stessi Illuministi, seppur alieni all’impronta mistica del Santo, fanno della luce-ragione il vessillo dell’Âge des lumières, con le capitali implicazioni in ambito politico, sociale e culturale che tutti conosciamo.

Anche da un punto di vista alchemico, la luce, naturalmente, ha fama di bene: sostanza solare, essa è potenza misteriosa che genera e trasforma, e nell’uomo illuminato può addirittura creare l’oro spirituale.  

E così, di associazione in associazione, la simbologia legata alla luce è divenuta inarrestabile deflagrazione di virtù, la miccia di ogni bene. Al contrario il buio, ovviamente.

A Ginevra, dove vivo, sulle vestigia delle antiche mura, in un parco con pretese di charme parigino, campeggiano le statue dei Riformatori e l’incisione Post tenebras lux. Nel motto della città smotta ancora una volta la luce-bene, in questo caso consistente nella grazia di Dio che salva dalla depravazione e dal male cui molti sono predestinati.

Insomma, la luce, nei millenni, è assurta a simbolo di onnipotenza, di virtù, di conoscenza, di progresso, di salvezza, di benessere (la cromoterapia, l’assorbimento della vitamina D, la cura di certe patologie dermatologiche, e via discorrendo), in un intricato sistema di contaminazioni filosofiche, teologiche e scientifiche. Al punto che, come ha dichiarato qualche anno fa il filosofo Massimo Cacciari, ci ritroviamo oggi afflitti da una vera e propria “ossessione di omnivisibilità”.

Le nostre città, in perpetua orgia luminosa, ne sono testimonianza. Abbiamo visto tutti il mondo dalla prospettiva di un satellite: globo blu screziato di capillari e vene di luci, non manca di voragini luminose, che corrispondono, ovviamente, ai grandi centri urbani. In barba allo spreco energetico e al temuto inquinamento luminoso, vogliamo tutti la luce, primordiale condizione di apparenza, e temiamo l’oscurità, osteggiandola con ogni mezzo; e forse, in un futuro prossimo, cercheremo di annientarla definitivamente.

Proprio stamani rileggevo la storia di un minuscolo borgo montano del Piemonte, Viganella, che si trova nell’abisso di un’angusta valle, alle spalle della quale una montagna impedisce ai raggi solari di sconfinare, relegandolo, da novembre a febbrario, alla perenne penombra. Questo, almeno, sino al 2006, quando un sindaco e un architetto illuminati – permettetemi la boutade – hanno congegnato uno specchio di undici quintali che, dalla cima della montagna, secondo un perfetto meccanismo rotatorio, ha riportato il sole in piazza, in chiesa, e nelle case. Uno specchio che, al crepuscolo, si corica in orizzontale per permettere a vento e pioggia di ripulirlo.

I benefici del ritorno del sole, in questo caso, sono intuibili, e il progetto è un prodigio.

Ma le città sono altro, sconfitta dell’intimità, e la guerra irriducibile al buio, mi provoca sempre una fitta al cuore. Nelle mie fantasie distopiche, mi prefiguro un futuro in cui il mondo sarà orlato da una corolla di soli artificiali non-stop che scaccerà definitivamente il sacro timore delle tenebre e darà vita a una nuova forma di insonnia collettiva da luce, in cui nessuno avrà più pace.

Per scacciare la distopia, mi rivolgo allora a quei pensatori che non hanno apologizzato le virtù della luce, preferendo l’amalgama del chiaroscuro; il che mi permette di incunearmi nel mio personale discorso sul buio, cercando di rivalutarne un poco la reputazione.

Prendiamo Heidegger, per il quale l’arte – come dimensione dell’Essere – illumina il mondo e dà ordine alla realta; essa, tuttavia, è consustanziale alla oscurità che diventa presupposto dello svelamento. In altri termini, l’arte ha fame di buio e di esso si nutre per svelare l’ignoto. D’altronde, perché si scrive se non per svelare l’ignoto? Pensiamo alla poesia. A prescindere da qualsiasi vacua speculazione circa la sua natura e la sua funzione, proviamo a indagarne gli effetti: quando una poesia ci appare grandiosa? Dal mio punto di vista, quando essa svela l’ignoto, sia esso l’ignoto di una carezza o quello di un abbandono. Ebbene, il processo creativo destinato a condurre all’epifania non può certo compiersi sotto lo sguardo spudorato della luce; complice dello svelamento è, semmai, una luce debole, sfumata transizione dal crepuscolo al giorno, come la luce declinante della luna. Siamo nel regno dell’allusione, dell’intendimento, dell’intuizione.

Heidegger individua una metafora efficacissima: condizione dello svelamento, ma anche dell’accadere della luce della ragione, è la lichtung, la radura nel bosco, appena illuminata. Qui, in un riverbero ovattato, Essere e Pensiero tornano a incontrarsi e a fondersi, come non era più accaduto dopo Parmenide. Dal lumen della ragione alla forza creativa del linguaggio, gli esiti dello svelamento sprigionano come sortilegio dall’oscurità.

D’altronde, se evochiamo poesia e oscurità, tornano alla mente le forze sotterranee dello spirito, di cui parlava Ungaretti quando tentava di definire la matrice della poesia, per lui atto di solitudine dominato dal segreto. E il segreto, lo sappiamo bene, familiarizza con le tenebre, non certo con la luce. Insomma, se l’arte è trascendenza, essa non può fare a meno del buio, e persino della luce nera della follia.

Prende le mosse proprio dalla contemplazione della follia Jacques Derrida, per rovesciare la metafora cartesiana luce-ragione: se la ragione è segno di chiarezza e di senso (e per questo è simboleggiata dalla luce), afferma il filosofo, non possiamo dimenticare che non esiste una sola luce, ma una molteplicità di luci, fra le quali dobbiamo annoverare anche la luce nera, che è quella, appunto, della follia; l’atto del cogitare, aggiunge Derrida, include sempre la follia, e la crisi della ragione insorge proprio quando si tenta di spegnere completamente questa luce nera.

Il buio, insomma, va preservato.

Ha ragione Denis Diderot quando conclude, tranchant, che “la luce va bene per convincere, ma non vale niente per commuovere.” (Diderot, Salon de 1767, in Oeuvres complètes, 1875). In virtù di simile (condivisibile) affermazione, il filosofo ci invita a essere tenebrosi, poiché l’emozione sensibile trasfigurata dal buio offre all’udito un potere di svelamento senza eguali. Sappiamo bene, in effetti, che nel buio perdiamo ogni riferimento percettivo, la coscienza del rapporto con le cose si dissolve, i sensi confliggono fra loro, e, non da ultimo, si caricano di una portata affettiva; pensiamo alle sensazioni emotive che ci provoca un gemito notturno, di cui, immersi nell’invisibile, non comprendiamo provenienza e natura. È un gemito di piacere? Di dolore? Di paura? Da chi proviene? E pensiamo allo stesso gemito di cui, alla luce del sole, identifichiamo provenienza e natura. La ripercussioni emotive non sono comparabili.

Anche lo sguardo – che nel buio è il senso più penalizzato – riveste un ruolo particolare: deve adattarsi ad accogliere l’invisibile. L’oscurità è una zona di confine, dove si muovono sagome, dove la densità dei corpi sparisce nel riverbero, e le cose possono apparire smisurate o deformate. Una visione di questo genere ha una carica emotiva ineguagliabile, a condizione che ci si lasci alterare dal buio. Il premio, in questo caso, è lo stupore, una sensazione che non sappiamo quasi più provare. Pensate a cosa accade quando un’ombra che abbiamo immaginato demoniaca si svela nell’angelico corpo di un bambino: il terrore si stempera in stupefazione, poi in pace, e ci rimane addosso il gusto dell’attesa di quell’imprevista epifania.

Malcolm de Chazal, aforista francofono di genio, amato da Wystan H. Auden, nel suo libro impossibile Sens-Plastique (pubblicato in Italia quest’anno da edizioni Magog con il titolo Plastica), ha dato vita a una vera e propria cosmogonia dell’invisibile, dissezionando la materia-Uomo e la materia delle cose con i cinque sensi, per poi scardinarli facendo emergere il punto di vista dell’occhio psichico. E proprio l’occhio psichico – corrispondente a una sorta di sesto senso – è la facoltà non sensoriale che permette di bucare il buio e di vedere nella notte. Leggiamo de Chazal:


“Le dita vedono nella notte, come i gatti. Ma non ne siamo coscienti, poiché, per ricevere messaggi visivi dalla punta delle dita, dovremmo chiudere l’occhio fisico e aprire l’occhio psichico, come fanno i ciechi.”

 

“Siamo molto più coscienti della nostra schiena al buio che alla luce del giorno. Nell’oscurità, guardiamo dietro di noi, in modo parziale e con la mente, diminuendo così, nella stessa misura, la percezione che abbiamo di faccia. Ergo, nel buio assoluto, come nella paura estrema, camminiamo con la mente a ritroso, pur avanzando col corpo di faccia, e creiamo così una tensione tra i nostri due Esseri, fisico e psichico, come accade all’estremità dell’elastico che si tende; tensione che si manterrà fino a quando il primo oggetto contro il quale sbatteremo di notte, non farà allentare di colpo l’elastico del nostro doppio Io, facendoci sussultare, allo stesso modo in cui ‘salta’ un elastico teso che ‘si allunga’ all’improvviso.”

 

Spasaemento, dislocazione dei sensi, propiocezione, tensione. Tensione che acuisce mostruosamente i recettori della pelle, come fossero occhi, principio di sublime voluttà.

Goethe pensava che sublime fosse ciò che terrorizza e valica i limiti del corpo (come, ad esempio, un vulcano in eruzione). Il buio, allora, mi viene da concludere, è una delle esperienze più sublimi che ci sia dato provare. Nell’oscurità si è minacciati dalla perdita del controllo sensoriale, dal conflitto fra le attese dei sensi e la realtà, e si prova paura: l’arcana paura del demone che ha seviziato ed estasiato la nostra infanzia, e che torna a farci percepire la piccolezza del nostro corpo, della nostra persona, al cospetto dell’ignoto.

Quando si accenna all’ignoto, si finisce per incontrare l’infinito. Ebbene, il buio è, per definizione, assenza di confini, e il cielo notturno, nella sua infinità, ci sovrasta, inondandoci di quella spaventosa sensazione che è il sublime. Ma non è tutto. Il cielo notturno non è conoscibile né attraverso l’intelletto (che non può calcolare in maniera precisa tutte le stelle), né attraverso l’immaginazione (che non può giungere a rappresentarle in un’unica figura), con conseguente fallimento dei due strumenti di conoscenza che possediamo. Allora mi chiedo: che implicazioni ha questo fallimento? Forse, la conoscenza, virtù teleologica sovrana, non è il nostro unico destino. Nella sospensione di ogni speculazione e nell’atto dell’affidamento incondizionato avvertiamo il risveglio del sublime. Ed è questo il destino cui siamo vocati non per nascita, ma per amore della vita.

Che senso ha, allora, quella tregenda di luci urbane, quella brama di vedere tutto che annienta l’infinito del cielo mettendolo alla portata del nostro sguardo?

Non ho risposta, purtroppo.

Ma so per certo che la luce non ha pietà, che è l’ambrosia del giudizio e del pregiudizio. Al contrario del buio, dove le differenze fra uomini s’incontrano pacificamente, nell’empatia di chi sa che anche l’altro si sta nascondendo. La notte è il sacello degli inaccettabili, degli amanti clandestini, dei viandanti e degli insonni. Come al cospetto di uno sguardo sfiorato, che non sfila il segreto ma lo corteggia, nel buio ci risaniamo, accettiamo la frattura che la luce spudoratamente illumina. Quella luce che talvolta è deserto e maledizione, e non un’aurea alba sul lago.

Il buio è furia dell’indefinito, Essere dell’esserci; in esso germoglia il desiderio, estasi come assenza di geometrie: battito, saliva, fruscio, indistinto rimare del corpo. Il buio è carne che tocchi con gli occhi, nel tacere dell’Io-forma, è amore dell’impermanenza, dei tratti nascosti, ammaraggio di angeli muti. Nel buio noi tutti moriamo quello che in luce siamo.

Sul lago anche la notte ha una sua luce, che non è quella che emana dalle strade e dalle case.

È la luce che giace al di sotto delle increspature, opaca e porosa, un abisso di misericordia.









Maura Baldini è cresciuta sulla sponda piemontese del Lago Maggiore, dove ha esercitato per molti anni la professione di avvocato. Oggi vive a Ginevra e si dedica, fra l’altro, alla traduzione e alla poesia. Di recente, ha tradotto André Malraux e Malcolm de Chazal, curando i seguenti volumi: André Malraux, Occidentali quali valori difendete?, De Piante; Malcolm de Chazal, Plastica, Gruppo editoriale Magog. Nel 2022, è stata pubblicata per Il Convivio Editore la sua silloge poetica di esordio, La slegatura, opera tra le vincitrici del Premio Carrera 2022. Alcune sue poesie figurano su riviste letterarie e blog. Scrive, inoltre, articoli di cultura per la rivista Pangea e note critiche per altre riviste e blog letterari.


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