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Maurizio Casagrande: un estratto dal saggio Ai fedeli d'amore, in attesa di pubblicazione

STEFANO STRAZZABOSCO






La scrittura di Stefano Strazzabosco si distingue per il radicamento al territorio, in particolare agli scrittori e agli artisti che meglio ne avevano incarnato l’anima inquieta e sognante, da Nerina Noro a Fernando Bandini, passando per Parise o altri, pur nella perpetua oscillazione, anche fisica, tra Italia e Messico. Su tale terreno va intesa la forte prossimità a tanta letteratura dell’America Latina sbilanciata sui versanti del fantastico, dell’onirico o del surreale, dimensioni cui il vicentino si mostrava particolarmente sensibile sin dall’adolescenza sulle ali dei testi di Syd Barrett, dei King Crimson o dei Genesis. Peso non minore va ascritto alle suggestioni del barocco, che a Vicenza ha una solida tradizione, e altrettanto alle imponenti scenografie palladiane, forse del tutto sproporzionate alla realtà di una piccola provincia e perfino destabilizzanti per chi ci vive, al pari di quanto poteva risultarlo, mutatis mutandis, S. Pietroburgo per Brodskij. E tuttavia la caratteristica più distintiva del testo che veniamo a proporre, nato come opera autonoma e successivamente incluso in una raccolta più organica, è senza dubbio l’afflato civile, pulsione che non appare certo estranea alle corde del nostro.


Planh per Pier Paolo Pasolini


Una volta che si è rinunciato alla giustizia, che cosa sono gli Stati se non una grossa accozzaglia di malfattori?

Agostino di Ippona


Piangere voglio Pasolini ucciso

con la camicia a righe all’Idroscalo,

un giorno di novembre in un eliso

di fango, sangue, merda, sabbia e un palo

di calcestruzzo armato contro il viso

di un poeta indifeso: perché ammalo

di morte nera se non parlo e dico

chi era il suo, chi è il mio nemico.


Sento le urla, il male, quella fuga

inutile in un campo recintato

dal filo arrugginito; il bagnasciuga

lontano nello sguardo già velato

di un uomo intriso del sangue che asciuga

sul corpo fracassato e martoriato

come un involto di pellami e carni,

un bolo dato in pasto a cani scarni;


e l’erba stenta e salina che il mare

bagna nella risacca senza luna,

nel buio in cui continuano a picchiare

dal grembo di una rete, con nessuna

pietà l’omosessuale da mandare

all’altro mondo per la stretta cruna

di un ago che si spezza nella vena,

con infinita, rinnovata pena.


Piangere voglio Pasolini morto

da un branco di imbestiati criminali

mandati ad ammazzare per il torto

di pubblicare scritti sui giornali

contro i poteri occulti dal ritorto

becco lordato dai frutti fecali

dell’Italia fascista, governata

da bande di assassini e assassinata.


Lui che sapeva i nomi e i cognomi

di chi ha perduto la migliore gente

per svendere ai padroni i cromosomi

di civiltà sepolte in questo niente

plastificato e vuoti maggiordomi

col diamantino incrostato nel dente

che servono il gin-fizz sulle terrazze

degli attici esclusivi sulle piazze


delle città del mondo, ovunque arrivi

l’ombra ferale della dittatura

che rende vivi i morti e morti i vivi

nell’immobilità della paura;

lui disse chiaro, senza giri schivi,

che cosa ci nasconde la censura

quando vediamo i film e i notiziari

quando leggiamo i grafici azionari


di questo Stato infame e canagliesco

che scrive le sue leggi con le bombe

e con le tette finte del grottesco

spettacolo squillato dalle trombe

dell’imbecillità si fa troiesco

ballo sguaiato che trasforma in tombe

gli ipermercati globali: Salò

è dappertutto, ora. Questo so.


Voi che ascoltate in queste rime il suono

del mio lamento che mi detta amore,

se c’è speranza ancora di perdono

per l’innocenza di una foglia o un fiore,

aprite il petto di Pier Paolo e in dono

mangiate un pezzo del suo rosso cuore:

zefiro torna, viene un altro maggio,

così ritorni anche il suo coraggio.


Odieranno i padroni ciò che ho scritto:

sappiano ch’io li odio per diritto.


Bel Ristoro, se voi mi accoglierete

non patirò la fame né la sete.


Da Brodskij, Il Ponte del Sale, Rovigo 2019, pp. 68-70.


Il componimento risale al 2010, sull’onda delle dichiarazioni di Pino Pelosi e Sergio Citti, come delle nuove testimonianze raccolte da alcuni avvocati o criminologi, figlio pertanto della frettolosa condanna comminata a Pelosi e delle stragi che iniziavano a insanguinare il Paese all’epoca di quella sentenza. Veniva quindi pubblicato in una cartella trilingue (italiano, spagnolo, friulano) col titolo P. Planh per Pier Paolo Pasolini, affiancato da scritti di Juan Gelman e Michele Presutto, e da fotografie di Graciela Iturbide (Sinopia, Venezia 2014). Il modello cui la lirica s’ispira è il Planh in morte di Ser Blacatz di Sordello da Goito, nel contesto della lirica di corte provenzale. Dal punto di vista metrico, e in piena corenza con la grande tradizione nazionale, l’autore opta per la soluzione formale dell’ottava di endecasillabi che obbediscono ad un preciso schema di rime, con la ripresa dal modello trobadorico di alcuni topoi, di una coppia di distici come congedo e dell’artificio raffinato del senhal che qui, tuttavia, piuttosto che celare l’identità dell’amata, vale quale solenne apostrofe alla poesia, promossa ad unica custode del defunto. Superfluo aggiungere che non si tratta affatto di traduzione dall’originale all’italiano, bensì di una reinvenzione del canone in mutato contesto e in differente codice. La vicenda è ben nota e aveva destato clamore, misto a indignazione, già alle prime indiscrezioni sull’efferato omicidio; meno noto, forse, il commosso corrotto che scioglieva all’indirizzo dell’amico massacrato sul bagnasciuga di Ostia il poeta di Grado Biagio Marin nel suo Critoleo del corpo fracassao, che Strazzabosco riprende nell’allusione al «corpo fracassato e martoriato» all’interno della porzione finale della seconda lassa, valorizzando così tutto il potenziale dell’intertestualità implicito nell’incrocio dei rispettivi testi, come pure nella fine brutale di Pasolini il quale, attenendoci ad un certo filone della critica, avrebbe prefigurato l’evento luttuoso nel complesso della propria opera. Convertitosi quasi in un affranto Giuseppe d’Arimatea dei nostri giorni, nel fare velatamente eco al «piango et ragiono» di Petrarca nell’incipit del Canzoniere, il poeta intona la sua trenodia col distendere il proprio sudario di lacrime sul corpo straziato del donzel di Casarsa, su quel volto deturpato dalla brutalità dello sfregio patito, così da imprimervi, come in una nuova sindone, l’effigie perpetua del giusto perseguitato, oltraggiato e alla fine crocifisso, con implicito rimando alla sacralità di una vita votata alla causa della verità, della giustizia sociale, della dignità di ogni uomo, della predilezione per i poveri e per gli ultimi, nello spirito più autentico delle beatitudini evangeliche, che Pasolini aveva assimilato nel profondo – più ancora delle utopie del comunismo – come testimonia l’intera sua opera, in particolare la regia de IlVangelo secondo Matteo; di conseguenza l’oltraggio inferto a questo complesso di valori nella persona violata del poeta delle Poesie a Casarsa fa ancora più male, anche a distanza di decenni. Sul piano formale, il dispiego di artifici retorici vale a testimoniare la sincerità dell’omaggio, oltre a garantire il sostanziale rispetto del canone provenzale. In una miscela di misurata compostezza e di furia a stento contenuta, alternando opportunamente ai toni del compianto quelli della più cruda invettiva, Strazzabosco scioglie il proprio sincero e partecipe cordoglio con la medesima pietas con cui Padre Turoldo pronunciava la sua orazione funebre alle esequie di Pier Paolo per uno dei lutti più amaramente allegorici che abbiano segnato la nostra storia nazionale, tuttora intrisa di episodi rimasti oscuri per una precisa volontà politica che Strazzabosco denuncia con piglio deciso, senza reticenze né timori reverenziali. Il lessico non si discosta da un registro medio, quasi colloquiale, e tuttavia non mancano repentine impennate e scarti di tono, come avviene ad esempio nel cuore della prima lassa all’altezza della sequenza di gradazione medio/bassa «fango, sangue, merda, sabbia, palo», preceduta dal pronunciato spostamento semantico e stilistico sulla voce aulica «elisio», in rima con «viso» ed «ucciso», per una felice concessione a quella tendenza all’espressionismo linguistico che pone Strazzabosco sulla stessa linea dell’Alighieri della Commedia, parentela che appare anche più evidente all’altezza della quarta lassa, con una virulenza da girone di Malebolge: «becco lordato dai frutti fecali». Sul limitare della quinta lassa l’identità del dedicatario viene precisata con allusioni trasparenti all’impegno civile e culturale di Pasolini, restituitoci in alcune delle sue opere più rappresentative, vale a dire gli articoli d’opinione al vetriolo raccolti nei volumi Lettere luterane e Scritti corsari, insieme al romanzo/saggio postumo Petrolio con cui lo scrittore denunciava tutto il marcio del nostro Paese, preconizzando con la consueta preveggenza le derive autoritarie neofasciste del grande capitale, le strette connessioni tra mafie e istituzioni dello Stato o il dilagare a tutti i livelli della corruzione, minando così alla radice l’essenza stessa della democrazia e della nostra Costituzione, in aggiunta allo sfregio inferto all’ideale della giustizia, cui il testo si richiama espressamente nell’esergo agostiniano. A sostegno del proprio intento di ferma denuncia, col disporre le varie tessere in climax ascendente, Strazzabosco eleva repentinamente lo stile, sulla scorta anche del miglior Parini satirico, affilando la propria lama per colpire al cuore l’occulto mandante di questo vile atto criminoso, vale a dire uno Stato che viene meno sistematicamente al mandato dei cittadini che dovrebbe rappresentare col prestarsi piuttosto alle stragi di regime, favorendo o coprendo gli intrallazzi banditeschi di faccendieri d’ogni sorta, di politici senza scrupoli, di parvenus d’ogni risma, di criminali al soldo dei potenti, di grandi burattinai che operano indisturbati all’ombra di logge massoniche, di servizi segreti deviati, sino a toccare l’apice del sarcasmo nel rovesciamento farsesco e grottesco sulle puttane di Stato o sulle scene più truci nel Salò di Pasolini, che si vengono materializzando ai nostri giorni in laida routine quotidiana. L’attenzione prestata alla lezione dantesca, peraltro, appare con chiarezza nel primo distico dell’ultima lassa nel tema dello scrivere sotto «dittatura» d’amore, ma è ancor più sorprendente come Strazzabosco sia riuscito a conciliare a questa altezza quanto in apparenza resta inconciliabile nella nostra tradizione, ossia il modello sanguigno di Dante e quello sublime di Petrarca, in un’eco chiarissima e raffinata del sonetto proemiale al Canzoniere, cui è sotteso un rimando al dialogo purgatoriale di Dante con Bonagiunta Orbicciani: «Voi che ascoltate in queste rime il suono / del mio lamento che mi detta amore, / se c’è speranza ancora di perdono». Non solo: la porzione conclusiva della medesima lassa, infatti, oltre a richiamare un altro celebre luogo petrarchesco, congiuntamente al tema provenzale della primavera, evoca nella stessa misura, a partire dal Planh di Sordello nel motivo del pasto rituale, una ballata messa in musica da De André (La ballata dell’amore cieco, o della vanità, nel disco Tutto Fabrizio De Andrè, 1966) e ancora, mantenendoci nell’ambito della canzone d’autore, il brano di Angelo Branduardi Il dono del cervo (da Alla fiera dell’est, 1976, su lontane suggestioni celtiche), che finiscono per incrociarsi – per un topos interculturale che va dai Provenzali ai Vangeli, fino all’oralità della canzone o della cultura popolare – con Il testamento del Capitano dai canti del repertorio alpino, culminando in chiusura di lirica in una variante laica del banchetto eucaristico, quasi a dire che il sacrificio si doveva compiere fino in fondo, accreditandovi un’implicita valenza cristologica. In conclusione, un testo animato da forte indignazione, coniugata al più sincero investimento intellettuale ed umano, senza per questo arrivare al martirologio. È plausibile inoltre ipotizzare una lontana suggestione sul tema conviviale, ma senza finalità parodiche o surreali, coi capolavori letterari di Rabelais, Folengo e Ruzante, come pure, sul terreno del cinema, con alcuni film di Pasolini e di Cronenberg. Quanto al pregevole distico caudato che funge da congedo, si deve considerarlo l’equivalente formale del senhal provenzale, a personificare però la poesia, come già si diceva, ma nulla vieta di intenderlo anche nei termini di una supplica votiva a una qualche divinità benigna.




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