Giuseppe Zoppelli, Dall'intellettuale legislatore all'influencer?
Si aggira un fantasma per l’Italia (e non solo): l’intellettuale; qualcuno oggigiorno lo cerca ma nessuno lo trova, altrimenti non si spiegherebbe la ripetuta, insistita e accorata domanda di questi ultimi anni, non si sa se formulata col nostalgico desiderio di ritrovarlo o con la soddisfazione di averlo definitivamente perduto: insomma, dove sono finiti gli intellettuali, che fine hanno fatto? Almeno quella figura di intellettuale che «[…] mette in discussione il potere, contesta il discorso dominante, provoca il disaccordo, introduce un punto di vista critico. Non solo in un’opera teorica o letteraria, […], ma anche e soprattutto nello spazio pubblico. E spesso, deve anche pagare il prezzo delle sue scelte»1. Prima, però, di rispondere e di avvalorare o meno la provocatoria e paradossale parabola suggerita nel titolo, dall’intellettuale legislatore2 all’influencer, occorrerebbe – io credo – interrogarsi sull’effettivo valore e sull’effettivo peso avuto da quell’intellettuale militante e engagé che abbiamo imparato a conoscere fin dai tempi dello Zola dell’Affaire Dreyfus – prefigurato tuttavia dai philosophes, dagli hommes de lettres e dalla république de lettres dell’Illuminismo – ancora attivo a nuovo secolo inoltrato, magari nella versione gramsciana dell’intellettuale organico, e fino almeno a buona parte della seconda metà del Novecento. Insomma occorrerebbe chiedersi, al di là del prestigio e del mandato sociale, quale sia stata la sua effettiva influenza sull’opinione pubblica e sulla società, sulla cultura e sulla politica, su quella che Machiavelli chiamerebbe “realtà effettuale” non ideale3. Forse così scopriremmo tutti i limiti oggettivi e tutta l’impotenza, a volte, del lavoro intellettuale, della cultura, dell’arte e della letteratura, che non ne sminuiscono l’importanza, ma ne circoscrivono l’azione e gli effetti.
Anche se capisco che sia difficile soppesarla e pesarla, sarebbe bene tentare, seppure con qualche approssimazione: questa influenza è stata grande o scarsa? Va stabilita caso per caso? Ha riguardato solo delle élites, delle avanguardie e dei gruppi ristretti o ha raggiunto le masse? Ha pesato sulle scelte politiche, mettiamo delle classi dirigenti, o anche solo su quelle culturali ed editoriali? Ha contribuito al dibattito pubblico, lo ha arricchito e rilanciato o è rimasta un’influenza marginale? L’opinione dell’intellettuale sui faits politici, economici, culturali, artistici, sociali contemporanei, magari espressa sulle pagine di un grande quotidiano nazionale o di qualche settimanale a larga diffusione o di riviste specialistiche, aveva una qualche ricaduta o era un semplice gioco cerebrale, di società e un parlare tra sé e sé o, al massimo, con qualche sodale o avversario di diverso orientamento ideologico? Oppure contribuiva a mantenere vivo e acceso il dibattito pubblico, quando ancora non era sparito dall’orizzonte dell’agorà e il narcisismo di massa, la piazza mediatica, i news media, il web, i social networks, le fake news, la post-verità erano ancora di là da venire? A educare le masse, a mobilitare le coscienze, a diffondere valori, progetti, utopie in vista di un mondo migliore, considerando quello attuale non il migliore dei mondi possibili ma semplicemente il meno peggio dei mondi reali? Contribuiva a sensibilizzare l’opinione pubblica contro le ingiustizie e gli orrori della storia passata e presente, oppure “parlava a nuora perché suocera intendesse”?
Ma, appunto, è legittimo chiedersi: i grandi intellettuali della prima metà del Novecento, organici e impegnati, con tutto il loro lavoro e con tutto il loro impegno, sono forse riusciti a scongiurare, ad esempio, la Shoah, perpetrata nel cuore della progredita civiltà europea ed occidentale, nella Germania di Goethe, di Hegel, di Beethoven? Basterebbe ricordare quanto scritto da George Steiner: «Noi veniamo dopo. Adesso sappiamo che un uomo può leggere Goethe o Rilke la sera, può suonare Bach e Schubert, e quindi, il mattino dopo, recarsi al proprio lavoro ad Auschwitz»4. E di rincalzo, sull’impotenza – a volte – della cultura e sui limiti dell’arte, scrive Filippo La Porta: «Con la prima guerra mondiale è caduta per sempre la fede nel progresso, nelle magnifiche sorti dell’umanità. Secoli di tradizione classica, di sublime artistico, di umanesimo, non hanno evitato gli orrori di un conflitto immane e inutile. E poi il nazismo, sorto non nell’Africa subtropicale, ma nella culla della filosofia idealistica e della musica romantica, ha mostrato come la cultura stessa non sia di per sé una forza umanizzatrice. I suoi anticorpi, gli argini che riesce a costruire si rivelano ben poca cosa di fronte al potere e al fanatismo. Ciò che con il nazismo si manifesta in modo esemplare è una inarrestabile volontà di potenza, che prevale quasi ovunque sulle idee, sulla ragione, su ogni credenza genuina e che affonda le sue radici nel fondo oscuro della nostra civiltà»5.
Che l’attività intellettuale, l’esperienza estetica di per sé, le arti, la letteratura, la poesia non bastino e non siano sufficienti, da sole, a scongiurare la barbarie, il suo ripetersi e riprodursi è ulteriormente confermato da «[…] esempi altrettanto numerosi, i quali dimostrano che si può coltivare lo spirito senza assolutamente farne una virtù»6, proprio perché disgiunti dai valori morali e dalle leggi dell’etica: ormai lo sappiano «[…] il fatto di essere sommamente sensibili ai valori artistici può rendervi particolarmente insensibili ai valori etici»7. È il caso, appunto, dei tanti sensibili e commossi, sino alle lacrime, nazisti amanti dell’arte, della musica e della letteratura, un amore che accomuna tanto le vittime quanto i carnefici e gli aguzzini: «Il detenuto Micheels va in estasi ascoltando la musica. Ma non è il solo. La Lagerführerin dello stesso campo di concentramento, Maria Mandel, ha un debole particolare per l’aria di Madame Butterfly dall’opera di Puccini: a ogni ora del giorno e della notte va nella baracca delle musiciste per farsela cantare. Ogni volta ne è incantata. Josef Kramer, comandante di Birkenau, condivide le inclinazioni musicali della Mandel e incoraggia le attività dell’orchestra femminile del lager. Il pezzo che preferisce è il Sogno di Schumann, che ascolta con la massima attenzione. “Si abbandona alla sua tenera emozione e si lascia piacevolmente scorrere sulle guance accuratamente sbarbate lacrime preziose come perle” […]. In assenza della Mandel e di Kramer, il più fervente melomane è il dottor Mengele: “Uomini che amano tanto la musica, uomini che piangono nell’ascoltarla, sono capaci di fare tanto male, di fare semplicemente del male?”, si chiede un membro dell’orchestra maschile di Auschwitz […]. Purtroppo sì. E Fania Fénelon, che si lascia trasportare dalla musica che suona, non è neanche lei la sola: negli uffici della Sicurezza di Stato, a Berlino, è stato predisposto un locale per la musica fornito di strumenti. Un certo Adolf Eichmann va regolarmente a suonarvi il violino, accompagnato al piano dal suo camerata SS Bostramer: musica da camera romantica»8.
Gli attuali denigratori di quella figura di intellettuale vedono in lui, naturalmente, tutti i mali, i limiti e le storture del suo agire impegnato, forse perché lo identificano con una parte politica a cui si sentono avversi e che avrebbe detenuto una sorta di monopolio culturale, e sono ben lieti di celebrare il funerale dei “cattivi maestri”; i nostalgici, invece, e nel sentimento della nostalgia – peraltro – non vi è nulla di negativo o di cui vergognarsi, vedono nella scomparsa di quell’intellettuale engagé non solo gli indubbi difetti, ma anche una perdita secca per la cultura e per la società poiché ricopriva il ruolo insostituibile di “grillo parlante” con i suoi j’accuse, di dissidente, di voce e di coscienza critica, soprattutto se intellettuale “disorganico” e marginale, non allineato ad una qualsivoglia ideologia politica od ordine e direttiva di partito. Nell’un caso come nell’altro andrebbe tuttavia riconosciuto all’unisono il prezzo pagato nel corso del Novecento da molti intellettuali nell’esercizio della loro funzione critica, vittime dei regimi totalitari e illiberali e, a volte, anche di quelli democratici. Pagato ancor oggi, se vogliano far rientrare la figura del giornalista in quella, più generale, dell’intellettuale contemporaneo: secondo i dati diffusi dall’Unesco, negli ultimi dodici anni (2006-2018), sono stati uccisi nel mondo almeno 1.109 giornalisti nell’esercizio del loro mestiere e nel tentativo di raccontare, attraverso il giornalismo di denuncia e d’inchiesta, verità scomode per qualche potere o potentato, spesso relative a rapporti di corruzione e di collusione tra politica e criminalità9. Vale la pena almeno ricordare, se non altro per l’eco mediatica avuta e per la forza simbolica che rappresentano, i casi di Anna Politkovskaja, Daphne Caruana Galizia e Jan Kuciak.
Certo, è necessaria una distinzione: gli accademici, in genere, intendono per maestri i docenti e i professori universitari che hanno contribuito alla loro formazione professionale e disciplinare quando erano studenti e discenti o quando hanno mosso i primi passi nell’insegnamento e nella ricerca, e che magari hanno continuato proficuamente a frequentare negli anni (e tanti loro omaggi post mortem si riferiscono a questi maestri o a loro compagni di strada)10; e che, a volte, hanno anche contribuito alla loro formazione morale e umana nel secondo dopoguerra, grazie alla loro autorevolezza e autorità morale, soprattutto se provenienti dall’esperienza della Resistenza o della Costituente. Esistono ancora oggi tali maestri nell’accademia, ma forse più di un tempo agiscono solamente all’interno dell’università e si limitano alla trasmissione del sapere specialistico e di un metodo di ricerca, o limitano i loro interventi specialistici sulle riviste di settore. Fuori dall’accademia, invece, sembra prevalere questo secondo aspetto, morale ed etico, che è anche il più interessante: la figura cioè dell’intellettuale “irregolare”, del maestro “involontario”, “disorganico”, “controvoglia”, “eretico”11, che agisce soprattutto – con l’esempio di vita oltre che di lavoro – sul versante etico, della critica della società, dell’intervento pubblico, dello “scandalo” (Pasolini docet); figura, non a caso, vicina a quella elaborata da Said, «[…] in quanto outsider, “dilettante” e contestatore dello status quo»12. Naturalmente si danno casi in cui in una stessa figura si assommano entrambi, l’accademico e l’eretico, lo studioso e il militante: possiamo ricordare, ad esempio, il poeta Franco Fortini, docente a Siena e contemporaneamente noto polemista sulle pagine di giornali e riviste, per la verità spesso e volentieri nel ruolo di uno contro tutti, anche contro i propri “amici”; o il poeta Edoardo Sanguineti, docente a Genova, deputato, critico militante tra “ideologia e linguaggio”, definito da Luperini “l’ultimo intellettuale del Novecento”, intellettuale “universale” che non si è rinchiuso entro gli “steccati dello specialismo”13; ecc.
La postmodernità come condizione storica, da non confondere comunque col postmoderno culturale e artistico o con il postmodernismo ideologico e filosofico (tanto è vero che, da questo punto di vista, vi è ormai chi preferisce parlare di ipermodernità14 o di “condizione neomoderna”15 o sottolineare la fine del postmoderno16), ha comportato tali e tanti cambiamenti e trasformazioni a tutti i livelli e piani della società, dalla struttura materiale ed economica alla sovrastruttura culturale, pur senza uscire dal sistema capitalistico o, per dirla con Luciano Gallino, dal finanzcapitalismo17, da non lasciare certo indenne la figura dell’intellettuale e, in particolare, quella dell’intellettuale, direbbe Bauman, legislatore o anche solo “disorganico”, ormai – secondo molti – improponibile e della quale ci possiamo sentire, semmai, irrimediabilmente orfani: quella società di intellettuali prodotto della modernità, quell’intellettuale critico e militante, quell’intellettuale suo malgrado maestro, quell’intellettuale “disorganico” non esistono più, sostituiti da una intellettualità allargata, diffusa, proletarizzata, massificata, spuntata, polverizzata in mezzo alla “folla solitaria”, a sua volta in preda allo stesso narcisismo di massa una volta estinto il collante delle tradizionali ideologie novecentesche, ed espressione di una cultura che, suggerisce Goffredo Fofi, così com’è prodotta, proposta, diffusa e consumata, non è nient’altro che l’odierno anestetizzante e imbonitore “oppio dei popoli”.
In questa polverizzazione e massificazione della figura dell’intellettuale, in questo frastuono in cui chi grida di più sembra avere ragione, in mezzo all’infopollution e alla spettacolarizzazione di ogni evento, anche tragico, la voce dell’intellettuale afono non si sente, non giunge nemmeno a farsi ascoltare o, forse, non esiste nemmeno più, perché è lui, l’intellettuale, ad essersi estinto, sostituito e surclassato dall’influente figura dell’influencer, per la quale è appena stato istituito un percorso di laurea triennale, con le sue centinaia di migliaia o milioni di followers, di contatti, di visualizzazioni: lui sì che oggi fa sentire tutto il suo peso e, nella società sempre più dei consumi, crea consenso e diventa la guida e il maestro in grado di spostare acquirenti da un prodotto a un altro prodotto, da un consumo ad un altro consumo, da una moda a un’altra moda, da un modello trendy ad un altro modello trendy, è lui che fa tendenza e che orienta il pubblico, anche nei consumi culturali e nell’acquisto dei libri (con buona pace dei critici e dei recensori)18. Oppure sostituito da quell’altra degradante figura di intellettuale che è il tuttologo invitato nei vari talk show televisivi e radiofonici, più che altro a gridare e a battibeccare, visto che – come afferma Lasch – la discussione è davvero un’arte perduta, mentre in rete imperversano gli odiatori di professione, gli ignoranti, i millantatori, i dilettanti allo sbaraglio dell’opinione senza alcun fondamento razionale o scientifico, i siti specchietto per allodole, in cui tutti – senza preparazione senza un minimo di professionalità e anzi sospettosi degli esperti – straparlano e diffondono notizie fasulle, false e tendenziose, apertamente in grado – quando in mano ai premurosi e benevoli “tutori” kantiani – di manipolare le coscienze, l’opinione pubblica e addirittura di influire sul voto (e ovviamente sui consumi), mentre i nostri profili vengono venduti in rete al miglior offerente e senza alcun controllo nel mercato degli algoritmi, così da prevedere e promuovere i nostri futuri consumi e desideri indotti.
Sembrerebbe non poter essere altrimenti nell’epoca della “morte del soggetto” umanistico tradizionale, della società di massa, dell’industria culturale e della logica culturale del tardo capitalismo, della monopolistica concentrazione editoriale e della scomparsa dell’editore-protagonista e del letterato-editore, sostituiti dalla figura del manager, della fine delle ideologie, dei fondamenti, dei grands récits, delle utopie e delle speranze, dell’eterno presente che esclude il passato (o lo riusa come sincronico magazzino da cui ripescare eventi senza riconoscerne l’alterità storica e la profondità temporale) e abolisce il futuro, dell’istante epifanico e dell’istantaneo, dell’evento da consumare in tempo reale, del web che tutti avviluppa e inviluppa, della perpetua connessione e interconnessione di tutti con tutti, della comunicazione tramite social e news media, della società dell’intrattenimento, dell’infopollution e della post-verità, del consumo che solo sembra dare identità. Inoltre, nelle nostre democrazie di massa, in cui prevale il giusto – ma a volte distorto e malinteso – ideale di uguaglianza, confuso con il conformismo e l’omologazione; nelle nostre società di massa, in cui domina un diffuso narcisismo (di cui ci ha parlato Lasch: narcisismo da disturbo psicologico a forma mentis di un’intera società), nessuno sembra disposto ad aver bisogno di un maestro o ad ammettere di averne bisogno: «Il maestro, […], è ridicolmente anacronistico. Sembra non essercene bisogno, sembra anzi un ingombro che attenta alla libertà e all’uguaglianza»19. Il fatto è che, in passato, «[…] la perfetta uguaglianza e la perfetta schiavitù avrebbero postulato il dispotismo. Oggi, forse non occorre: se guardiamo le società «evolute» del nostro tempo, possiamo scorgere la tendenza diffusa a desiderare o essere indotti a desiderare la propria omologazione nella massa, omogenea nelle sue aspirazioni materiali, ugualizzata senza costrizione apparente»20.
Come scrive La Porta: «[…] l’idea stessa di maestro è diventata sospetta, incompatibile con la democrazia di massa e con le sue retoriche dominanti. Nessuno vuole eleggere nessun altro a suo maestro: se ne sentirebbe sminuito!»21. Altri sono i sentimenti dei contemporanei: «Non si ammira più nessuno. Tutt’al più lo si invidia. […]. La personalità narcisistica delle nostre società, nevroticamente insicura, desidera non tanto essere ammirata quanto essere invidiata»22. Ma poi non si ammira nessuno perché l’ammirazione sembra mettere in discussione proprio l’«[…] assunto-base della democrazia stessa, il principio egualitario […]. Se infatti io dichiaro di ammirare qualcuno, implicitamente dico che lui è migliore di me. Il mio voto vale esattamente quanto il suo!»23. Non possediamo cioè, oggi, i giusti sentimenti per accogliere un maestro e per accettarlo come “un modello positivo, da emulare e imitare” (al limite altri sono i modelli). Il narcisismo di massa oscura sentimenti quali l’ammirazione, la compassione, l’“onor” (nel senso in cui lo intendeva il poeta veneto Giacomo Noventa), la vergogna («Un sentimento – scrive Fofi – che sopravvive di rado, in questa Italia grigia o nera […]»24). Conformismo, narcisismo, invidia, insicurezza che vanno a sommarsi ai vizi atavici e storici del carattere italiano, al di là degli stereotipi: campanilismo e municipalismo, scarso senso civico, familismo, servilismo, cinismo, ipocrisia, trasformismo e mascheramenti vari, fatalismo, culto del particulare ecc.
Il tutto dentro una società liquida e globalizzata che riduce l’individuo a conformistico consumatore e a spettatore passivo (illusoriamente protagonista e interattivo grazie alla cultura karaoke, come la definisce Dubravka Ugrešić25, e ai nuovi media in cui prevalgono i mi piace-non mi piace, le emoticon, le parole contate dei “cinguettii”, gli insulti, i litigi verbali – molte volte pronunciati nell’irresponsabilità dell’anonimato – e in cui ogni narciso sembra dare il peggio di sé), culturalmente imprigionato tra la dittatura dell’ignoranza26 e l’egemonia sottoculturale nazional-popolar-gossipara27, e che a fatica e con coraggio ci sentiremmo di definire civiltà dello spettacolo, come ancora fa Vargas Llosa28, quando invece bisognerebbe parlare di inciviltà di quella che Guy Debord ha criticamente definito – appunto – società dello spettacolo29, se non fosse che la critica della cultura di massa, a fronte di una sua passiva accettazione, è sparita dall’orizzonte degli intellettuali engagés e dei critici militanti. In essa prevale l’ideale paranoico di una vita light, senza peso e profondità, privata del suo spessore, della sua materialità, della sua concretezza e durezza – contro ogni evidenza delle vite reali e delle vite di uomini non illustri – diffuso dall’industria dello spettacolo e dell’intrattenimento come forma di acritica e disimpegnata evasione, esemplato sul modello delle vite dei vip: divi di Hollywood o di una qualche Bollywood, attori, cantanti, comici, politici ignoranti, modelle anoressiche, sportivi, stilisti, scrittori e artisti presenzialisti, showgirl senza arte, tycoon, faccendieri, ereditiere, famiglie reali, “ricchi e famosi”, “nani” “ballerine” “fenomeni da baraccone” e freaks del mostruoso circo mediatico, squallidi protagonisti della televisione (sempre più autistica e tautologica), personaggi vari dal successo effimero ossessionati dal corpo e dal look tra lifting e botulino. Vite vissute con estrema disinvoltura, irresponsabilità e leggerezza, e modello costruito a tavolino dal marketing dell’industria della cultura pop e dalle strategie del successo, propagandato e amplificato dai mass media e dai social, quando poi – a volte – sono proprio le very important persons le prime vittime dello star system o della loro più che normale e ordinaria infelicità tra alcol, droga, psicofarmaci e suicidi.
C’è ancora posto per l’intellettuale, se non proprio legislatore almeno militante, in questo mondo inviluppato nella rete? Per quel “partito” degli intellettuali nato con l’Illuminismo in un’epoca in cui la ragione (critica) non solo sembra declinare ma viene derisa e vista con sospetto e insofferenza? Può ancora far sentire la sua flebile voce in tanto bavardage e chiacchiericcio? Morta la società degli intellettuali, prosciugato quel brodo di coltura in cui potevano proliferare, negli anni del secondo dopoguerra e ancora nei decenni successivi, tra gli altri, i Vittorini, i Calvino, i Fortini, gli Sciascia, i Pasolini, i maestri “involontari” come Calamandrei, don Milani, Silone, Bobbio, Capitini, Chiaromonte, non restano che solitari e inascoltati don Chisciotte? Secondo Fortini può forse scomparire la biblioteca storica della critica letteraria e dei suoi istituti, ma non può sparire l’atto della comprensione e della valutazione: possiamo dire altrettanto per l’attività intellettuale, e cioè che – al netto della scomparsa dell’intellettuale engagé e del ritiro del mandato sociale – non può sparire l’atto di comprendere, interpretare e valutare il mondo così come l’atto critico in sé?
Impietosa è l’analisi che Goffredo Fofi fa della figura dell’intellettuale contemporaneo, dell’attuale industria culturale, del sistema educativo e scolastico, anche di quello universitario e accademico, delle arti e della cultura di massa nel suo pamphlet L’oppio del popolo30. Forse monocorde, forse “biliare”, forse idiosincratica, forse perfino monotona nella sua ripetitiva insistenza, ma quanto salutare in un sistema culturale che ha completamente dimenticato l’esercizio della critica della cultura, quella che ci avevano insegnato – tra gli altri – i francofortesi, segno che l’intellettuale militante e engagé, caparbiamente critico e per nulla rassegnato nonostante il “pessimismo della ragione”, non è ancora del tutto estinto e che non è – in fondo – nemmeno solo nella sua militanza visto che Fofi ha sempre saputo – negli anni – coagulare intorno a sé iniziative culturali anticonformiste e aggreganti, a cominciare dalla fondazione di riviste impegnate e antiaccademiche ormai storiche31, gruppi di lavoro e di intervento culturale sul territorio, con un’attenzione sempre rinnovata per i tanti e diversi sfruttati, umiliati, ultimi e dannati della terra, e per i tanti Sud del mondo, i quali non sono certo scomparsi – né da noi né nel resto del pianeta – nell’idilliaco mondo postmoderno e post-tutto che avrebbe visto – tra le tante fini – la fine della storia, dei grands récits, delle ideologie, dell’etica, della verità, del soggetto e dell’arte (ma che cos’è stato, in fondo, il postmodernismo se non un ideologico grand récit, proprio quella “grande narrazione” e quell’ideologia che erano date per morte?).
La fine di quegli intellettuali che esercitavano una funzione di ricerca del giusto e del vero all’interno della nostra società è ormai acclarata: «La fine dei nostri intellettuali risale, credo, agli anni Ottanta del secolo scorso, quando sono andati via via scomparendo gli ultimi rappresentanti della generazione cresciuta nella guerra e nella ricostruzione, una generazione che a considerarla adesso ci appare invero straordinaria, la migliore che il paese abbia avuto, intellettuali (nel cui numero considero ovviamente gli artisti) che un ruolo da svolgere hanno voluto e hanno avuto, e hanno continuato a esercitarlo sino alla fine. […] individui che sono stati per vocazione e professione artisti o studiosi, anche, tra loro, certi giornalisti, che sono riusciti a parlare alla nazione, a un pubblico molto vasto, additando i problemi aperti e le responsabilità che ne conseguivano per tutti. Essi si assumevano coscientemente una responsabilità civile nei confronti della società»32. Gli intellettuali di oggi, invece, sono “divi e divetti”, funzionari di un sistema di potere e di dominio, complici dello stato di cose presente, succubi della comunicazione in quanto “propaganda, pubblicità, distrazione, imbonimento”, al servizio di un’industria culturale che serve “per addormentare le coscienze e non per risvegliarle”.
Eppure, quanto lavoro da sbrigare ci sarebbe per gli intellettuali se non fossero così arrendevoli. E il bello è che, spesso nell’anonimato, nel silenzio dei media, al buio dei riflettori, fuori dalle luci di scena, nel cono d’ombra del disinteresse generale, ai margini del sistema culturale asservito, compiacente se non complice, lavorano attivamente, anche sul campo, minoranze etiche di intellettuali più o meno giovani che si muovono sul piano dell’indagine e della denuncia sociologica, e che non fanno tendenza: “l’ottimismo della volontà” consente di non spegnere la ragione critica e mantiene viva la speranza. Ci potremmo chiedere quanto incidano questi intellettuali marginali e quanto influiscano sul resto della società queste minoranze etiche. Torna, insomma, la questione posta all’inizio: quanto influiva effettivamente l’intellighenzia italiana non asservita – anche quella più “organica” – lungo il secolo e nella seconda metà del Novecento, quanto i maestri “irregolari”, “disorganici”, “involontari”, eccentrici, forse le voci più interessanti, sulla politica, sulla cultura e sulla società del tempo? Di più o di meno, fatta salva una stagione culturale irripetibile, di quelli marginali di oggi? Certo, godevano di uno spazio culturale maggiore, le loro voci si stagliavano e giungevano più nette, contribuivano al dibattito culturale e alla critica sociale: ma hanno mai cambiato davvero qualcosa, in quanto intellettuali, della “realtà effettuale”? Del resto, dei limiti della sua attività culturale è consapevole lo stesso intellettuale “in quanto outsider” («[…] un esiliato e un emarginato, un dilettante, oltre che l’autore di un linguaggio che si propone di dire la verità al potere»33), di quel «[…] senso di impotenza che spesso ci prende di fronte alla potenza opprimente delle grandi autorità sociali – i media, il governo, le istituzioni pubbliche e private – che escludono ogni possibilità di operare un cambiamento. Rifiutarsi di appartenere a tali autorità significa in qualche modo non avere la possibilità di operare un cambiamento diretto e, ahimè, venire di tanto in tanto relegati al ruolo di testimoni che assistono a un orrore non registrato altrimenti»34.
Eppure li sentiamo come una perdita irrimediabile e irreparabile proprio perché ci mancano le loro voci, i loro interventi, le loro polemiche, anche i loro errori, la loro autorevolezza, la loro opinione, giusta o sbagliata che fosse, condivisibile o criticabile, perché almeno partecipavano alla formazione dell’opinione pubblica e al dibattito culturale, perché con essi ci siamo formati e perché essi ci hanno educato. Tanto che di un maestro potremmo dire quello che di un amico ha scritto Sereni: «Un grande amico che sorga alto su me / e tutto porti me nella sua luce, / che largo rida ove io sorrida appena / e forte ami ove io accenni a invaghirmi…»35; e infatti, proprio così, Alti su di me, intitola un suo libro Gian Luigi Beccaria, con dedica «Ai miei maestri». Mentre oggi ci rattristano i tanti opinion makers tutti presi ad influenzare i gusti e ad orientare le scelte di mercato, quelle culturali comprese, delle nuove generazioni, dei nostri figli, dei nostri nipoti e dei consumatori tutti, che a questo siamo ridotti. Pur essendo in possesso di media straordinari, inimmaginabili fino a qualche decennio fa, i nativi digitali faticano ad orientarsi e non riconoscono maestri: forse perché semplicemente non li conoscono, mentre conoscono gli influencer, o perché non esistono più? Nemmeno la politica sa più oggigiorno cosa farsene degli intellettuali, ne salta bellamente la mediazione e non sente la necessità del confronto e della discussione pubblica: la ricerca del consenso, meglio sarebbe dire del semplice voto nell’urna, passa per altre strade e per le autostrade informatiche, che facilitano grandemente, tra social, fake news e siti ingannevoli, la propaganda e la manipolazione delle coscienze.
Nessuno sembra più chiedere nulla ai maîtres-à-penser, nel generale clima di anti-intellettualismo (peraltro non nuovo)36, e proprio quando siamo circondati da un gran numero di “maestri” di ogni genere, come suggerisce Gustavo Zagrebelsky37: sono visti, anzi, con sospetto, derisi e dileggiati, considerati anacronistici e fuori tempo massimo. Forse oggi, buoni o “cattivi” che fossero, non esistono più i Maestri, ma solo – per riprendere il titolo del romanzo autobiografico di Luigi Meneghello38 – “piccoli maestri”, un’intellettualità diffusa spesso anonima e poco conosciuta che, non per questo, rinuncia a lottare per un mondo migliore, anzi fa della resistenza culturale e della denuncia le sue armi critiche: ne sono una tragica conferma i tanti intellettuali (filosofi, scrittori, artisti, poeti, giornalisti, fotoreporter, insegnanti ecc.) minacciati, perseguitati, reclusi, torturati e uccisi in tanti Paesi del mondo. Gli eroi della quotidianità, con le loro “vite di uomini non illustri”, come direbbe Pontiggia39, e con le loro “virtù quotidiane” (Todorov)40: l’unica forma di eroismo oggi possibile, cadute molte divinità e molte statue dai piedistalli. E nonostante le critiche mosse loro e all’istituzione scolastica, non mi sentirei di escludere – pro domo mea – dai “piccoli maestri” i tanti insegnanti della scuola di ogni ordine e grado che con passione e senso di responsabilità, per il ruolo educativo ricoperto, ancora svolgono il loro lavoro intellettuale, ancora credono nel loro mestiere, ancora scommettono – controcorrente e contro forze avverse (scolastiche, quali la burocratizzazione e una visione economicistica del sapere al servizio del mercato, e soprattutto extrascolastiche) decisamente superiori – sulle nuove generazioni: come scrive Massimo Recalcati, che ancora crede nella lectio ex-cathedra e nella testimonianza della parola dell’insegnante in grado di accendere (o, purtroppo, di spegnere) l’epistemofilia e il desiderio di sapere negli allievi, «Non c’è educazione alla lettura, non c’è, dunque, educazione in senso ampio, se non c’è la parola di un maestro»41. Fosse anche un “piccolo maestro”.
È lecito tuttavia chiedersi se i “piccoli maestri” abbiano sempre uno sguardo sufficientemente lungimirante affacciato su un orizzonte sufficientemente ampio e se dal loro circoscritto mestiere e limitato settore (l’artista, il giornalista, l’insegnante, lo scrittore ecc.) sappiano assurgere alla figura di intellettuale, poiché dobbiamo ammettere che – in partenza – questa intellettualità onnicomprensiva e diffusa, e così concepita, non corrisponde automaticamente e necessariamente alla figura dell’intellettuale, al quale chiediamo qualcosa di più del suo sapere specifico e parziale, del suo mestiere e della sua professione settoriali (che pure sono necessari). Forse assistiamo ad un cambiamento di sistema e di paradigma: agli intellettuali odierni sembra, cioè, mancare una visione (e una narrazione) complessiva e d’insieme del sistema-mondo, che non paiono più in grado – dopo la fine dei grands récits, delle ideologie e delle utopie – di elaborare e teorizzare, come di elaborare un pensiero critico globale. Il loro raggio di azione si è fortemente ristretto e la loro riflessione non può che avere un carattere locale e “specifico” (nel senso in cui l’intendeva Foucault), che meglio si addice – oltretutto – alla loro polverizzazione, alla loro continua specializzazione e ad un sapere sempre più parcellizzato.
Resta, però, uno iato incolmabile tra l’intellettuale “universale”, in grado di criticare il potere e di intervenire sulle più diverse questioni del presente, e l’intellettuale “specifico”, che può intervenire solo nel suo segmento e nel suo settore di competenza, limitato dalla settorializzazione del sapere e dal sapere tecnico (e infatti, spesso e volentieri, si trasforma in “tecnico” o nell’“esperto”, «[…] uno specialista che mette le sue conoscenze al servizio dei gabinetti ministeriali»42). Dobbiamo, insomma, ormai rinunciare al primo e prendere atto dell’esistenza del solo secondo, e sulla sua figura riprogrammare la nostra idea di intellettuale? Nel senso che, come suggerisce lo storico Enzo Traverso, l’intellettuale di oggi “deve essere insieme specifico e critico”? O meglio ancora, come scrive Said, l’intellettuale deve tentare «[…] di attenersi a un modello universale e particolare insieme – o piuttosto l’interazione tra l’universale e il locale, il soggettivo, l’hic et nunc – »?43. Insomma, anche i “piccoli maestri” possono diventare degli intellettuali, ma solo se non coincidono con la figura dello specialista: «[…] nell’idea dell’intellettuale come specialista – scrive Berardinelli sulla scia di Ortega y Gasset – c’è una distorsione effettivamente “barbarica” […]»44. In effetti i nostri tempi sembrano aver bisogno o di “esperti” e di “tecnici”, peraltro organici all’establishment: «[…] sociologi, economisti, politologi, giuristi sono mobilitati per perpetuare l’esistente, correggendolo eventualmente ma sempre per perpetuarlo. Essi operano sotto la «dittatura del presente». Il compito dei tecnici è conservatore […]. Ma, i tecnici sono al massimo esperti, non maestri»; o di influencers, di esperti del marketing e di persuasori: «I maestri di cui il nostro tempo sembra avere bisogno sono quelli che rassicurano e consolano, non quelli che risvegliano le coscienze»45.
I “piccoli maestri” devono tuttavia essere consapevoli di far parte di una minoranza etica, di non avere alcun potere46, di non avere “né cariche da difendere né territori da consolidare o custodire” (Said): «Si tratta sempre di un discorso minoritario, si tratta sempre di un discorso da pochi a pochi. Guai a pensare in termini di masse, di successo, di fama. I nostri maestri si sono ben guardati dal prometterci tutto questo, sono i cattivi maestri che lo hanno fatto, proponendo macabre illusioni e accettando i ricatti sudici e meschini della società dello spettacolo, l’idolatria della falsa comunicazione»47. E devono possedere la forza morale per accettare la loro condizione di solitudine e di individui poiché “quella dell’intellettuale è una condizione di solitudine”, sempre meglio però “di una tolleranza servile di fronte alle cose quali si danno e mostrano” (Said), poiché «I Critici rischiano la solitudine. Hanno bisogno della solitudine. Anzi, la rappresentano pubblicamente come un valore pubblico che è pubblicamente misconosciuto»48. Una solitudine che non è solo una condanna sociale, ma che è consustanziale alla condizione degli intellettuali contemporanei: «[…] gli intellettuali non sono sempre, anzi quasi mai, da considerare anzitutto come ceto sociale e come gruppo. Spesso, nei casi migliori, si tratta di inclassificabili singoli, e la loro vulnerabile forza è in questo»49.
Essi sono stati considerati dai sociologi e dai politici lungo il Novecento “una categoria, una serie di corporazioni e di gruppi di pressione” e hanno così finito per vedersi, in un’ottica anti-individualista, come “un’entità collettiva”, «[…] in quanto ruolo e funzione sociale, o strumento utile in vista di scopi politici. Hanno voluto sentirsi specialisti, funzionari, organizzatori e infine, a loro volta, politici»50. Ma è altrettanto vero, scrive Berardinelli, che gli intellettuali “sono e funzionano soprattutto come individui”, anche perché sensibili e attenti alle singole vite individuali non alle categorie, il loro io “è uno strumento per essere onesti con gli altri, che a loro volta non son privi di un loro io”: «La loro attività e il loro modo di essere consistono in una valorizzazione pubblica dell’individuo. Difendendo se stessi difendono di fatto, lo vogliano o no, l’individualità di tutti, gli spazi di libertà (e anche di solitudine) di cui un individuo ha bisogno per esistere. / La critica sociale non nasce da un vuoto di motivazioni personali: si nutre di disagio, sofferenze e idiosincrasie. Tra i più acuti diagnostici della vita contemporanea ci sono scrittori non solo antipolitici ma notevolmente antisociali […]»51. La solitudine52 e il vuoto in cui l’intellettuale relativamente libero, laico, “dilettante”53 (tutto il contrario del professionista e del tecnico), non asservito, che non si è votato ciecamente a una qualche divinità (potere, istituzione o potentato accademico o economico che sia, ricavandone favori, visibilità, posizione), si trova ad operare, e che lamenta, non può prescindere in ultima istanza – di fronte al molto che c’è da fare54 nonostante la fuorviante e ingannevole morte delle ideologie e il malinteso politically correct – dalla responsabilità individuale, dall’accettazione della propria condizione di marginalità senza prebende, dal coraggio di “dire la verità al potere”, dalla propria coscienza e dalle proprie scelte, poiché sempre in quanto individuo «[…] l’intellettuale ha la facoltà di scegliere se rappresentare attivamente la verità al meglio dei propri talenti, oppure lasciarsi passivamente guidare da un padrone o un’autorità. Per l’intellettuale laico, questi dèi sempre falliscono»55.
È bene, comunque, aprire un credito a questo nuovo soggetto che è l’“intellettualità diffusa”, che sembra – al momento – l’unica possibile, sociologicamente e culturalmente, nell’attuale terziarizzazione della società e nel mondo globalizzato, come fa anche Filippo La Porta a proposito della non-violenza: «In fondo, l’intellettualità diffusa, da qualcuno indicata come nuovo soggetto rivoluzionario – il general intellect del lavoro immateriale cui accennò Marx –, è matura proprio per una scelta del genere, più vicina alle proprie attitudini di cooperazione sociale e competenza cognitiva, di dialogo e conoscenza. È in fondo l’agire comunicativo stesso, che definisce l’identità di questo nuovo soggetto, a richiedere una prassi non-violenta […]»56. Se dovessimo illuminare su un mappamondo, per quanto eterogenei siano, i luoghi dell’orrore, della reclusione e della costrizione (lager, gulag, carceri, laogai, campi di concentramento, campi di lavoro, manicomi, ghetti, campi di rieducazione, campi profughi, centri di detenzione per migranti ecc.) di un passato recente e dell’oggi, probabilmente vedremmo l’intero globo quasi completamente punteggiato di luci: dal Sud America e dall’America Latina dei regimi dittatoriali, autoritari e militari al Sud Africa dell’apartheid, dalla Corea del Sud prima e quella del Nord poi a molti Paesi arabi, dalla Cina alla Turchia, dall’URSS ai Paesi comunisti ed ex-comunisti ecc.
A conferma di una pratica diffusa, e tuttora in vigore, in ogni parte del mondo, che non risparmia nemmeno i Paesi formalmente democratici, e di cui spesso e volentieri hanno fatto – e fanno – tragica esperienza, tra gli altri, anche gli intellettuali, gli scrittori, i poeti e i giornalisti, invisi agli occhi di un qualche regime e di un qualche potere che, a volte, ricorre alla pratica sbrigativa dell’assassinio e della loro eliminazione fisica, nella convinzione errata che si possano fermare le idee e si possa arrestare il potere della parola (al quale evidentemente credono, mentre sono gli stessi intellettuali e poeti a sminuirlo e a svalutarlo, anzi a considerare irresponsabilmente le poesie – come ha scritto Attilio Lolini – “carte da sandwich”)57. Anche solo per questo, e per rendere onore al loro coraggio e alla loro determinazione nella ricerca della verità, dovremmo responsabilmente riconoscere il lavoro di tanti “piccoli maestri”, che rischino o meno la vita o che debbano vivere o meno sotto scorta, e continuare a credere nell’attività intellettuale come critica del presente, dell’esistente e della vita, con o senza Maestri con la emme maiuscola, senza mai dimenticare che – come voleva György Lukács – anche un critico letterario non fa altro che parlare, sempre, delle questioni fondamentali della vita.
Note
1. Enzo Traverso, Che fine hanno fatto gli intellettuali? Conversazione con Régis Meyran, (2013), Verona, ombre corte, 2014, p. 10.
2. Nell’accezione in cui l’intende Zygmunt Bauman nel passaggio dagli intellettuali in quanto “legislatori moderni” a “interpreti postmoderni”: «La strategia tipicamente moderna del lavoro intellettuale è quella caratterizzata nel modo migliore dalla metafora del ruolo di «legislatore». Esso consiste nel fare affermazioni autorevoli che arbitrano controversie di opinioni e selezionano quelle opinioni che, una volta prescelte, diventano corrette e vincolanti. L’autorità per arbitrare le controversie è in questo caso legittimata dalla conoscenza superiore (oggettiva) alla quale gli intellettuali hanno un accesso più facile rispetto alla parte non intellettuale della società. L’accesso a questa conoscenza è più facile grazie alle regole procedurali che garantiscono la conquista della verità, il raggiungimento di un giudizio morale valido e la scelta di un corretto gusto artistico. Tali regole procedurali hanno una validità universale, al pari dei frutti della loro applicazione. L’uso di tali regole procedurali rende i professionisti intellettuali (scienziati, filosofi morali, studiosi di estetica) proprietari collettivi di un sapere di rilevanza diretta e cruciale ai fini del mantenimento e del perfezionamento dell’ordine sociale» (La decadenza degli intellettuali. Da legislatori a interpreti, (1987), Torino, Bollati Boringhieri, 2007 (1992), p. 15).
3. Altro discorso andrebbe fatto per quegli intellettuali che, nel corso del XX secolo, sono giunti al potere e hanno avuto esperienza diretta di governo, magari in seguito ad una rivoluzione politica, e che hanno finito per tradire, stravolgere, rinnegare o accantonare i loro ideali nell’esercizio del potere; o per quegli intellettuali che si sono messi subito al servizio – per convinzione o per semplice interesse personale – di un qualche regime, magari dittatoriale o totalitario, allineandosi alle direttive del partito unico, firmando manifesti, sottoscrivendo tessere, giurando fedeltà allo Stato, accettando prebende, premi, posizioni e incarichi culturali di prestigio, e sposando indirizzi artistici ed estetiche ufficiali, condividendo per contro la condanna dell’arte “deviante “e “degenerata”. Insomma, accettando un’arte prescrittiva di regime (che quasi sempre ha funzione ideologica e di propaganda), fossero il “realismo socialista” e lo zdanovismo o il monumentalismo classicheggiante dell’antica Roma o il ritorno ad un qualche ordine. In entrambi i casi quello che emerge è un bilancio fallimentare del rapporto tra intellettuali e potere, l’inconciliabilità dei due “mestieri”, «[…] l’incompatibilità dell’intellettuale – come osserva Traverso a proposito di Trockij – con il potere, i malintesi e i pericoli della confusione dei ruoli» (Enzo Traverso, Che fine hanno fatto gli intellettuali? Conversazione con Régis Meyran cit., p. 44). Senza dimenticare tuttavia, anche se pochi e in minoranza, quegli intellettuali che, fin da subito e ben prima dei redenti (cfr. Mirella Serri, I redenti. Gli intellettuali che vissero due volte. 1938-1948, Milano, Corbaccio, 2005) e della Resistenza, si opposero, ad esempio, al regime fascista, quegli “irriducibili” (cfr. Mirella Serri, Gli irriducibili. I giovani ribelli che sfidarono Mussolini, Milano, Longanesi, 2019) che pagarono di persona la loro opposizione con il carcere, il confino, l’esilio.
4. George Steiner, Prefazione a Id., Linguaggio e silenzio. Saggi sul linguaggio, la letteratura e l’inumano, (1967), Milano, Garzanti, 2006 (2001), p. 9 (ma già Rizzoli, 1972).
5. Filippo La Porta, Maestri irregolari. Una lezione per il nostro presente, Torino, Bollati Boringhieri, 2007, p. 20.
6. Tzvetan Todorov, Di fronte all’estremo. Quale etica per il secolo dei gulag e dei campi di sterminio? Milano, Garzanti, 1992, p. 98.
7. Ibid., p. 100.
8. Ibid., p. 99.
9. Cfr. 2018 UNESCO Director-General Report on the Safety of Journalists and the Danger of Impunity, https://en.unesco.org/sites/default/files/unesco_dg_report_2018_highlights_en.pdf
10. È a questa figura di “maestro” che pensa, ad esempio, Gian Luigi Beccaria nella sezione intitolata proprio Maestri del suo libro Alti su di me. Maestri e metodi, testi e ricordi (Torino, Einaudi, 2013), tanto che vengono ricordati, sotto quella categoria, Benvenuto Terracini, Giovanni Getto, Giovanni Nencioni, Maria Corti, D’Arco Silvio Avalle, Lore Terracini; a cui si aggiungono Due amici (i compagni di strada Claudio Magris, degli anni universitari a Torino, e Pier Vincenzo Mengaldo) e gli amici-maestri (Giorgio Bàrberi Squarotti e Eugenio Corsini) e i compagni di scuola (Marziano Guglielminetti, Guido Davico Bonino, Folco Portinari, Lorenzo Mondo, Angelo e Stefano Jacomuzzi, Lionello Sozzi, Claudio Gorlier).
11. Tutti aggettivi che ritroviamo, ad esempio, nei lavori di Filippo La Porta dedicati agli intellettuali del Novecento, quali: Maestri irregolari. Una lezione per il nostro presente cit.; Disorganici. Maestri involontari del Novecento, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2018; Eretico controvoglia. Nicola Chiaromonte, una vita tra giustizia e libertà, Milano, Bompiani, 2019.
12. Edward W. Said, Dire la verità. Gli intellettuali e il potere, (1994), Milano, Feltrinelli, 1995, p. 10.
13. «Ma, al di là di ogni dettaglio, Sanguineti, ripeto, è stato l’ultimo grande intellettuale del secolo scorso. Non un “esperto” o uno specialista, ma un uomo di cultura universale. L’attività varia e complessa di poeta, romanziere, uomo di teatro, critico, giornalista, professore universitario, saggista, politico non risulta mai dispersiva, perché sempre centrata sul progetto unitario di una figura storica di intellettuale che Sanguineti ha tenacemente difeso anche quando, negli ultimi due decenni del Novecento, era ormai in via di rapidissima estinzione» (Romano Luperini, Sanguineti, l’ultimo intellettuale in Id., Dal modernismo a oggi. storicizzare la contemporaneità, Roma, Carocci, 2018, p. 96).
14. Cfr. Raffaele Donnarumma, Ipermodernità. Dove va la narrativa contemporanea, Bologna, Il Mulino, 2014.
15. Cfr. Roberto Mordacci, La condizione neomoderna, Torino, Einaudi, 2017.
16. Cfr. tra gli altri, ad esempio, Romano Luperini, La fine del postmoderno, Napoli, Guida Editore, 2005; Id., Tramonto e resistenza della critica, Macerata, Quodlibet, 2013; Alfonso Berardinelli, Casi critici. Dal postmoderno alla mutazione, Macerata, Quodlibet, 2007.
17. Luciano Gallino, Finanzcapitalismo. La civiltà del denaro in crisi, Torino, Einaudi, 2011.
18. «E se alla fine l’editoria la salvassero youtuber e influencer? Non per i libri che scrivono, forse, ma per i libri che promuovono con il post giusto al momento giusto» (Alessandro Zaccuri, Tendenze. L’influencer salverà il libro? in «Avvenire», 5 dicembre 2019.
19. Gustavo Zagrebelsky, Mai più senza maestri, Bologna, il Mulino, 2019, p. 137.
20. Ibid., p. 19.
21. Filippo La Porta, Maestri irregolari. Una lezione per il nostro presente cit., p. 12.
22. Ibid., p. 13.
23. Ibidem.
24. Goffredo Fofi, L’oppio del popolo, Milano, elèuthera, 2019, p. 157.
25. Dubravka Ugrešić, Cultura karaoke, Roma, nottetempo, 2014.
26. Giancarlo Majorino, La dittatura dell’ignoranza. Il regime invisibile, Milano, Tropea Editore, 2010.
27. Massimiliano Panarari, L’egemonia sottoculturale. L’Italia da Gramsci al gossip, Torino, Einaudi, 2010.
28. Mario Vargas Llosa, La civiltà dello spettacolo, Torino, Einaudi, 2013.
29. Guy Debord, La società dello spettacolo, (1967), Bari, De Donato, 1968.
30. Goffredo Fofi, L’oppio del popolo cit.
31. Tra piccole e meno piccole riviste, secondo il motto fofiano «di non aver paura di esser parte di una minoranza anche infima» (Goffredo Fofi, L’oppio del popolo cit., p. 122) possiamo ricordare: «Quaderni Piacentini», «La Terra vista dalla Luna», «Ombre rosse», «Linea d'ombra», «Piccione viaggiatore», «Nino domani a Palermo», «Dove sta Zazà», «Lo Straniero», «Gli asini» ecc.
32. Goffredo Fofi, L’oppio del popolo cit., pp. 105-106.
33. Edward W. Said, Dire la verità. Gli intellettuali e il potere cit., p. 15.
34. Ibid., p. 16.
35. Vittorio Sereni, Il grande amico in Id., Gli strumenti umani, Torino, Einaudi, 1965.
36. Lunga è la tradizione novecentesca, come ci ricorda Traverso, che esprime odio nei confronti degli intellettuali, a partire dagli stessi intellettuali conservatori di destra, che – per cominciare – nei primi decenni del secolo rifiutano l’appellativo di “intellettuali”, e che prosegue – naturalmente – con l’odio nazista nei confronti degli uomini di cultura e dei libri (secondo Goebbels “l’era dell’intellettualismo” era finita), e così anche nel dopoguerra se Raymond Aron sente il bisogno di scrivere L’oppio degli intellettuali. Insomma: «L’anti-intellettualismo è un luogo comune dell’intellighenzia di destra, compresa quella liberale» (Enzo Traverso, Che fine hanno fatto gli intellettuali? Conversazione con Régis Meyran cit., p. 21).
37. «Invece, se poco poco ci guardiamo intorno, i maestri sorgono dall’ombra in gran numero. Siamo circondati. Ce ne sono d’ogni genere» (Gustavo Zagrebelsky, Mai più senza maestri cit., p. 30). Spie linguistiche sono i tanti termini, nelle varie lingue, con la stessa radice, penetrati nella nostra: ad esempio l’inglese master e il francese maître (masterchef, masterclass o maître d’hôtel, maître de conférence) o gli stessi mastro e maestro, quest’ultimo, ad esempio, «[…] si dice dell’artista cui sono riconosciuti meriti particolari nel campo musicale, cinematografico, letterario, teatrale ecc.» (p. 31); per non dire dei “maestri”, dei “gran maestri” e dei “maestri venerabili” delle società iniziatiche, delle sette, delle consorterie, delle massonerie e degli ordini cavallereschi, o di quelli delle religioni e delle “parareligioni del sapere esoterico”; ecc. ecc..
38. Luigi Meneghello, I piccoli maestri, Milano, Feltrinelli, 1964.
39. Giuseppe Pontiggia, Vite di uomini non illustri, Mondadori, Milano, 1993.
40. Cfr., a proposito delle “virtù quotidiane”, Tzvetan Todorov, Di fronte all’estremo. Quale etica per il secolo dei gulag e dei campi di sterminio? cit.
41. Massimo Recalcati, Il mio regno per un maestro in «doppiozero», 15 novembre 2019, https://www.doppiozero.com/materiali/il-mio-regno-un-maestro
42. Enzo Traverso, Che fine hanno fatto gli intellettuali? Conversazione con Régis Meyran cit., p. 38.
43. Edward W. Said, Dire la verità. Gli intellettuali e il potere cit., p. 12.
44. Alfonso Berardinelli, Un’intervista in Id., Che intellettuale sei?, Roma, nottetempo, 2011, p. 17.
45. Gustavo Zagrebelsky, Mai più senza maestri cit., pp. 137 e 140.
46. Scrive, a proposito della critica e del critico militante, Berardinelli: «Autorità, poteri, influenza della critica. Bisogna vedere da che cosa derivano: raramente derivano dalla qualità in sé del critico, ma piuttosto da fattori esterni: ideologie, movimenti, partiti, istituzioni protettive o minacciose. Il critico isolato (vedi Benjamin) può essere un genio ma resterà senza potere, perfino ignorato. Giacomo Debenedetti non influenzò la letteratura contemporanea, la illuminò. E neppure Fortini orientò la letteratura, se non in misura minima quando il marxismo critico ebbe un ruolo nella nascita di una Nuova Sinistra. Un critico senza potere editoriale, accademico o mediatico risulta impotente. Ma non per questo è meno necessario. L’intelligenza non ha potere: si tratta di due principi reciprocamente allergici» (Esiste ancora la critica militante? in Id., Che intellettuale sei? cit., pp. 76-77).
47. Goffredo Fofi, L’oppio del popolo cit., p. 110.
48. Alfonso Berardinelli, Tre tipi intellettuali in Id., Che intellettuale sei? cit., p. 35.
49. Ibid., p. 37
50. Alfondo Berardinelli, Scrittori e politica in Id., Che intellettuale sei? cit., p. 43.
51. Ibid., p. 44.
52. Cfr. da ultimo, e sul versante della critica letteraria, Giulio Ferroni, La solitudine del critico. Leggere, riflettere, resistere, Roma, Salerno Editrice, 2019.
53. Nell’accezione in cui l’intende Said: «È quanto io includo nel termine dilettantismo, che vorrei fosse inteso alla lettera: un’attività che trova il suo alimento nella responsabilità e nella passione anziché nel profitto e nell’egoistica, angusta specializzazione» (Edward W. Said, Dire la verità. Gli intellettuali e il potere cit., p. 90).
54. Cfr. anche solo l’articolo del sindacalista italo-ivoriano Aboubakar Soumahoro, Se non lotta per gli altri l’intellettuale è inutile in «L’Espresso», Anno LXV, n. 52, 22 dicembre 2019, p. 36.
55. Edward W. Said, Dire la verità. Gli intellettuali e il potere cit., p. 125.
56. Filippo La Porta, Disorganici. Maestri involontari del Novecento cit., p. 21.
57. Attilio Lolini, Carte da sandwich, Torino, Einaudi, 2013.