Silvio Aman su "Terre sotto vuoto" di Gilberto Isella
Gilberto Isella, Terre sotto vuoto, Marietti (prefazione di Laura Quadri) 2024, pp. 144, € 15,00
Il libro delle mutazioni
Là dove il Nulla s’imbarca
scatta stridio di trombetta
là dove il Nulla s’inarca
il fortepiano scoppietta
là dove il Nulla si riarma
l’arpa raddoppia le corde
là dove il Nulla rintocca
il flauto consuma la bocca
e allora possiamo ben dire
che un coro nel Nulla rimbomba
terrifiche ne erompono ore
ire sparse tra culla e tomba
Le opere poetiche di Gilberto Isella comportano da anni, e in modo studiatissimo, la sovversione dei nessi logici con una sorta d’im-pertinenza che gli permette di superare, tramite ipotetiche catacresi, ossimori e del tutto insolite adiacenze i consueti rapporti dei soggetti con le loro aggettivazioni e predicazioni nei vari momenti del discorso. Questo in una batteria significante inclusiva e non poeticamente intonata secondo la tradizione letteraria qui totalmente sconvolta, come se le sinapsi dell’operatore si fossero elettrizzate aumentando vertiginosamente le loro imprevedibili facoltà. Isella – lo abbiamo già visto – si ritrae dal fungibile, ma non più avvalendosi di choc e dissonanze ormai da decenni neutralizzati dall’insegnamento.
Certo, le giocose deviazioni dalla pertinenza le possiamo scorgere nei bambini, laddove giocano con le parole, ma se in loro sorprende la freschezza dello scherzo, ciò non si rende più possibile nella costante sovversione di Terre sotto vuoto. Il suo fine è molteplice: aggirare l’adesione a un senso prefissato, vincolante, e scolasticamente trasmissibile, collegare fra aspetti incompatibili, ottenendo così una forte dilatazione del tessuto verbale, e di conseguenza muoversi nel caos anziché in ambiti storicamente dati.
In cosa consiste la difficoltà del libro? Nel fatto che i pensieri siano leggibili solo in modo parziale e indiretto come nei sogni, tramite metamorfosi e richiami che potremmo anche ricondurre alle opere di Hieronymus Bosch, dove gli elementi della natura sono composti fantasticamente all’infinito…
tremolio di pampino basso
avvolto
al filo della prima parca
frenesia bambina
che propizia il succo
vino che schizza godendo
dell’acino più intrepido
le cui labbra si allineano col rosso
oppure:
allucinato piloro
tra vasi non comunicanti
incetta rutti che scendono
verso l’ignifugo pensiero ameno
[…]
Del resto, con il linguaggio noi possiamo chiedere dove abiti il nulla, o di accendere il buio, saltando ogni determinismo. Le composizioni di Terre si succedono in continue derive lungo metafore (“fiume degli addii” p. 67) e predicazioni devianti (“il colchico sbaraglia il convivio” p. 58) volte a eludere, come accennavo, l’approdo alle terre linguistiche della comunità, e che probabilmente l’Articificial intelligence non riuscirebbero a tradurre. Dopotutto non ci vuol molto a scoprire l’intenzione del lettore di massa volta a vanificare scolasticamente la complessità a vantaggio di catalogazioni e significati.
Lacan scrisse: Il significato è un sasso in bocca al significante, e Isella lo segue mettendo in gioco ogni attesa coerenza, ad esempio col continuo scoccare di aggettivi e genitivi imprevisti come “meduse festose” “funicelle d’oblio” “cartocci di dolore” lungo tracce erratiche. Ciò lascia inoltre trapelare un andamento ironico del resto implicito nella diacronia i cui continui mutamenti non lasciano nulla di stabile. Lo zimbello del linguaggio gioca sistematicamente con la sovversione del senso, fino a raggiungere dei cluster verbali come in “Vacillano battenti di gramigna” “zaini ansiociclici” “atletica salsiccia” “penna d’uccello a tenaglia/ che stringe il magma” “budelli d’eclissi” “carie estivale” sicché i segugi della critica non avrebbero grandi speranze di sbranare il poeta-Atteone.
Eppure in tutto ciò si avverte un non so che di assertivo e sicuro dovuto alla tecnica compositiva, l’unica a non subire scosse nel nominare il caos (titolo di una precedente raccolta dell’Autore) e che cifra di sé ogni passaggio e mutar di eventi colti ogni volta tramite il medesimo apparecchio, o meglio la stessa legge compositiva che informa il libro, la cui intenzione è di porre sotto accusa le manovre reificanti e l’omogeneità dei linguaggi legalizzati.
Isella, con la sua lingua altra, sa muoversi con ardita scioltezza nel caos che produce, e lo fa con nominazioni in continuo movimento (nessun significante pare assumere la pretesa di valere per sé) ma per giungere a un esito la cui apparizione è solo differita da una lunga suspense. Si tratta dell’intenzione di far respirare le terre sotto vuoto tramite il vento dello Spirito che allarga foreste, come scopriamo in Passione nostra nella sezione Amoerro: una sorta di Provvidenza narrativa che sfocia nell’Offertorio per padre David cui risponde in Lessico divino, la (lessicale?) presenza di Dio, sia pure per difetto dello sguardo. Considerate le cose sotto il profilo economico, la tarda apparizione dell’entità suprema – emersa per via induttiva? – lascia molto spazio ai momenti dubitativi, al caos e all’apnea dominante nell’intero libro, e potrebbe indicare sia l’affannosa, agostiniana ricerca di Dio come uscita dal vuoto, sia l’attuale situazione di forte crisi e defalco del Cristianesimo.
In Amoerro (stoffa non a caso moiré… siamo di nuovo con le onde) l’angosciante pluralità apre spiragli al ruotare dell’ostia (medium traslucido della Passio, come per Florenskji l’icona) la quale, con la sua rotazione astronomica indica un rinnovato legame col divino, ma pur sempre dall’opaca sostanza della natura, anziché per lo slancio nuziale, il mancato climb da cui tornano le erotiche trasverberazioni dei santi.
Ci si potrebbe inoltre chiedere se la scrittura del Poeta, aperta a una miriade di soluzioni espressive, non possa agire anche sullo stile, provocando contraccolpi in grado di allentarne la fissità così ben suggerita dall’aspetto esteriore delle composizioni, per la maggior parte graficamente centrate e pressoché prive del punto fermo, proprio come in un lapidario, mentre l’impiego del minuscolo può, per opposizione, richiamare il maiuscolo laddove è assente.
A pagina 71 troviamo:
Quanta sostanza nell’illeggibile
che ogni giorno ci seduce
e quanta bellezza
nell’onda geroglifica
intorno al volo di un gipeto
guidato dal sole, dal vento
che d’incanto sparisce nella baia
Certo, perché bellezza è un quod non riducibile, è può essere per questo, che alcuni estetologi rinuncerebbero a nominarla. Può esistere, nell’arte contemporanea, se tale può dirsi? Jean-Philippe Domecq, nel suo articolato Artistes sans art? non lo penserebbe: rimane la bellezza standard estesa in modo orizzontale…
come mantenere la bellezza
dallo svanire?
come mantenere la bellezza
dello sparire?”
(P. 99)
Qui il Poeta pensa alla bellezza in negativo, nello sparire continuo di ogni permanenza fra significante e significante (una sorta di sì e no, di vivo e non vivo) all’evento della soglia rispetto al sapere come stratificazione, e dell’arte ridotta a patrimonio culturale, e questa bellezza la trovi nel gipeto che “d’incanto sparisce” non dalla baia ma “nella baia”. Del resto il tema scomparsa costella il libro-indagine, sorta di cinetica baia sovraccarica di presenze in cui pare non debba mai giungere il mezzo di scambiarsi quello che non si ha, come capita agli innamorati.
In Terre non è comunque dato cogliere dove sia il bello e il brutto, sintomo uno dell’altro. È come se l’insieme prescindesse dai tradizionali valori estetici, presentandosi come ingiudicabile, sicché anche gli effetti distopici, con il loro continuum instaurano una sorta di caotica “normalità” dove tutto è e non è fuori luogo… Ma poi, e da tempo, a cosa si riduce il cosiddetto bello se non a una truffa organizzata? È forse per questo che il Nostro si chiede in modo sibillino come mantenere la “bellezza dallo svanire” e “dello sparire” non solo perché il sole al tramonto, se colto nel suo struggente declino, può sembrare più bello di quando si trova allo zenit, ma soprattutto come momento di sollievo da ogni muscoloso insistere: l’apparizione, l’Augenblick, poco prima del nulla.
Nessuna cosa sia dove la parola manca, scrisse Stefan George (come detto nei Vangeli: Joh., 1, 1-3) ma la parola di Isella è dinamica e rivela i passaggi fra nomi di cose come veicoli e funzioni, senza lasciar credere possano farsi portatrici del sovrasenso. L’incedere delle voci (il continuo fluire delle più inconcepibili soluzioni) non lascia spazio a nessuna tregua. Anche i riferimenti al trascendente “né sacri né profani” citati da Laura Quadri nella sua prefazione, fanno parte di un complesso in movimento, e parrebbero inerire a una forma di spinozismo rettificato: “dentro una mille passioni” riduce il netto divario fra l’Ente supremo cui affidarsi (come ne L’abbandono alla divina provvidenza di Jean-Pierre de Caussade) e la natura.
Il lavoro di Gilberto Isella, poeta tecnicamente molto dotato (anche il cuore è tecnologico, scrisse Th. W. Adorno) tematizza i suoi percorsi, e come in armatura di chiave in musica la nota d’impianto, il tema gli offre il destro di accrescere i motivi, anziché propriamente confederarli, favorendo impromptus e virate rispetto a ogni verificabile coerenza. Qui si tratta di geroglifici intesi a riflettere la “sostanza illeggibile” senza per questo escludere l’eventualità del comico (come “piloro allucinato” come in una poesia giovanile dell’autore – “pancia canforata”) e in termini sporadici più tradizionali forme di linearità ed effetti sonori come nella poesia qui messa in esergo.
La tecnica posta in atto dal Poeta nelle sue composizioni iridate, ma anche indeiscenti, oppone forte resistenza, per cui si può dire: “Riconosco i significanti, ma non afferro il senso delle proposizioni” perché se l’autore conosce la complessa tessitura cui è giunto (con richiami inconsueti, contiguità volutamente aberranti sotto il profilo denotativo che una frase può generalmente avere) chi legge non ne sa nulla, mancandogli, col laborintus, il complesso di pensieri, letture, incertezze, spinte e impressioni che hanno accompagnato il Poeta nel proprio lavoro…
il verde apre un varco al fremito
che colma di portenti le foreste
Natura le imbocca col vento
ritrovando l’ampiezza
(p. 22)
Una barba incolta
custodisce il sapere del vento
[…]
La faccia fruga la sua scarpa rossa
modellata dai pomelli
(p. 35)
“Vento” richiama la raccolta dal riuscitissimo titolo In bocca al vento, del 2005, ma chi legge deve togliersi dalla testa l’idea di decifrare ogni passaggio: egli coglierà di volta in volta solo orme, laddove si arrischia a legare “verde” “fremito” “foreste” e “vento” in cui quest’ultimo (metafora dello spirito o sostanza fluida atta a far fremere i corpi flessibili e inclini ad aprirsi) è supposto “sapere”. Di cosa? Dei Cieli indicati dalla Buona Novella. E come? Nell’operare all’interno di un percorso sperimentale, ma controllato, dove pare si tecnicizzi anche l’anelito.
Con Terre sotto vuoto ci si trova in una selva di voci che, nell’infoltirsi d’incessanti metamorfosi e rimandi, costituisce una lingua straniera in cui domina l’eresia del senso comune (ma comune e degradato può essere anche quello chiesastico) sicché, pur confidando nella costante tecnica (il modo in cui si formano i tessuti verbali) va persa ogni speranza di orientarsi.
Il discorso di Isella enfatizza il muro del linguaggio, producendo al tempo stesso un non so che di energeticamente argomentante, sia pure in versione criptica, tramite continui nodi che rimandano da una séance all’altra. Lontano da ogni aspetto propriamente lirico e partecipativo, vien poi da chiedersi se qui esista davvero un parlante o se sia la stessa lingua a parlare di sé. Oltretutto, l’immaginario di Terre – l’allucinata iridescenza dei suoi frammenti – comporta l’idea che il mondo, già estraneo a ogni pretesa biblicamente genetica e ontoteologica, si stia magmaticamente formando senza tregua, ingenerando angoscia.
Nelle fatiche del linguaggio col suo moderno lascito (la filosofia del sospetto) l’apertura avviene quando giungiamo all’ostia astronomica col suo moto di rivoluzione attorno al “geroglifico aperto” sebbene non più per folgoranti intuizioni e slanci mistici.
Anche laddove Isella si riferisce alla “croce” e specialmente al “volto” (anzi al Volto Santo della citazione dantesca) come imago cristiana par exellence nel corso della storia-asfalto (p. 49) essi non riescono a distinguersi come si aspetterebbe un cristiano, vale a dire secondo la religione rivelata. Ora presenti nella diacronia in cui la lingua si estranea dai nessi socialmente acquisiti, ora non più, si danno come istanti eterotopici nella molteplicità (pensiamo a una chiesa situata fra case anonime) come se nel “geroglifico” il Poeta “substitue généralement à Dieu la Nature à l’état de mouvement perpétuel” per citare Bataille dove parla di Sade (La littérature et le mal).
Per risolvere l’irrisolvibile, poiché il fuori è a sua volta nella materia innominabile (tanto da escludere esista un fuori e un dentro un alto e un basso) basterebbe la fede… l’abbandono al credo quia absurdum, qui sostituito dalla theoscopia dell’ostia lunare. Gilberto Isella è un poeta moderno, e sfida la modernità con strumentazione appunto moderna, come del resto abbiamo visto negli artisti tecnologici al fine di mettere in crisi le manovre di potere del linguaggio amministrato, cosa che il Nostro ottiene tramite la sovversiva e forsanche, per citare Jacob Böhme, demoniaca molteplicità del suo discorso.
Come accennavo, a presentarsi immutabile nei passaggi, è la tecnica di composizione, la sua signoria del tutto estranea a ogni flow. Ci si potrebbe inoltre chiedere, se nel metamorfismo del Poeta, in cui mi pare viga solo un anonimo Lui, esistano davvero dei soggetti e dei timbri affettivi a intonare i versi, da non confondere con i sentimenti che Rilke escluse a vantaggio delle esperienze. Forse no, perché lo scrivere del Nostro, anche laddove palesa istanti di commozione, e non certo le inflazionate emozioni, manifesta un atteggiamento volto a decidere poco adatto a oscillare verso la passività (da intendere come attiva) e sia pur parlando in generale, una certa piega illuminista, anche laddove va intervenire il climbo.
Il lavoro di Isella, detto sempre in generale, non comporta nuances, modulazioni del tono e flessuose articolazioni del fraseggio: anche gli spazi bianchi, anziché batture d’aspetto appaiono baratri. È come se a stilare il dettato sia uno scriba linguisticamente alieno in cui l’accadere si mostra provocatoriamente sibillino, ma con tanto d’impliciti sberleffi all’economia linguistica laddove intende esercitare un controllabile rapporto fra destinatore e destinatario. Certo, la natura ama nascondersi, e il modo enigmatico con cui la orchestra il Poeta, ancor di più. Con sibillino non intendo il senso di affascinante mistero che può emergere da scritture lineari e normalmente comprensibili, come chi dica: “È tutto chiaro, eppure…” In Terre prevale al contrario l’impersonale chiarezza di chi articola tecnicamente uno pseudo delirio senza alcuna esitazione…
Ogni pirite ogni berillo
costella di specchi
il seno
della gran madre
[…]
Natura rinnova il suo volto
e ai minerali lo consegna.
(P. 21)
L’opacità non riguarda la sintassi, che in fondo non fa una grinza, ma le adiacenze che il Poeta sovverte facendo saltare ogni criterio logico come nei processi onirici, lungo dislocazioni magmatiche in continua espansione cui è fatto attendere “il luminoso unisono dei corpi” (e delle anime?) per cui produrrebbero la stessa apparenza priva di soggetto.
Con “onirico” non s’intende qualcosa di vago, se si bada a come si presentano le poesie in questione, che vedrei prossime a un moderno e lapidario culteranesimo. Del resto, qui si tratta di un onirismo intellettualmente razionalizzato, dove hanno gioco le più spericolate associazioni a cifrare di sé il tessuto creativo.
Isella sa di essere lo zimbello del linguaggio, e sotto questo profilo non ha mai aderito all’imperativo, del resto inassolvibile, “Sii te stesso”. Egli si aliena nell’altro… in sé stesso: le opere di Isella sono scarsamente permeabili a tracce biografiche. In esse trovo richiami a molte letture (come del resto ha ben indicato Laura Quadri) e l’indicazione, a diversi livelli, del loro incidere nel suo lungo e articolato percorso poetico, saggistico e teatrale. A caratterizzare le sue poesie (o non piuttosto componimenti?) ci pensa il distanziamento, l’impersonalità delle espressioni oggettivate.
Ma eccoci giunti al momento radioso…
ma là, più in là
il luminoso unisono dei corpi,
l’ostia che tremante si mostrava
torna a ruotare
intorno a
un geroglifico aperto.
Qui non si parla di anime o di angeli à la Schwedenborg, bensì di oggetti: i “corpi” e l’“ostia” già “tremante” nel senso di storicamente svalorizzata, riguardo al miracolo eucaristico, che torna come un astro a incerchiare il “geroglifico aperto”. Alla parlata natura/industria si apre l’occasione di non restare più “sotto vuoto” ma nemmeno parrebbero anelare alla parusia: il poeta è solo e può solo utopicamente proporre l’oggettiva apertura del geroglifico e il ritorno dell’ostia-luna che ricorda i quadri di Friedrich in cui, col suo mistico e attenuato bagliore, simboleggia la venuta di Cristo.
***
Come accennavo, le raccolte poetiche di Gilberto Isella appaiono ordinate da un tema cui accennano i titoli (Le vigilie incustodite, Leonessa, Apoteca, I boschi attorno a Sils-Maria, Nominare il caos, etc.) con la funzione di confederare le singole parti in cui si declina, ma siccome in queste raccolte irrompe la molteplicità dei riferimenti, il tema d’impianto si trasforma nella cornucopia da cui sgorga l’insieme, ma perde scettro e corona.
In questa impossibile nominazione, dove il Poeta allucina in termini pseudo-onirici l’incedere dei momenti, mettendo in causa ogni connessione logica (il logico di una civiltà sulla via del disfacimento è al servizio dell’assurdo) cercherò di aggiungere alla lettura qualche riferimento in più.
La pirite è solforosa e serve anche per produrre acido solforico, mentre lo smeraldo suscita un senso di freschezza. Si tratta di minerali ipogei che differiscono, ma non per questo si oppongono al cielo (il fuori del dentro). Ildegarda di Bingen, nel suo Lapidario, ritiene che lo smeraldo favorisca la buona salute.
La grande madre, Die Grosse Mutter, ha la caratteristica di contenere sostanze fra loro dissimili, in una sorta di sorprendente polimorfismo, p. 21.
allucinato piloro
tra vasi non comunicanti
intercetta rutti che scendono
verso l’ignifugo pensiero ameno
Siccome il piloro è, etimologicamente, il “portiere” che governa il traffico del cibo dallo stomaco all’intestino (se pensiamo, appunto, a un sistema di vasi) questo non intercetterebbe il cibo-pensiero nutriente, ma aria mal sonante verso l’assenza di fuoco, quindi “ameno” in senso peggiorativo.
I “capitelli dorici” degli opifici (luoghi del lavoro, dove “cadono uomini-bacca” cioè senza endocarpo, nel senso per cui, detto metaforicamente, mancherebbe loro ogni idea di un nocciolo?) con la loro verticale funzione di sostegno (essi, da immobili quali sono, pensano sempre la stessa cosa) contrastano con il volo leggero delle “farfalline intellettuali”. L’immagine potrebbe anche insinuare un aspetto erotico: i capitelli presuppongono le colonne, e le farfalline la molteplice vivacità dell’Eros come libido intellettuale deviata dalla meta, p. 24.
Pennacchio di fumo
assorto su pipa esuberante
e maliziosa
cullata da cavallone marino
Qui apparirebbe un contrasto fra il fumo assorto e l’esuberanza della pipa navigante, o sorta di uccello acquatico (se non anche erotico). Passaggio metonimico, perché il piroscafo ha il forno del carbone ed emette fumo. L’irrompere degli uccelli (angeli dissipatori della quiete di chi medita fumando?) contrasta sia con il fumo chiuso nelle proprie volute, sia con il dondolio della pipa e l’accidia degli orti.
I carati (i semi delle carrube) sono misure per titolare l’oro in millesimi, e i brillanti per il peso e non per la purezza. “Carati liquescenti” potrebbero alludere ai liquidi nel senso di soldi, perché le “primizie” si traducono appunto in liquidità monetaria. La primizia, chiusa nella preziosa serra “inala” il fumo (“ossigeno finto”)… l’aria insana emessa dalla pipa/industria? Altro contrasto esiste fra gli orti dalla “vellutoide” accidia, i “cavalloni” marini e la “serra d’oro” legata ai “carati” p. 25.
girovago
negli incavi occulti dell’alno
il calabrone
fantastica una casa
gli occhietti
a zigzag nel fusto
e fuori e dentro
antenne senza appoggi
radici che ronzano
l’“alno” (ontano, fam. delle betulaceae, con rif. etim. alla lucentezza) è legato all’acqua, e viene indicato come albero delle streghe. Il ronzio del calabrone (con riferimento a vespaio) è qui esteso alle radici, vale a dire in una sorta di panica compartecipazione. Laddove l’insetto “fantastica una casa” e “collega i suoi voli al miraggio dei rami penzolanti” non vi è dunque alcuna certezza: anche alle antenne mancano appoggi, trattandosi di strumenti sensibili atti a esplorare quel che cerca l’insetto “girovago” p. 26.
Vapore emana dalle cime
scende calmo nel polmone della valle
un arco di realtà sospira
spazio libero da forre
violoncello dai liquidi confini
quattro corde
serpeggianti con il fiume
melodia di cavità nascoste
rizomi che irrompono
tra notti e mattini
(palinsesti divini?)
“polmone della valle” → poumons ambrasés de la montagne, Th. Gautier, Le roman de la momie. Analogia fra la forma della valle e quella del violoncello, che presenta appunto la cavità della cassa armonica, sennonché il suo polmone risuona, mentre quello della valle nebula possiede melodie idriche per “cavità nascoste”. In Terre sotto vuoto, l’elemento idrico è costante. La “forra” è una gola dove scorre l’acqua, mentre la “cavità” si assimila alla parte cava di un solido, come in liuteria quella del violoncello. “Vapore” e “melodia” suscitano un senso di opacità sonore. Nel violoncello, i suoni del registro grave possono dare l’impressione di profondità vallive, così come le corde richiamano, serpeggiando, il fiume: il cosiddetto vibrato della nota negli strumenti cordofoni (come del resto nella voce) richiama le onde del fiume.
La domanda dubitativa di “palinsesti divini?” lascia supporre mutazioni e riscritture del creato, ma non che dipendano necessariamente da una Divinità esterna alla natura, p. 27.
Improvviso, il cuore, soggiorna nella lingua.
Il cuore lentamente dona la parola.
Il cuore è per eccellenza un organo emotivo, come gli organi della fonazione e i polmoni, suscettibili di alterare l’onda ritmica anche tramite eccitazioni erotiche. Esso investe la lingua differenziandola con un Affekt improvviso, non decidibile, p. 32.
Trattenuta, la passione, dentro labbra
fuggite da una bocca grigia
in esilio tra le guance.
Di bianche resurrezioni
è in attesa la compagnia di croci
che ogni giorno scala il volto.
Può certamente darsi “una bocca grigia” che permanga “in esilio” cioè non fonetica. Il segno del bacio lo imprimono le labbra o lo inviano le dita, anche se esiste quello di Giuda. Dallo stoma grigio (vel inerme?) le labbra rosse, la parte più visibile ed espressiva, fuggono trattenendo la passione che sale dal cuore.
Per “volto” s’intenderebbe il “Sacro Volto” (icona cristiana, insegna v.s. l’aniconico ebraico e protocristiano) della precedente citazione dantesca, quello del Pantocratore che anticipa l’escatologico, cioè la sutura legata alla fine dei tempi. Il cerchio resta aperto, e la “compagnia di croci” è appunto in attesa, appesa al désir altrimenti volto all’afanisi. “Compagnia” lascia intendere una riduzione all’interno dell’attuale chenosi, ma anche un defalco selettivamente benefico riguardo all’inflazione medioevale: molti sono i chiamati, pochi gli eletti. “Bianche resurrezioni”. Nei dipinti della Trasfigurazione, Gesù è vestito di bianco, p. 33.
Il sudario avvolge la parete
del cranio
dove si affigge l’incubo,
l’inconfessabile.
Venuta su dal fango dei patriarchi,
la fascia di colore che ristagna
brama la tavolozza dell’idea,
invano sfiora carni.
“Sudario” può riferirsi all’orologio biologico verso “l’ultimo nemico” (R. Diodato L’ultimo nemico, Manni, 2023) poiché tutti sono mortali, ma anche l’essere per la morte, i.e. la rivelazione di quel che si è: principalmente, in base al contesto, il sudario di Gesù col suo “destino verticale” e il “salto nell’avello” (p. 35) se si può passare dalla carne allo spirito, risorgendo tramite le successive morti dell’io. “Patriarchi”: Abramo, Isacco Giacobbe. “Fascia di colore che ristagna” “venuta su dal fango” come la “bocca grigia” di p. 33, potrebbe riguardare il monoteismo (cfr. Schelling, Filosofia della mitologia, e S. Freud, Mosè e il monoteismo) v.s. la “tavolozza” in quanto molteplicità riguardo al divenire del pensiero inerente alla ridda delle varie interpretazioni (cfr. quella di Beverland ne Antonello Gerbi, Il peccato di Adamo ed Eva, Milano, Adelphi). Molteplicità come apertura, libertà, o anche segno demoniaco, p. 37.
Transiterà con noi
l’antica sinopia astrale
che tiene in serbo
il suo santo
scabro
volto.
“Transiterà con noi” (secondo il contesto della sezione) potrebbe riferirsi al Cristianesimo defalcato dai rinforzi filosofici: credo quia absurdum. “Sinopia astrale” rispetto all’impenetrabile oscurità delle origini? L’aggettivo “antica” ne indica già la presenza nella storia. Può trattarsi della traccia verbale di un annuncio (come se ne danno nella Bibbia) della cometa, della croce vista da Costantino, o del disegno di una costellazione, nel senso di individuarvi un volto in base al fenomeno della pareidolia. L’aggettivo “santo” sarebbe riferito al volto del Soter, p. 39.
vorreste chiuse bandoliere
lune alte ridondanti
o anche lenze in catene
l’uguale il disuguale non disdice
lo conserva in un cofano
dove l’ombra si allena con la luce
Si tratta di evitare situazioni chiuse come indica il titolo-esergo in grassetto, con “Dentro una, mille passioni” cioè di molteplicità, e non di ipostaticità.
La “bandoliera” messa a tracolla è chiusa da una fibbia. “Lenze” cioè fili mobili e più o meno sottili per la pesca, contrastano con la pesantezza delle catene.
“Ombra” e “luce” come “uguale” disuguale” non sono in sé, ma sintomo uno dell’altro, p. 41.
ma nella tua bocca
imperscrutabile
vola
il papilione d’oro
Il “papilione” fa della bocca un crisostomo? P. 45.
sia nostro nodo
il sorso di un affondo
[…]
la gabbia blu per sognare
l’asterisco di pathos
vibrante nell’icona
[…]
e ridano pure i canneti
[…]
rida pure carnivoro il tempo
d’acquitrino
illuminiamoci
“il sorso di un affondo” potrebbe collegarsi con “di punto in bianco/ tentare l’oltre” a p. 51. Ciò anche nel senso per cui non si presenta mai l’intero. L’espressione “di punto in bianco” allude al punto che si lega all’“asterisco” vibrante nell’“icona”. Nella plenitudine l’“asterisco di pathos” rimanda a un seguito.
L’intera raccolta implica una sequela di relitti (allusione alle bauderiane épaves?) “incanti deietti” p. 55, anche se “il mantra che nessuno dona” cresce nell’azzurrità” p. 51. “D’acquitrino illuminiamoci” evita il “canneto” (probabile riferimento alla massa ridotta a numero) e richiama per contrasto il verso di Ungaretti, “m’illumino d’immenso”. L’ “acquitrino” riflette il cielo, ma nella riduzione spaziale. La messa in causa della situazione negativa implica il negato che l’Autore nomina senza accordarsi con lui: ad es. il “canneto”.
“Rida pure carnivoro il tempo”. Il tempo esiste nell’ora in cui abita l’ente di cui segna la relativa durée ed è perciò sargofagos. Lasciarlo ridere fa pensare a qualcosa di ulteriore come sforzo, “affondo” ma solo per un “sorso”.
Al “canneto” si adatta l’“elenco telefonico” (massa, numero) cui dire: “sei solo improvvida/ lebbra di gloria” p. 49.
Isella non si esprime in termini romantici, ma la “gabbia blu per sognare” (l’esservi costretti) comporta la Sehnsucht, sia pure indirettamente con fredda “finzione” che per Maria Gabriela Llansol implica “l’incontro inatteso del diverso” (cfr. l’esergo a p. 54). Sehnsucht non rappresenta, infatti, l’anelito algolagnico positivo della Heimat, poiché il romantico con le sue antinomie non sa cosa desidera. “Per sognare” andrebbe qui inteso nel senso lato di abbandonarsi al sogno mantenendosi in stato vigile, p.47.
Lamenti, sirene di carta,
esili ancelle, gole vuote
e non poter più cantare
nel dispensario
dai cubicoli piombati
dove moscio ristagna
come flebo senza gocce
un peduncolo
della filiera umana
Ci sono riferimenti al Virus corona: “sfera che ha rostri finissimi”.
“Dispensario” come istituto di prevenzione delle malattie, ristretto alla tubercolosi, ma in precedenza riserva di medicine, cioè apoteca. Il rif. a “dispensario” è legato agli organi respiratori e alle “gole vuote” se si pensa alla intubazione e ai “cubicoli piombati”. “peduncolo” può riferirsi al membro. “Filiera umana” pare escludere ogni richiamo all’umanesimo, poiché l’uomo (“transumanesimo” docet) è ormai smontabile e robotizzabile, quindi non più microcosmo, p. 56.
A mezzanotte
smembra il cadavere
arto per arto
[…]
su Euclide tace
Qui appaiono dei contrasti fra la figura intera e le parti scisse. La “luna” un “anello mozzo/ strappato alla prima,/ informe sposa” (die Grosse Mutter?).
Vi sono richiami alla geometria non euclidea.
Due travi di natura incomparabile
fanno croce
e solitaria retta insieme
su un unico piano
marchingegno mai forse
così concepito nelle alte sfere
La croce non è solo uno strumento di tortura, perché in essa possiamo individuare l’asse sintagmatico e paradigmatico della linguistica, ma nel verticale quello anagogico legato alla trascendenza. Anche il corpo umano a braccia allargate, potrebbe richiamare questo “marchingegno” p. 59.
taluno, circoscritto, alza e abbassa il boccale, lascia
da qualche parte la schiuma del suo sguardo,
al calice di un fiore infine la consegna,
pieno d’anima esce
e fuori
da capo incontra
il più sgualcito, fantasmatico sperare
“Circoscritto” indica un luogo che in-scrive, come accade per certe figure geometriche, il non trovarsi con tutti. Il gesto di alzare e abbassare il “boccale” può concernere il brindisi, anche come forma di saluto, mentre quello liturgico comporta il calice della sacra mensa, qui, tuttavia, riferito al calice del fiore che accoglie la “schiuma” dello sguardo: forse da intendere come espressione in cui lo sguardo non è tanto oggetto quanto impressione parzialmente irriducibile al linguaggio. Il calice del fiore con richiamo alla bocca è un “boccale” riproduttivo, ma qui con la funzione accogliere e trattenere la schiuma, nel senso di non durevole. Il soggetto pieno d’anima (per l’atto compiuto) una volta fuori dalla circoscrizione liturgica, incontra il più “sgualcito, fantasmatico sperare” cioè quello di tutti per le cose terrene, o anche perché la speranza come virtù teologale può sgualcirsi a contatto col mondo dei commerci. Isella, nell’esergo titolato “La bocca, l’uscio” cita la “caiba” (gabbia) da cui è fuggito lo “lixignolo” (usignolo, che richiama la luce e il canto) o “l’oxilino”. “Bocca” aperta e chiusa si lega a “gabbia” e a “uscio”. Il canto esce dalla “gabbia/bocca” p. 62.
Come ammortizzare la stagione
e le sue crisalidi vaganti
sotto un displuvio di girasoli
“tu non conosci le creature alate
appese ai pinnacoli del vento,
perduri in una conca cristallina
che appartiene al mondo
e non varia
godi delle farfalle solo nel canto
[…]
girando per alvei sconsacrati
che solo in se stessi risuonano”
Il termine “ammortizzare” proviene da morte con il significato di estinguere. “la stagione” può riferirsi all’evo estraneo alle “creature alate”: la “crisalide” (pupa in fase quiescente) che deriva da oro, non vola. Essa può vagare (non avere meta) solo nell’invenzione linguistica, forse nel senso di esseri ancora non formati e appunto imbozzolati, se si pensa alla mondana “conca cristallina”. Questa “conca cristallina” porterebbe alle scene chiuse nei dipinti ‘inclusivi’ di Bosch. “Alvei sconsacrati” richiamano “conca” la quale cangia in “pinnacoli del vento”. Il genitivo fra “Pinnacoli” e “vento” sono figure fra loro in contrasto, ma qui l’opposizione è dissolta, e con lei ogni ipotesi di dar luogo ai comparti di una lingua controllabile. “Godi delle farfalle solo nel canto” (“farfalle” ricorre in altri testi) richiama il limite di chi “perdura” nella conca associata a “terre sotto vuoto”. L’ermeneutica di Gilberto Isella comporta la presenza di un evo in cui domina l’oscuro mana, la legge occulta per cui tutto si reifica. Nella dilagante kenosis il “sacro volto” fatica a emergere dal caos delle “terre sotto vuoto”. Non si danno più le esperienze di San Giovanni della Croce, p. 63.
Conserva l’esistenza in un cono di ghiaccio
a stella decembrina
parole affida e ceralacche
restio a darsi forma
[…]
ha smesso di sudare nell’arsura
come il sasso è incapace di morire
“In un cono di ghiaccio” lascia pensare all’ibernazione poi richiamata dal “sasso” incapace di morire (di avere vicenda) perché privo di vita. “Restio a darsi forma”. Atteggiamento che si addice a queste composizioni meta-morfiche. Compaiono di nuovo figure che rimandano ad altro: “Ghiaccio” e “stella decembrina” probabile allusione a quella natalizia. “Sudare” e “arsura” sono foneticamente legate e distinte. “Parole” e “ceralacche” indicano la differenza fra significante e stampo, il quale impedisce il processo metonimico. Se si tratta dello stemma come sintesi plastica di uno status immobile, esso rimanda tuttavia, a un albero genealogico, p. 68.
voi guardate e volete che non li si vedano
i guasti di pile e monitor, le velacce attorte
alle fosse iliache del mare, i moribondi accatastati
[…]
Poesia come accusa d’ipocrisia. “Fosse iliache del mare”. Contaminazione di bacino anatomico con le ossa iliache, e bacino idrico. “Velacce” (velacci: vele quadre) può alludere al fatto che le vele per navigare si siano trasformate in lenzuoli funebri, come del resto si evince da “moribondi” “solchi” e “fucili” p. 69.
Ma eterno
è soltanto il remoto Iperpesce
che nuota oltre le onde
Sia gloria a Lui
se riemerge dai fondali!
L’“Iperpesce” lascia pensare a ICTYS, cioè al Cristo salvatore, p. 74.
Furono l’acqua, la pietra, la cifra dell’oro
fu il collante che tiene unite
le rive dell’idea
“Cifra dell’oro” ovvero la moneta che lega ogni cosa, compresa l’idea monetizzata? Nella terza strofa si fa riferimento a “medesimo” e, per converso, a “isteria”. Isterizzare il linguaggio auspica la sua non fungibilità. Il “bompresso”, albero di prua per il fiocco, è anche pieghevole.
E così il tutto
diserta se stesso
o stremato si raccoglie
nel sonno di un flutto
Nel senso che in “flutto” come particolare, sia pur mobile, vi sarebbe, goethianamente, il tutto? P. 75.
ibisco in orifiamma,
remo d’alabastro lo sospinge
verso quel che di raggio rimane
[…]
Secondo la pluralità dei rimandi, il fiore dell’ibisco può essere giallo, ovvero fiammare, mentre l’orifiamma richiama sia il pesce Carassius auratus sia la bandiera insegna dei re di Francia (bi o tricaudata) sia quella che sventola sull’abazia di St-Michel. Il remo è anche un’ala natatoria, e “alabastro” (materiale calcareo trasparente) contiene “ala” p. 76.
Da un litorale all’altro
iride conduce iride
per varchi e fenditure
ma presto la sequenza
incontra il lemma foce
[…] (P. 78)
si lega alle successiva:
Dei tanti lampi
il più vivace
getta alle risacche
artifici impenetrabili,
sirene che boccheggiano
nel canto, bagliori d’anime
in fondali
dove ogni parola
dimentica
il suo andarsene
il suo stare
[…]
(P. 79)
Non c’è tregua per le mutazioni
funicelle d’oblio vagabonde
[…] (P. 83)
L’insistere attorno all’ambito pelagico o generalmente idrico (inclusi gli affini e i dissimili “lacrima” “àncora” “pesce luna”) lascia supporre l’irrefrenabile iridescenza giunta poi alla foce verso l’indeterminato. Lasciandoci sedurre dai suoni al posto dei concetti, potremmo volgere da “Foce” a fauci e da queste alla bocca delle “sirene” boccheggianti. Del resto, se non ci troviamo in un teatro lirico, che cosa non boccheggia? Qui potrebbe celarsi la differenza fra le sirene degli influencer e il canto che pulsa dagli abissi (dell’inconscio) che il polìtropo e transitante Odisseo riteneva fatale. “Fondali” mostra la “foce” e “Iride” (superficie) si nega a “bagliore” e a “fondali”. “Dove ogni parola/ dimentica” lascerebbe intendere che le tracce mnestiche si rendano inconsce o che i significanti, nella loro contiguità, oltre a non reggere direzioni prestabilite, possono sottrarsi ed essere resuscitati dalla memoria involontaria, ma come il racconto del sogno, vale a dire nella diversità, p. 78 sg.
Sillabari strapieni di sinapsi,
ospiti del mare che oscillano
come bocche briache
quando un’onda gestante
prosperosa
torna intonsa
al suo addome di basalto
primordiale
[…]
Nei sillabari l’alunno impara a legare le sillabe fino a comporre brevi frasi, ma qua si ripresenta il mare che ospita i sinapsici, non so se in rapporto con l’ipotesi di Sandor Ferenczi (in Thalassa dedicato alla teoria della genitalità) quando indica l’origine della vita nel pesce Anphioxus lanceolatus, sennonché Isella fa tornare l’“onda gestante” al silenzio (uterino?) del “basalto pimordiale”. Tuttavia: più si assottigliava – la tabula –/ più si ricopriva di parole, p. 87.
In un pelago asciutto
martoriato
tu non decidi per il bianco
o per il nero degli scali,
né sai cosa fare della vela
che da sempre
oscilla e fa impazzire
sicut erat in principio
et nunc et semper
(P. 114)
La poesia che precede riprende con l’alternativa indicata da “oppure”…
Oppure sfocia
in quella cripta guardona
di lacci e contrappesi
che ci segregò un giorno
nel più corallino esilio
prima che ai gorghi
lasciassimo orme astrali
o impronte sanguinanti
di martirio
“Corallino” (formato dagli antozoi) quindi ancora una volta in ambiente pelagico, precede il lascito di “orme astrali o impronte di martirio”. Di nuovo l’alternativa fra l’astro (l’igneo) e il sangue, p 81.
In certi esiti compositivi, potremmo (salvo verifiche) trovare riferimenti ai luoghi visitati dal Poeta, come a p. 84, dove trapelerebbe una scultura nel giardino di Bomarzo…
Da bocca marmorea a forma di tempietto
l’indicibile si sporge
[…]
Madre impassibile
dimentica d’ogni acqua d’amore
che dal silenzio uterino
divieti accoglie
L’interdetto non dice né detta
eppure ancora scrive e piroetta
tra i cartocci del soffrire.
Ci sembrerebbe di ascoltare Leopardi dove definisce matrigna la natura: meglio “impassibile” perché l’aggettivo “matrigna” suppone la madre. L’utero tacito suggerisce l’idea che quello di tal “madre” produttrice di mostri non si sia sublimato nel tempo, e accolga “divieti”. Esso produce solo mostri, compresa la Venere di Milo, ritenuta bella per la millenaria consuetudine di trovarci chiusi nel nostro mondo. Anche il ragno troverà bella la sua fidanzata aracnea. Belli e pacificanti sono solo i cristalli molati. Non so se qui l’“interdetto” sia lo scrivente cui è impossibile enunciare qualcosa di definitivo attorno alla natura, ma che proprio per questo “dice” e “piroetta” (gioca, inventa, affabula…) malgrado il soffrire, p. 84.
Solo tardi
quando tutto si decifra
e si decide
in una sacca filacciosa
da viandante
[…]
I sentieri sonnambuli
[…]
i cimeli sparsi d’esistenza
in mille galee notturne
Che il tempo fa rombare
come onde ferrigne
[…]
forse già tombe
Più che il pensiero di Spengler, la poesia potrebbe alludere al fatto che un’opera muore quando di essa appare tutto “deciso” e rivelato lasciando solo “rombare il tempo”. Se l’innamoramento dura il tempo di un’illusione, anche le opere, attaccate da più parti, terminano di sedurre, p. 90.
Lui già da piccolo attento
alla gravità cum figuris
o a ciò che libero da gravità
in sbuffi aniconici
svanisce
Abbiamo già incontrato la domanda attorno alla bellezza dello sparire, che qui assume maggior precisione, perché fra “gravità” e “sbuffi aniconici” cioè fra aniconismo vetero-Cristiano, e l’immagine onnipresente nella società dei consumi, non ci vorrebbe poi molto a inserire il pensiero del Poeta. In Terre Isella sostituisce all’invasiva presenza dell’immagine-simbolo del prodotto (rispetto a quella religiosa) l’aspetto simbolico legato ai processi naturali mai copiativi. La poesia a p. 97 (là dove il Nulla s’imbarca…) non offre possibilità di decidere qualcosa tra culla e tomba. O meglio: dove il nulla tenta di presentarsi (o la “tabula” si assottiglia) irrompono “trombetta” “scoppietta” “consuma la bocca” “rimbomba” cioè le irrisioni da clown tutt’altro che consoni agli strumenti musicali. Come a dire nell’arcata dalla “culla” alla “tomba” non prevalgono parole piene. p. 91.
Laus vitae etiuamdiu si richiama a d’Annunzio. Con “in-folio litomorfo” Isella potrebbe intendere la natura sotto forma di litografia, o forse anche perché la flora di d’Annunzio è fatta di carta: “natura per arte/ arte per natura”. Gli “ideatori d’amuleti” tramite la nigredo alchemica, allontanano la flora del “Pelago alcyonio”… la oscurano, nel senso per cui la pupilla ha poco da vedere nella flora del Vate? P.100.
par giusto calcolare la circonferenza
di un cappone votato allo strangolamento
tale il tema proposto a un’adunanza
indetta per le ricche dame di Magonza
da geni professori sprovvisti di scienza
coricati su brandine da notte bianca
Qui immagino che il Poeta intenda chiarire la follia di questo “calcolare” i soggetti sottoposti al controllo. I capponi allevati in batteria sono già massa disposta all’annullamento, per cui l’operazione dei professori “coricati” (automi subalterni cui è delegato il calcolo) rappresenta appunto l’assurdità dell’insieme, p.101.
Conio inesausto, azzardoso appuntamento
ci assembra ai non-spirati, ai derelitti
come la vecchia strega detta Invicta
imbottita di strame e di stramonio
e la sua scopa appesa a un catetère
sequenza infranta di Piacere
che c’inforca per un tratto e si dilegua
frammisto a dee esalanti
da stagni bicaudati
[…]
onde vi sollevan diafane bambine,
simili a ninfee ma con sentor d’amianto
trofei non ne faremo
ma galleggianti unghie per tormenti
Vi sono qui dei riferimenti al sesso: “scopa” “catetère” “ninfee” con richiamo anatomico a ninfe, ma per una “sequenza” infranta del piacere. Il “conio inesausto” (o anche coito inesausto) rimanderebbe al timbro e al sigillo del sempre uguale. Il piacere (indicato dall’effige sul conio, automatismo dell’automa) che odora di amianto, non è, infatti, il godimento avvertito con l’irrompere della verità, p. 102.
esistere, non esistere,
né linea o debordante glifo
separa gli abissi della terra
da quelli dell’aria.
Il tutto va a sussistere
in una immensa alluvione
[…]
nessuna differenza allora
tra le gocce che cadono
nelle nostre bigonce quotidiane:
acqua di vita, acqua
di infingarda morte.
Il dilemma amletico To be or not to be è sostituito dal continuum. Non c’è distinzione fra gli abissi: tutto si trova nell’alluvione del divenire, comprese le fonti, quindi anche quelle dello stesso diluvio. Ora, poiché “l’acqua di vita” di evangelica memoria, o della morte “infingarda” (perché fatalmente legata al tempo) non pare differiscano in modo sostanziale, tutto sarebbe relativo, caleidoscopico e affidato all’interpretazione (Nietzsche) da intendere però in termini retroattivi: ci sarà stata interpretazione, considerandone gli effetti, e non in termini istituzionali e operativi, p. 107.
si scriva pure kuore, quore
o curaro se si vuole,
perché il cuore corre nel corpo
come un carro carico di cure
e sol di lettere incerte si pasce
così anche per la kore che farfuglia
[…]
Il cuore rilassato dal curaro, e che in molti si vede solo nelle radiografie, è un guazzabuglio, per dirla con Alessandro Manzoni. Questo organo così suscettibile di subire stimoli, nella Kore si troverebbe spostato nell’hysteron, quindi poco incline alla pace, p. 110.
dall’alone aspro di potassio
che talvolta lo circonda
il gran volto celeste
contempla i suoi amari
simulacri laggiù
In questa theoscopia il “volto celeste” ha come aureola il potassio, sostanza chimica bianco-argentea alla quale in basso si contrappone la “bruma” aureola vs estensione che
disordina le piste
inasta uno stoppino di fuliggine
a supplicar segnali
ma solo per presumere “un dubbio/ un batuffolo sacro magari”. Tutto perciò resta in ostaggio del “dubbio” e privo di aperture, mentre nella pagina successiva, dove la ridda fonde amici con nemici” (indistinti rispetto alla tesi di Jacob Taubes) e “il desolante armageddon” il politropo, favorisce il cammino del deserto, il volto “si sposa con la spada. Quella dei Cavalieri apocalittici? p. 116 sg.
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