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Poeta? No, grazie. - Il sasso della libertà

  • almanacco
  • 10 set
  • Tempo di lettura: 6 min

Aggiornamento: 12 set

Intervento di Carlo Penati del 7 giugno 2025 presso il Castello di Pozzolo Formigaro


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“Ma il flautista – ORFEO - trova una breccia e interviene:

MENTRE ULISSE E I SUOI COMPARI SI AFFANNANO PER ORGANIZZARE LA DISTRUZIONE DEL PALAZZO DEL RE-TORO A CRETA

“Vi siete spartiti il mondo, buon pro vi faccia, amici!

Ma avete diseredato me, io resto senza niente.

Sappiate che io sono quello che vince più di tutti,

non ho vigne o campi deserti, non ho preoccupazioni,

la mente è alta, senza vincoli, e gioco con il mondo:

Io mi siedo in un angolo, sul sasso della libertà,

e vi guardo passare, gravati dalle seccature;

e rido, distendo il cervello e scaglio la parola

graffiante, esatta, splendida, e voi venite meno.

Anzi no, come ombre diafane entrate nel mio alto canto;

questa è la parte che mi spetta, non ne voglio un'altra!”[1]

 

È Nikos Kazantzakis nella sua Odissea ad attribuire al mitico Orfeo questi pensieri che risuonano con alcune riflessioni che si affollano nella mia mente nell’ormai lungo periodo disruptive/dirompente che stiamo vivendo.

Intorno a Orfeo tutto brucia, un po’ come oggi, e anche il sasso scotta se non si intende la libertà come distacco, atarassia, luco incantato al centro di un bosco che si fa scudo e distanza.

È la prima tentazione/possibilità, quella di ritrarmi e confortarmi con la mia scrittura. Ci si può sottrarre, estraniandosi, e pensare che tutto viva nella mente e qualcosa, da questa meravigliosa distanza, coli per sovrabbondanza e si raggrumi in versi frementi o distesi, scagliati a smentire, per confronto con l’altezza ascetica del pensiero ritratto in se stesso, l’affannoso girare a vuoto della volontà di potenza votata troppo spesso oggi a violenza, inganno, prepotenza.

Che cosa può, del resto, la parola, rinchiusa in circuiti minori di presenze centellinate, oscure, solitarie, di fronte all’incombere disumanizzante del mostro che separa e contrappone il proprio presunto benessere a quello di ogni altro? Sciagurato volgere del tempo, che pensavamo progressivo e invece ritorna col suo carico di pianti e inutili morti, lo scandalo della strage degli innocenti, la belluina dominanza di volti ferocemente sorridenti.

E allora:

“Sto al mondo come chi ne resta fuori

e guarda.”

È una tentazione forte, che Camillo Sbarbaro consegna agli ultimi due versi di una sua poesia dal titolo incoraggiante: “Aspetto”.

Ma la nostra mente è relazione e nel momento in cui separiamo il nostro destino da quello altrui, scaviamo un solco in noi stessi, svuotiamo la pienezza delle nostre possibilità di essere e di comunicare, scriviamo parole di nessuna lingua, incomprensibilmente – e perciò inutilmente - balbettate. Dividere sé dagli altri. Impresa impossibile se non a costo di inutili sofferenze e menomazioni (non ce ne dà già abbastanza nel suo puro divenire la nostra esistenza?), perché il solco che si apre in noi sanguina incessantemente come il fegato di Prometeo incatenato alla roccia.

Il sasso di Orfeo, invece, suggerisce Kazantzakis, non ci incatena, ci libera. Perché rappresenta la libertà dell’immaginazione sottratta ai ruoli sociali, al peso degli impegni, al rincorrere affannati il tempo che non basta mai: un girare a vuoto, se non deposita bellezza e non alimenta la nostra esistenza arricchendola di senso e di esperienze nutrienti.

E l’immaginazione ci libera, aprendo nuovi spazi di possibilità, anche dall’oppressione di un cielo tempestoso che grava su di noi. Ci libera dall’orrore che incombe. Perché si frappone tra noi e l’assuefazione, la rinuncia, l’indifferenza.

La libertà dell’immaginazione, che spesso ci neghiamo per un’ostinata premura, per un giudizio inespresso, per una cauta censura, oppure per un “voler dire”, insegnare, orientare, dominare, riposa sul sasso tiepido e freddo della poesia.

La poeta, il poeta, cerca un altrove, una dimensione ulteriore di sé, delle cose, della vita, del mondo in cui agisce e sosta. Una dimensione che solo lei/lui riesce a cogliere e che svela – attraverso le parole ben ordinate, l’armonia del verso, o la loro stridente dissonanza - la profondità e l’ampiezza delle nostre possibilità di vita piena, creativa, generativa. Il legame con un’aura di senso che “ordini” la realtà e le relazioni o che ne proclami l’inevitabile disordine, l’irriducibilità a un unico “versus”, a una direzione che spieghi (tolga le pieghe ed appiani) le asperità dell’esistere.

Nella “poiesis”, il fare poetico, è un continuo trascendere. Già Aristotele distingueva la Poiesis (Ποίησις), il fare poetico, generativo, dalla Praxis (Πρᾶξις), il fare morale fine a se stesso.

C’è un altro «fare» che non sia alla fine furioso e distruttivo, che non sia un «fare senza limiti».

Poiesis è infatti «fare dal nulla», estrarre, creare e un «fare per nulla», non finalizzato a un interesse appropriativo: il fare che si fa poesia, che si fa «oro» dal valore incalcolabile.

Il fare poetico è pertanto, nel momento stesso in cui crea, un atto «sacrale», perché sacro è ciò che è separato non in quanto irraggiungibile, tragicamente Altro, ma in quanto non è «scambiabile». E non è scambiabile, non può essere merce, in quanto non assoggettabile a calcolo, in quanto ha un valore «incommensurabile».

Che cos’è la libertà della e del poeta ce lo rivela nel fulgore di una frase, Maria Zambrano:

“La poesia è incontro, dono, scoperta venuta dal cielo. La filosofia è ricerca, urgente domanda guidata da un metodo.”[2]

La filosofia cerca, la poesia trova: due «fare» opposti e complementari. E ciò che la poesia trova viene detto, condiviso, porto ad altri; viene restituito. Perché ognuno ne faccia ciò che crede, perché è proprio nella possibilità che a diversi lettori dica cose diverse che la poesia perviene ad un carattere di universalità.

Il/la poeta è come una sentinella che osserva, intuisce, espone inerpicandosi sulle più impervie vicende del mondo, e apre uno spiraglio perché ciascuno possa intravedere, affacciandosi alla soglia o imboccando una nuova porta, se stesso; oppure ciascuno possa giungere sgomento sull’orlo dell’abisso per scoprire che non è altro, l’abisso, che una montagna rovesciata ricolma di cielo. Perché nel profondo di se stessi l’Io si rivela un Noi. Perché è la relazione che ci costituisce.

E lo può fare sostando su un sasso perché la sua competenza più vera è l’empatia con gli altri, il mondo vicino, l’intero universo.

Sostare sulla durezza rassicurante della pietra, tiepida del sole diurno, tenendo ferma la propria scelta di difformità, è l’ultima scena, la versione post-contemporanea della rivoluzione possibile?

Tutto viene a me, qui fermo sulla pietra che ancora vibra impercettibilmente della scossa originaria che la distaccò da una massa. Demarcazione tra il percepito e lo sfuggente, l’altrove. È questo il confine che abita la poesia ed è il continuo attraversamento di tale confine che l’alimenta, incessantemente.

Il sasso della libertà è la torre di Hölderlin a Tubinga, dove sfuma la ragione in versi sublimi?

O la terra gelida e rossa su cui si accartoccia l’indomito corpo cantante di Mandel’Stam?

L’àncora che ci trattiene estranei o l’ancòra di chi si getta dentro ogni fuoco, forgia di versi urlanti una sempre altra verità?

Materia è lo scavo nel fondo dell’anima ferma o l’accumulo di tempo e di vita  nel mezzo del fiume in tempesta?

Tra il distacco ascetico e l’immersione in ogni fuoco, in ogni fiume di sangue (mi è rimasta l’eco della Cassandra di Christa Wolff), scelgo di abitare l’incerto, di essere viandante del mondo.

Il poeta non asservito può scagliare le sue parole non per ferire con la violenza dell’offesa, del dispregio, dell’insulto gratuito, dell’odio da tastiera o da strada, ma per risvegliare la coscienza offrendo un frammento di conoscenza, di consapevolezza, di dubbio, di spiazzamento.

Non ostinarsi su un’idea gradita, confortante, risolutiva: questo è sostare sul sasso della libertà.

Ma allora la poeta, il poeta hanno una missione da compiere? Sono ad essa asserviti?

Il sasso di Orfeo non è un proiettile da scagliare, ma un luogo aperto in cui sostare e da cui interagire con il mondo interno e esterno, che sono un’unica entità.

Ma basta la libertà individuale? Del singolo poeta?

La libertà è una dimensione sempre collettiva, relazionale. La libertà richiede reciprocità di comportamenti, di fare rete….

Operativamente, scelgo la strada di continuare a tessere, portando sullo stesso telaio la miriade di cenacoli che imperterriti sfornano poesie e letture. L’ordito è il comune lavoro, il fare e farsi della poesia, della produzione di parole – e sensi – in versi compiuti.

La trama è l’originale disegno che ciascuno traccia.

L’ordito e la trama formano l’armatura, metafora eloquente della necessaria strumentazione con cui affrontare l’esistenza e il mondo. Un’armatura pacifica, formata da un tessuto denso e morbido di umanizzazione in un contesto mondo dove tende a dominare la logica del più forte, degli interessi di parte, della disumanizzazione. E con essi la logica delle parole false, inaffidabili, violente, che dividono ad arte, disfacendo nelle tenebre la tela della buona convivenza faticosamente tessuta di luce.

Ecco allora il senso di questi cenacoli: mantenere vivo l’umanesimo attraverso uno degli strumenti - la libera creatività condivisa, la parresia - che meglio lo connotano. Continuiamo a metterci in rete tra di noi.

 

 


[1] Nikos Kazantzakis, Odissea, Crocetti editore, Milano, 2023, Nuova edizione riveduta, p. 213

[2] Maria Zambrano, Filosofia e poesia, Edizioni Pendragon, Bologna, 2010; con questo testo ho dialogato in Le ragioni del sentimento: filosofia e poesia in Maria Zambrano, in “Anterem on line”, 2011.







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