Marco Vitale sulle ultime tre raccolte di Luca Nicoletti
La lettura, quale ho provato a fare seguendo l’ordine cronologico di pubblicazione dei tre libri principali di Luca Nicoletti, evidenzia non solo una straordinaria compattezza tematica, pur nella necessaria articolazione dettata anche dal trascorrere del tempo, ma quella che a me sembra la qualità principale del poeta, e cioè l’unicità della sua voce. Passando da un libro all’altro di Luca questo mi è sembrato sempre più evidente; quanto vi viene detto poteva essere detto solo in quel modo e da lui soltanto. Julio Cortazar raccomandava agli aspiranti scrittori di racconti di narrare come se la propria materia non potesse essere narrata da nessun altro all’infuori di ciascuno di loro e non ammettesse che un solo sguardo: quello che stai scrivendo, in altri termini, lo puoi scrivere solo tu e l’ambito che descrivi è casa tua. Le parentele tra il racconto breve, di cui Cortazar è stato maestro, e la poesia sono note. Al romanzo si possono perdonare divagazioni non pertinenti, momenti di stanchezza, incertezze stilistiche; il racconto può essere soltanto perfetto. Non altra è l’aspettativa che si riversa sulla poesia dove la posta in gioco è la riconoscibilità – sinonimo di originalità – della voce del poeta. E questo naturalmente non esclude affinità con altri timbri, imprestiti, citazioni.
Così, più mi addentravo nella lettura, seguendo il disegno cronologico dei tre libri di Luca – Comprensione del crepuscolo, 2015 ; Il paese nascosto, 2019 : Rappresentazione della luna, 2023 – e più evidente mi risultava la singolarità che ne informava la “grana della voce”, per usare una locuzione cara a Roland Barthes. La curva di quella collina o di quel promontorio, quella chiarità lunare in una notte d’estate, e naturalmente l’importantissimo tema degli affetti familiari solo lui li avrebbe potuti restituire in quella data forma. Una forma che si riconosce, voglio dire, e che il tempo non scalfisce, quali che siano le prove che la vita mette davanti al nostro autore.
Dico subito che l’intera opera di Luca mi sembra articolarsi su due grandi temi: il tema del paesaggio e quello appena ricordato degli affetti familiari. Sono temi che ne aggregano altri, naturalmente, secondo le più diverse modalità, e tra loro sono in dialogo, fino a convergere in non pochi componimenti.
Di tali affetti a me sembra soprattutto intessuto il primo libro, un libro in cui alla voce del poeta è sottesa una voce segreta – deuteragonistica, dice bene Alberto Bertoni nella sua prefazione al libro – come una trama di fondo. Parlo della voce della madre Rosita, cui il poeta è debitore di una lezione di sguardo, di un’idea dello spazio, delle relazioni tra un cielo popolato di voli e la terra, e tra coloro che quest’ultima abitano. C’è una radice forte in questo, che non si smarrisce nei libri che seguiranno, a costituire uno dei fili principali che tengono l’insieme. Intorno a tale lezione prendono forma le coordinate del paesaggio, le colline e il mare di Riccione, secondo le diverse luminosità che le stagioni loro conferiscono e che il poeta, insieme ai volti amati, restituisce con un’asciuttezza, ma anche una sicurezza di tocco che, ancora una volta, è solo sua. Penso al delicatissimo acquerello che ritrae la figlia bambina sugli sci “in un giorno di sole e di freddo”, un idillio senza sbavature, appena tratteggiato, quanto basta perché l’amore paterno ne risalti in tutta la sua intensità insieme alla sottile malinconia di chi sa bene come la felicità sia intessuta in attimi irripetibili (p. 15). Felice è la mano del poeta nel renderci la luce delle stagioni e l’inverno, nel suo bianco e nero, è quella in cui egli fa confluire la stupefazione per un tempo che appare sospeso e l’idea di un seme di rinascita che non potrà non dare frutti. A pagina 33 – ma è solo una di queste epifanie – tale scansione appare compiuta e nella sua essenza rarefatta fa pensare ad alcuni bellissimi fotogrammi di un vecchio film di Tarkovskij, Lo specchio. Si tratta di una delle possibili tracce da seguire attraverso le pagine del libro, fino ad arrivare alla sezione dedicata a Rosita, che del libro affettivamente e concettualmente appare come il centro. Di lì, inevitabilmente, ma attraverso questo transito, la grande rappresentazione – introduciamo questo termine – della Primavera antica (p. 91), seppure – cito – “nessuno crede / alle poche case di Agello”. Luca ce ne dà una sequenza mossa da una scrittura abbandonata e felicemente lessicata – la radice pascoliana è qui evidente – che simula i colori della natura, la sua ciclica varietà e verità. Vi è dunque una fiducia profonda in una parola poetica che sa accordarsi con il momento che fugge e che non teme la perdita, un’idea che spinge il poeta a scrivere – cito ancora – “su ogni giorno che muore”.
Libro concentrico è anche Il paese nascosto (2019). Lo intuiamo fin dal titolo che ne fissa la scena, ne delimita l’ambito in cui verranno a convergere, o a fare contrasto, i differenti motivi compresi in una articolatissima architettura poetica. Una luna miracolosa “che si spoglia dell’ombra” ci viene incontro quasi in aperture di volume, connotata da un filtro emotivo che la rende unica in un ricordo vòlto ai giorni dell’infanzia e al recupero di un lessico legato alle cronache del primo viaggio sul satellite, nella lontana estate del 1969: “i crateri le macchie il mare della tranquillità, / le strane espressioni che davano corpo / ai nostri desideri.” La poesia, che troviamo a pagina 20, vive di questa doppia originalissima apertura, giocata tra stupefazione cosmica leopardiana e trafittura della memoria.
Fin dalle prime battute del libro possiamo notare come lo sguardo del poeta tenda a distendersi sul campo lungo – bellissime sono le sue marine, e ancora una volta i suoi viaggi d’inverno – ma al tempo stesso rileviamo come si muova con agio e precisione nel dettaglio, basti pensare a come risolve l’incantevole lirica Noi tre – la troviamo a pagina 35 – evocando il labirinto del Buontalenti a Boboli e la rinchiusa, al suo interno, piccola Venere del Giambologna. Si tratta, a mio modestissimo parere, di uno dei vertici della poesia di Luca, nell’evocare una giornata di felicità familiare come racchiusa e resa luminosa da una pioggia sottilissima, una cortina preziosa che la custodisce, isolando il poeta insieme alla moglie Cinzia e alla figlia Greta, al riparo sotto due ombrelli, in una dimensione che si ricorda. Lo sguardo dell’architetto e lo sguardo del poeta qui tendono, e sarà così in diversi luoghi del libro, a convergere stabilendo una cifra originale che va sottolineata.
Difficile trascegliere tra le pieghe che restituiscono questo che Giancarlo Pontiggia chiama giustamente “luogo fondante”; vi è una compattezza stilistica insieme abbandonata e sorvegliata che chiede solo di essere ripercorsa, si vorrebbe dire pagina dopo pagina. E se abbiamo parlato dell’eleganza dell’inverno andrà almeno citato il grande tema dell’estate, che connota l’amato paesaggio adriatico in tutt’altro modo. Con taglio preciso dello sguardo il poeta la evoca, a pagina 50, come anticipazione del suo sfiorire, dell’abbandono che seguirà quando tutti se ne andranno e la città sarà ricondotta alle sue mareggiate solitarie e agli inevitabili raffronti tra il tempo delle stagioni e quello della vita. “Rimane, altresì, un’impressione di vuoto / – leggo più avanti a pagina 66 – una montagna che, all’improvviso, scompare / e sono gli anni, gli anni che è come / se fossero niente. / Eppure avevamo sognato questo libero tempo, / questa distanza dalla pressione incalzante / la contemplazione e l’ascolto, l’altipiano / nel frattempo raggiunto…” Si tratta di versi che ci portano, e quasi non ce ne siamo accorti tanto la retorica vi è estranea, entro una dimensione civile della poesia, che in questo libro si fa più evidente e vorrei dire sofferta; entro cioè quell’“inafferrabile presente”, come pure è detto in altro luogo del libro, che fa pensare a “L’innominabile attuale” di cui discorre Roberto Calasso. Siamo difronte a un tema che aggiunge nuove colorazioni al paese nascosto, che poi è metafora della stessa poesia, quale il poeta, con i suoi preziosi strumenti, si incarica di portare in luce.
Con Rappresentazione della luna, 2023, siamo all’ultima, per ora, stazione della poesia di Luca. Il libro, se così posso dire, sorge con la luna e tramonta con uno sciame di satelliti che orbitano intorno al mistero di Saturno, sul limitare della notte senza confini. Tra questi estremi troviamo ancora le colline e il mare, gli affetti più profondi e il ricordo e – Luca non dimentica mai di essere architetto – il tema cruciale della prospettiva, chiave di volta del pensiero umanistico e del suo amato Leon Battista Alberti. L’immagine ipervedente del suo occhio alato insieme al dubbio insito nella divisa – Quid tum? – è a ricordarci laicamente il limite connesso allo stesso pensiero, ma che altrettanto laicamente il pensiero, come del resto la poesia, si studia di superare.
Il paese nascosto, parliamo ancora di lui, è colto non solo attraverso il transito delle stagioni, ma in ragione delle pieghe dell’esperienza, e in primo luogo di quella inusitata che tutti coinvolge nella primavera del 2020 con il sopraggiungere della pandemia. Il radicale cambiamento del paesaggio della vita, deantropizzato all’improvviso, è reso con particolare nettezza e misura, e a scanso di enfasi e lamentazioni, nella centrale sezione Rubare la primavera (Zona rossa). Si tratta di un paesaggio segnato da una “gigantesca luna / dell’estate imminente, / dietro le impalcature / dei cantieri fermi.” E quanto al mare “già privato degli sguardi / sfogò la rabbia sugli scogli.”
Ma il mare, ci dice Luca, ritorna; lo suggerisce la sezione successiva del libro, e subito, alla pagina 47, troviamo uno dei quadri più nitidi dell’intera raccolta, nella chiarità di una ritrovata fiducia quale fa sì che le parole accarezzino quanto si profila davanti agli occhi. L’impressione è quella di trovarsi a una ricapitolazione, con quel tanto di compiacimento davanti a un nuovo inizio che non c’è bisogno di perdonare perché, come usa dire, “ci sta”. Del resto l’apparizione improvvisa del ciclista “al centro, / punto di fuga e di rientro / l’equilibrio di un istante”, sigilla la visione con una nota di incantevole impalpabile ironia.
Lo stile, forse non l’abbiamo sottolineato abbastanza, è sempre misurato e nelle sue tonalità piane e affabili è a suo agio nel rendere la stupefazione cosmica come la linea degli affetti, la luna di Leopardi come il vecchio gatto di famiglia, caso limite che merita la citazione (p. 25). Difficile è infatti parlare di un gatto o meglio del gatto; pochi e grandi poeti ci sono riusciti e quanto ai pittori bisogna essere almeno Lorenzo Lotto, che gli conferisce la capacità di avvertire il Tremendo legato all’apparizione dell’Angelo. Il gatto è una delle meraviglie del Creato, malsopporta immagini e parole perché non ne ha in fondo bisogno: è lui la poesia, è lui l’epifania, cos’altro gli serve? Eppure Luca ce lo presenta con un nome che è soffice come un dolce dell’infanzia – sarà stata Greta a chiamarlo così? – e ce lo mostra nei suoi ultimi giorni “scheletrico e afono / alla pari degli anni / il gatto che contemplava / come nessuno il silenzio / e sapeva scendere a patti / con la bella solitudine”. Ormai privo delle movenze feline che lo rendono divino l’animale, con affetto, è ricondotto alla sua essenza di argonauta del silenzio, alla sua “gattità”, per usare un neologismo del poeta Gianfranco Palmery entrata nel Dizionario della Treccani. E tutto questo nel modo più diretto, senza una sbavatura, come da una porta laterale, con quello stesso fraseggio che Luca usa quando ci parla della luna.
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