Giuseppe Zoppelli, Le ballate di François Villon tradotte in friulano da Giacomo Vit
François Villon, Ballate scelte, La vita felice 2022
François Villon è perfetto per la nostra epoca – civiltà dell’immagine, dello spettacolo, dell’intrattenimento, dei media, della distrazione e della cultura di massa – perché è un “personaggio”, come lo sono diventati alcuni poeti che hanno frequentato il “salotto televisivo” del Maurizio Costanzo Show, in pasto al nostro voyeurismo malato. E quando oggi non lo si è, si fa di tutto per diventarlo, perché crediamo che sia il solo modo, o la giusta scorciatoia, per ottenere subito audizione e ascolto, attenzione e visibilità, denaro e successo nel circo mediatico, in TV, sui giornali, sui social, sul web: vale, ovviamente, anche per gli scrittori e per i poeti, che si devono inventare un qualche scandalo per assurgere al titolo di “personaggio”. Grazia Cherchi, critico ed editor che di mercato ed editoria si intendeva, consigliava ad un amico scrittore, tra il serio e il faceto, che si lamentava dell’indifferenza della critica all’uscita del suo libro: «dovresti diventare un caso, altrimenti è ben difficile che le cosiddette pagine culturali dei quotidiani ti notino. Si spargesse la voce che hai strani rapporti, che so, con una nottola – la capra è troppo sfruttata – andresti a ruba».
Gli editori amano i personaggi televisivi e del circo mediatico con le loro vite da vip: divi di Hollywood o di una qualche Bollywood, attori, cantanti, comici, politici ignoranti, modelle anoressiche, sportivi, stilisti, scrittori tuttologi, giornalisti e artisti presenzialisti, showgirl e soubrette senza arte, tycoon, faccendieri, ereditiere, principi e principesse di case e famiglie reali, “ricchi e famosi”, “nani” “ballerine” “fenomeni da baraccone” e freaks del mostruoso circo mediatico. Squallidi protagonisti della televisione (sempre più autistica e tautologica), personaggi vari dal successo effimero ossessionati dal corpo e dal look tra lifting e botulino (tutti, ovviamente, ampiamente aiutati, nelle loro fatiche letterarie piegati sulle “sudate carte”, dai ghostwriter), incoronati dal pubblico e circonfusi di un’aura di successo che li rende ammirati, invidiati, affascinanti e seducenti, con i loro libri di cucina, di sport, di pseudo politica, di memorie, con le loro autobiografie già in giovane età, con le loro raccolte di sketch e barzellette che scalano le classifiche e raggiungono le vette dei libri più venduti, poiché assicurano un serbatoio di lettori garantito che acquista il prodotto reclamizzato a scatola chiusa, merce bene in vista nelle vetrine delle librerie, sui banconi degli ipermercati tra un reparto di hightech e l’altro di generi alimentari, e sugli stand delle grandi case editrici alle fiere, ai saloni e ai festival del libro.
Se poi aggiungiamo che François Villon non si chiamava così, e che è solo un nom de plume, e che neppure conosciamo il suo vero nome, che non sappiamo con precisione quando sia nato, e nemmeno quando e come sia morto, che poco sappiamo della sua “avventurosa”, accattivante e malavitosa vita, che è stato più volte arrestato e imprigionato, condannato a morte e poi amnistiato, e che per giunta gli è stata affibbiata nel tempo l’etichetta romantica di poète maudit, capiamo bene come il poeta francese del XV secolo possa essere ancora oggi facilmente impacchettato e confezionato per i lettori curiosi e assetati di gossip e di pruderie del XXI. Ne fa fede lo sfruttamento a cui il poeta è stato ed è sottoposto: soggetto di film, di pièces teatrali, di graphic novel, di racconti, di canzoni, mentre dai suoi testi hanno tratto ispirazione e attinto cantautori e poeti. Sono sempre stato convinto che il lettore debba conoscere il meno possibile della biografia di un poeta, ammesso e non concesso che abbia un qualche interesse intrinseco, così da non farsi troppo distrarre dalla lettura della sua opera e dalla centralità dei testi, che costituiscono la vera ragione di un incontro, questo sì, inimitabile.
In fondo, come canta il menestrello De Gregori, e senza voler troppo generalizzare, i poeti sono “brutte creature”, né più né meno di quanto lo siano tutti gli altri esseri umani, con l’aggravante – però – del narcisismo esasperato, della vanità, della vanagloria, della supponenza, della presunzione, dell’infantilismo dell’eternamente incompreso che non accetta critiche e contrarietà.
Bene hanno fatto, dunque, gli autori del libro Ballate scelte (La Vita Felice, 2022) a dedicare appena qualche riga nell’aletta di copertina a Villon così da lasciare ampio spazio alle sue ballate, così da permettere al lettore di concentrarsi sui testi poetici e di ragionare intorno alla loro proposta letteraria trilingue, poiché sono state tradotte in friulano da Giacomo Vit e in italiano – ennesima traduzione, mentre Vit le traspone in friulano per la prima volta – da Giorgio Bolla, e proposte e impaginate esattamente in quest’ordine (testo in francese antico, in friulano, in italiano). L’interesse di Vit per la poesia di Villon non è estemporaneo e nemmeno recente, e lo testimonia tutta la sua opera in friulano (oltreché la pubblicazione di alcune traduzioni da Villon nell’antologia del 2105 Con la stessa voce. Antologia dei poeti traduttori): come scrive nella Nota al testo friulano, l’incontro è avvenuto sul piano delle rispettive poetiche, sentite – benché lontane nel tempo – come affini: «mi è sembrato molto vicino alle mie tematiche, quali il senso di pietà per i derelitti e la meditazione sullo scorrere del tempo». A cui non è estranea, però, la stessa lingua dei due autori, seppure pronunciata a distanza di sei secoli (ma si ricordi che il Pasolini di Casarsa sentiva nel friulano tutte le profonde sonorità romanze): «La parlata friulana è in grado poi di rivestire in modo efficace la lingua francese, per ovvie affinità linguistiche».
La pratica di tradurre nella propria lingua locale o regionale è lunga e data dalla nascita delle lingue neolatine e delle letterature in volgare: cos’hanno fatto, in fondo, i toscani con i testi dei siciliani nel XIII secolo, se non toscanizzarli? A questa pratica non si è sottratta la lingua friulana, anche se tardivamente, soprattutto nella seconda metà del Novecento, a partire da Pier Paolo Pasolini, a cui oggi danno il loro contributo – tra gi altri e oltre a Vit – uno studioso come Giorgio Faggin e un poeta come Umberto Valentinis con le sue versioni in friulano dal piemontese di Bianca Dorato. Un’attività traduttoria che nei decenni si è via via arricchita di nuove prove: mi pare francamente inutile insistere sull’importanza della traduzione in generale e per le lingue minoritarie in particolare, sul servizio – che dovrebbe essere evidente a tutti – che tale esercizio rende alla lingua d’arrivo, se non altro per le potenzialità inespresse che di essa sa attivare e attuare. Si potrebbe quasi dire, come per ogni singolo testo poetico costituzionalmente formato da parti chiare e da parti scure per la stessa stratificata complessità della (nostra) lingua e della (nostra) mente, che le traduzioni portano tendenzialmente in chiaro le parti oscure della lingua d’arrivo.
Trapianti (2002), non a caso chiama le sue traduzioni dall’inglese al vicentino Luigi Meneghello, poesie trapiantate nel terreno della madrelingua, ma con l’ambizione, scrive, «di rinnovare l’accensione lirica degli originali: non veramente tradurli, dunque, ma quasi rifarli, in devota emulazione, in vicentino», di far rifiorire la suggestione poetica degli originali, di esplorare – grazie al cambiamento di codice linguistico – proprio le parti oscure, costituzionalmente oscure, del testo poetico. Ma anche, inevitabilmente, le parti oscure, inespresse, intentate fino a quel momento della propria lingua materna. A dare impulso non solo al friulano e al suo uso poetico ma anche alle sue traduzioni è dunque, ancora una volta, a metà Novecento, il Pasolini di Casarsa. Egli, nell’intento di fare del friulano un “atto poetico”, elabora una sua teoria della traduzione, rinvenibile in particolare nello scritto Dalla lingua al friulano, in cui dichiara apertamente che «Il friulano ha bisogno di traduzioni essendo queste il passo più probatorio per una sua promozione a lingua», e in una posizione di assoluta parità con le altre lingue: «non si tratterebbe (e qui si innesta la nostra polemica anti-zoruttiana e anti-vernacola) di ridurre, ma di tradurre; cioè non si tratterebbe di trasferire la materia da un piano superiore (la lingua) a un piano inferiore (il friulano), ma di trasporla da un piano all’altro a parità di livello». E può anche darsi che il testo di partenza “risulti menomato”, ma si tratta comunque di un’operazione anti-dialettale (le traduzioni dei dialettali e dei zoruttiani umiliano il friulano): «Per noi, tutto al contrario, la traduzione dalla lingua al friulano richiede un gioco difficile di sostituzioni foniche e melodiche, che, senza degradare il testo a un rango più basso, lo spogli della sua pienezza letteraria, del suo timbro di grande lingua, e lo renda all’acerbità e alle grazie di una lingua minore ma non mai dialetto».
Si rammenti che, a parte la traduzione in friulano del 1584 della novella di Boccaccio Il re di Cipri, compresa nel trattato di Leonardo Salviati Avvertimenti della lingua sopra il Decameron, la traduzione in friulano più antica, di poco precedente, forse del 1571, di autore sconosciuto, è la versione bernesca e giocosa dei primi due canti dell’Orlando furioso di Ariosto, pubblicati solamente nel 1878 da Vincenzo Joppi, i quali assegnano dunque al friulano il ruolo basso della comicità. E che un altro travestimento in chiave burlesca è quello del goriziano Gian Giuseppe Bosizio, del quale nel 1775 venne pubblicata la traduzione – nella varietà friulana di Gorizia – dell’Eneide virgiliana, peraltro di modesto valore letterario. Insomma, una tradizione letteraria secolare faceva del friulano delle traduzioni un uso comico-giocoso, umoristico, dialettale, burlesco e vernacolare: comprensibile la protesta antivernacola e anti-zoruttiana di Pasolini. Premesso che ciò che gli sta a cuore non è tanto la “salvezza del friulano come istituto” quanto “del friulano come atto poetico”, e che ciò che davvero gli interessa non è tanto la “lingua letterale come «inventum»” quanto la “lingua come «inventio»”, entro la quale ricadono – evidentemente – l’attività poetica e la stessa traduzione, potremmo riassumere la posizione pasoliniana con le parole di Xavier Lamuela: «Da una parte, il testo tradotto è riproposto in friulano con le scelte linguistiche e letterarie proprie della poetica pasoliniana; dall’altra, queste scelte e le caratteristiche stesse del friulano producono un testo diverso dall’originale e si ottiene, nel contempo, una forma di poesia che la tradizione e la dinamica sociale e linguistica del friulano non avrebbero mai prodotto. L’invenzione è, in questo senso, l’apertura a tutte le correnti dell’attività letteraria internazionale a cui Pasolini si proponeva di far partecipare il friulano, che diventa esplicita al massimo grado nell’attività del tradurre. Questa apertura si oppone in modo particolare alla concezione e alle pratiche dialettali. […]. In ultima analisi, se un dialetto o una lingua subordinata vengono caratterizzati come tali dalla loro chiusura all’interno del sistema di riferimenti proprio della lingua dominante, l’apertura e il contatto diretto con l’esterno mettono in crisi il suo carattere subalterno».
È ben vero che le traduzioni realizzate da Pasolini sono nel complesso poche, anche se l’attività traduttoria veniva promossa all’interno dell’Academiuta di lenga furlana, tra i suoi seguaci, e all’esterno (invitò, ad esempio, l’amico Sergio Vaccher a tradurre Pascoli); ma ciò che più conta sono le conseguenze che derivano dalla “lezione di stile” (Giorgio Faggin) impartita dal casarsese, a cui volentieri si perdona – ammesso che sia un limite – se le sue versioni “sono delle ricreazioni più che delle traduzioni aderenti all’originale”: il risultato, infatti, è che da allora, e negli ultimi decenni, si sono moltiplicate le traduzioni poetiche in friulano. Giorgio Faggin è stato giustamente definito “mediatore di culture” e forse l’attività che meglio interpreta tale sua posizione, tanto più nel mondo odierno globalizzato, è proprio quella di traduttore, iniziata tardi, alla fine degli anni ’80, dopo il primo periodo di docenza di Lingua e letteratura neerlandese alla Scuola per Interpreti e Traduttori di Trieste (1985-’88), ma da allora assiduamente e continuativamente praticata. Ha tradotto in italiano poeti fiamminghi (soprattutto) e olandesi dell’Otto e del Novecento, «alla ricerca mai appagata di una resa efficace, che “travasi” l’originale ma non lo “travisi” – come Faggin ripete scherzosamente ai traduttori in spe – di una certa sfumatura di significato, di un certo effetto fonico o ritmico». E ha tradotto in friulano poeti dialettali del Piemonte, dell’Emilia, della Romagna, di Trieste; ma anche catalani (un classico medievale come Il sogno di Bernat Metge e autori moderni dell’Otto e del Novecento) e i primi dodici libri dell’Odissea. Peraltro, il proliferare delle traduzioni in friulano dai più diversi idiomi, anche da parte dello stesso Faggin, non fa che accogliere la lezione e l’“apertura” del Pasolini traduttore di cui sopra. Faggin ha raccolto le versioni in koiné friulana in diversi volumi: Il savôr dal pan. Poesìis nord-italianis dal ’900 (1995), Mimèse. Versioni poetiche in friulano (1999), Flôr di poets catalans (2006), Il mandolâr. Poeti triestini tradotti in friulano (2007), Rilke in friulano. Venti poesie dai “Neue Gedichte” (2011), Biele lenghe. Versioni poetiche in friulano (2017).
Se la metafora della fiorita periferia, che ha caratterizzato la realtà poetica in friulano degli ultimi decenni, sottolinea una fioritura di parlate lontane dalla koiné, una sorta di “rivolta delle periferie”, diversa l’operazione linguistica di Faggin realizzata, ad esempio, nei “travasi” in friulano dei quattro poeti triestini (tre dei quali in triestino: Giotti, Carolus L. Cergoly, Claudio Grisancich; il quarto è Saba) tradotti nel Mandolâr: intanto egli è vicentino (nato a Isola Vicentina), il friulano non gli è lingua madre, ha studiato il ladino (soprattutto all’Università di Innsbruck negli anni 1968-’71) e si è impratichito del friulano negli anni vissuti a Udine (1971-’86); insomma al friulano si è avvicinato in età matura, acquisendone peraltro una padronanza e una competenza indiscusse. Ma, forse, proprio per questo il suo friulano, almeno quello delle traduzioni, è fin troppo libresco, grammaticale e letterario. Si ricordi che egli è, tra l’altro, autore di un Vocabolario della lingua friulana (1985) e di una Grammatica friulana (1997), in sui si esprime tutta la sua indole normativa basata – come è stato detto – «sulla proposta di una koiné puristica che astrae dalle tensioni e dalle varietà municipali» (Marco Prandoni e Gabriele Zanello).
Rienzo Pellegrini, a proposito, parla di un’idea di friulano “atopica” e “acronica”, di un friulano non nativo e non agganciato a una particolare varietà di parlato, che anzi del parlato respinge alcuni tratti, che si basa sulla convenzione della koiné centrale, che accosta il termine desueto, arcaico – a volte con soli riscontri letterari – al termine appena coniato o al prestito (ma sempre piegati a una conformità grammaticale lontana dall’uso e dalla lingua viva). Anche la grafia, pur frutto di un sistema coerente, è particolarmente laboriosa, a tal punto che forse alcune considerazioni dello stesso Faggin paiono quasi un’implicita autocritica, allorché parla di un modello rigoroso di friulano standard, unitario, normalizzante e puristico che “può apparire talvolta piuttosto artificiale e arcaizzante”. È evidente che – al di là dell’italianizzazione della lingua friulana – l’idea di friulano “atopica” e “acronica” di Faggin e il suo sistema grafico sono lontani dall’idea della fiorita periferia delle parlate e delle varietà locali, a loro volta distanti dalla koiné e dal friulano centrale, radicate nell’uso quotidiano della lingua e nel parlato, fino a diventare, a volte, come dice Federica Rocco Contin del suo friulano della Bassa, lenghe imbastardade, o disposte ad accogliere grafie non ufficiali, volutamente lontane dalla koiné udinese.
Se ci siamo soffermati sull’operazione traduttoria di Giorgio Faggin è perché quella di Vit è agli antipodi, come precisa nella nota linguistica: «Il friulano da me adoperato è quello parlato nel paesino di Bagnarola, in provincia di Pordenone, nella Bassa Friulana, ai confini con il Veneto. La sua principale caratteristica linguistica è quella di discostarsi dal friulano centrale (la cosiddetta koiné), per esempio con le vocali finali in a anziché in e, per la presenza dei dittonghi (es.: frèit, fòuc), la mancanza dell’accento circonflesso, l’influsso della parlata veneta». Nessuna concessione dunque, sul piano linguistico, alla koiné udinese, livellatrice, unitaria, omogeneizzante, “atopica”, artificiale, “arcaizzante”, e non solo sul piano della produzione poetica in proprio (raccolta nel volume Vous dal grumal di aria del 2018, a cui ha fatto seguito nel 2021 la plaquette A tàchin a trimà lis as) ma, appunto, anche su quello delle traduzioni. Vit sente il suo friulano musicalissimo, caratterizzato da forti sonorità, ed è proprio su questo piano che prende le mosse la sua sfida ai testi francesi del ’400, sul piano della musicalità, cercandone un’equivalenza con quella della lingua d’oltralpe di Villon, creando una equivalente “rete fonosimbolica”, a costo di sacrificare e non rispettare la forma chiusa, il metro e lo schema rimico, compensando il “tradimento” con la creazione di un fittissimo tessuto musicale fatto di precise scelte lessicali, di rime interne, di allitterazioni, di paronomasie.
Si prenda, a campione, la ballata senz’altro più conosciuta di Villon, la Ballade des pendus (originariamente senza titolo – per cui oggi si preferisce chiamarla con le prime parole del primo verso Freres humains – e poi conosciuta nei secoli come Épitaphe Villon fino al Romanticismo). Fin dal titolo in friulano Vit opta, quello che invece non fa la versione in italiano, per l’inversione della doppia titolazione, rispettando appunto la tradizione e mettendo tra parentesi proprio quello che appare come il titolo principale: Pigrafa Villon (Balada dai piciàs). Ma ben altre sono le novità, che fanno parlare, più che di vere e proprie traduzioni e versioni, di trasposizioni e di “trapianti”, se non – addirittura – di reinvenzioni: è sufficiente la prima strofa a farci comprendere come il poeta di Bagnarola ha trapiantato nel suo friulano l’originale francese. Già il famoso sintagma dell’incipit («Freres humains») è spezzato dalla virgola, a renderlo ancor più drammatico e a sottolinearne il carattere allocutivo: Fradis, umans; ma è nel secondo verso che l’invenzione si prende la libertà di aggiungere una similitudine non presente nell’originale, e nemmeno nella traduzione in italiano, no stèit vèi il côur dur cuma un clap (letteralmente “non abbiate il cuore duro come una pietra”), che rimanda a quel dato di materialità e di concretezza che da sempre caratterizza le lingue del terroir.
Operazione che si ripete nel verso successivo con l’introduzione di una metafora rispondente allo stesso principio: parsechè s’i varèis un sclip di pietàt (“perché se avrete una goccia di pietà”, o anche “un po’ di pietà”), dove è altresì da evidenziare a fini musicali la paronomasia proprio tra i due termini aggiunti: clap/sclip. Il quarto verso, poi, sembra restituire tutta la devozione e la religiosità semplice del mondo contadino friulano con il suo andamento discorsivo tipico dell’oralità di una lingua d’uso: vi rivarà di sigur dal Signòur la so bontàt (“vi arriverà di sicuro dal Signore la sua bontà”); sembra di ascoltare dal parroco di un paesino della Bassa l’omelia, rivolta ai fedeli riuniti in chiesa, durante la santa messa. Religiosità sottolineata proprio dall’ulteriore interpolazione della locuzione avverbiale di sigur, che marca la forza della credenza e la fede nella giustizia del Signore. Dopo aver tradotto, nel settimo verso, «devoree» (“divorata”), riferito alla carne degli impiccati, con il più inquietante e crudele roseada (“rosicchiata”), che rimanda all’azione dei roditori e dei topi, e dopo aver riunito in un serrato e incalzante tricolon nominale la condizione degli impiccati, che nell’originale si identificano e immedesimano nelle loro ossa scarnificate che scadranno a polvere e a cenere («Et nous, les os, devenons cendre et pouldre» / e incuoi i sin doma vuòs, polvar, sinisa / “e oggi noi siamo solo ossa, polvere, cenere”), ad evidenziare maggiormente il loro stato di desolazione e abiezione, fisica e morale; ecco che il nono e il decimo verso sono una vera sorpresa: No stèit ridi dal nustri distin sensa doman, / preàit, invessit, che Diu a ni slungi la man! (“Non ridete del nostro destino senza domani, / pregate, invece, che Dio ci allunghi la mano!”, un Dio soccorrevole che ci venga in aiuto e in soccorso), laddove l’originale suona: «De nostre mal personne ne s’en rie, / Mais priez Dieu que tous nous vueille absouldre» (letteralmente: “Del nostro male (della nostra disgrazia) nessuno rida / Ma pregate Dio che tutti noi voglia assolvere”, voglia perdonare).
Può apparire una forzatura aver reso, ed in effetti è una vera e propria libera interpretazione, «mal» (Giorgio Bolla traduce “sofferenze”) con nustri destin sensa doman, come se il più grande dei mali, in quanto peccatori, fosse proprio quello di non avere più, qui in Terra, un domani, mentre il destino delle loro anime peccatrici sarà di rimanere in attesa del giudizio universale. Può forse giustificare in parte questo azzardo interpretativo la rima baciata doman/man in chiusura di strofa, a sigillo, laddove nell’originale è alternata («pourrie/pouldre/rie/absouldre»). Dunque, sorprende come due termini concisi («mal» e «absouldre») siano stati tradotti con due perifrasi, distin sensa doman e a ni slungi la man (immagine fortemente icastica, quest’ultima è senz’altro frase idiomatica) – in una lingua sempre viva, parlata, “popolare” che non ammette termini arcaici, rari e letterari – che dilatano i versi (sono in effetti i più lunghi della strofa) restituendoci un explicit meno teso e drammatico che va, anche grazie alla congiunzione avversativa invessit, verso una conclusione di strofa – seppur dolente – meno concitata e più distesa, fiduciosa nell’aiuto divino o, se non altro, che la condanna non sia anticipata dagli uomini, che essi mostrino invece nei loro confronti e nel loro destino di “appesi” empatia e pietas, quanto di più alto e di più umano possano esprimere gli esseri umani. Ecco, dunque, che anche la soluzione iniziale di Vit, di spezzare con una virgola Freres e humains, acquista il suo pieno significato di appello all’umanità dell’uomo, alla fratellanza, all’umanità di quei fratelli che credendosi al riparo da un destino terribile potrebbero facilmente deridere chi pende dalla forca: se agli uomini spetta il giudizio dei tribunali per i crimini commessi da altri uomini, dagli “impiccati”, compresi i delitti di Villon, solo a Dio spetta il giudizio finale sulla sorte delle loro anime, presso il quale – tuttavia – i vivi e i credenti possono intercedere con la preghiera, ieri – nel tardo Medioevo – come oggi, nell’età dell’Antropocene; insomma, condannati, secondo le leggi umane, ma non (ancora) dannati.
L’inventio di Vit è un vero e proprio tour de force, anche nel senso di torcere il significato, alla ricerca di una musicalità equivalente a quella della lingua francese anche forzando i limiti del friulano che, come ogni altro dialetto e ogni altra lingua minoritaria che si è fatta poesia, paga lo scotto – ed è la sua forza – di essere inevitabilmente racchiuso entro il proprio orizzonte antropologico e di rispondere a quei valori fonosimbolici – che diventano affettivi – in cui il mondo si è dato al vocante per la prima volta, carico della vita materiale e della cultura del luogo. Il trapianto richiede dunque un esercizio di equilibrio nel complesso gioco di significati e di significanti, dalla lingua di partenza alla lingua di arrivo, in cui ora prevalgono i valori fonici e sonori ora quelli semantici legati al senso e al significato, ora entrambi salvati dal traduttore con abile artificio. Un esempio nel contempo di inventio e di forzatura è il sintagma ossimorico fòuc neri (“fuoco nero”) nella seconda strofa antologizzata, laddove nell’originale troviamo «infernale fouldre», tradotta in italiano da Giorgio Bolla, al plurale, con “fulmini dell’Inferno” (e che io avrei reso con “folgore infernale”).
Fòuc richiama, indubbiamente, le fiamme dell’inferno (in francese «fouldre» ha il significato di “lampo”, di “fulmine”, al limite di “saetta”), ma è l’attributo ad attirare l’attenzione del lettore: perché neri, “nero”? Escluderei ogni riferimento alla mistica ebraica: di “fuoco nero”, e di “fuoco bianco”, si parla infatti a proposito della Torah scritta e incisa con lettere di fuoco, in lettere di “fuoco nero”, quelle visibili e leggibili, intervallate da spazi di “fuoco bianco”, che potrebbero essere lettere al momento ancora invisibili e illeggibili che Dio rivelerà nell’epoca messianica dando vita ad una “nuova Torah” (ma esiste tutta una tradizione rabbinica, cabalistica e mistica sul loro significato, tra cui anche quello che l’uno designerebbe la Torah orale e l’altro quella scritta, che qui non è il caso di ripercorrere). Esistono però, nella storia letteraria, alcuni interessanti precedenti e riscontri poetici, che qui valgono a campione di tre epoche diverse, a cominciare dall’Eneide di Virgilio: «Intanto l’Aurora aveva recato la luce / divina ai mortali infelici, riconducendo fatiche / e doveri: il pio Enea e il gran Tarconte avevano / innalzato già i roghi sulla spiaggia ricurva. / Vi adagiarono su i loro morti, ognuno / secondo il rito dei padri: acceso il fuoco nero / l’alto cielo s’oscura di fumo. […]». Tasso, a proposito delle canzoni di Pigna in cui compare l’espressione “foco oscuro”, parla di “nero foco”, a proposito di un desiderio concupiscente e di un amore lascivo, torbido, oscuro. E oggi un ulteriore riscontro, ma giusto spigolando, in Vito Riviello: «fuoco nero / fuoco austero / fuoco duro / fuoco oscuro / fuoco perituro» (La Montagna).
Può senz’altro aver giocato, più che il testo originale di Villon nel francese quattrocentesco, l’intermediazione e il sostrato delle traduzioni in lingua che si sono susseguite e accumulate negli anni formando una tradizione traduttoria, a partire da quelle di Luigi De Nardis (Poesie) e da quelle di Antonio Garibaldi (Il testamento e altre poesie), con le quali il poeta friulano si è senz’altro confrontato, e dalla stessa versione di Bolla ivi presente, e dalle cui interferenze ha tratto ispirazione: dunque dal francese all’italiano e, con un ulteriore salto di codice, dall’italiano al friulano. In effetti De Nardis traduce “nera folgore”, per cui possiamo ipotizzare che da qui provenga l’attributo neire (coniugato però con fòuc, “fuoco”). Nero, forse, perché l’inferno è luogo oscuro, buio, tenebroso in cui si dibattono dantescamente le anime, e lo è soprattutto in senso morale: il buio e la perdizione in cui è caduta l’anima “nera” peccatrice. Così giustifica in nota De Nardis la traduzione di quel distico, spiegazione che pone al centro la contrapposizione tra “acqua” (grazia) e “fuoco” (dannazione), e che può aver sedotto Vit nel momento di tradurre: «che la sua grazia ci spenga la sete. L’allontanamento dall’originale va giustificato. Alla lettera, il verso andrebbe così tradotto: che la sua grazia non sia per noi inaridita; l’idea di inaridimento, di disseccamento, di prosciugamento, nasce dall’immagine, implicita, di una “fonte della grazia”, di una grazia, cioè, intesa come acqua ristoratrice e purificatrice. A contrasto, la folgore infernale, il fuoco, il calore, la dannazione: Villon imposta, su un piano del tutto ultraterreno, un vero e proprio débat acqua-fuoco, grazia-condanna, che interessa l’anima dei “pendus”. La riprova è nell’evidente parallelismo istituito con i vv. 21-22: qui sono i corpi, non più le anime, degli impiccati ad essere interessati, su un piano puramente corporeo, dai due elementi più sopra messi a confronto, l’acqua e il fuoco». Anche altre soluzioni sembrano conformarsi alle scelte di De Nardis: ad esempio i due versi “ditàli siam, dai becchi crivellati. / State lontani dai nostri peccati” diventano, in friulano, dedai i sin, di becs sbusas / dai nustris peciàs stèit lontan; laddove l’originale suona «Plus becquetés d’oiseaux que dez a couldre. / Ne soiez donc de nostre confrairie».
Si perde, di quest’ultimo verso, che letteralmente sarebbe “Non siate dunque della nostra confraternita” (Garibaldi propone “compagnia”), proprio un carattere tipico della società e della religiosità medievale, ovvero la fondazione di confraternite di fedeli (confraternitas) dedite ad opere di pietà e di carità: ovvio che l’uso fattone da Villon sia antifrastico, tra ironia e dramma, poiché la confraternita dei pendus è un’associazione che riunisce i malavitosi, i criminali, i delinquenti, i ladri, gli assassini, i reietti, i peccatori. Una cosa è certa: le soluzioni di Vit riportano sempre e comunque il testo in francese – potremmo dire, senza che sia un giudizio di valore, lo abbassano – alla realtà in situ e in vivo della lingua friulana (da qui le spericolate perifrasi e le scelte lessicali), sentita risuonare nella sua medietà linguistica di idioma ancora vivo, orale, parlato, popolare, mai libresco e aridamente letterario (anche le traduzioni sono un’operazione letteraria, ma non c’è mai in lui ricerca insistita della cosiddetta letterarietà), che ancora oggi possiamo udire presso i parlanti di un piccolo paese della Bassa Friulana. Le ballate di Villon trapiantate nel friulano di Vit potrebbero essere lette, ascoltate, comprese senza difficoltà, e con profitto, anche dagli avventori che frequentano l’ultima osteria di Bagnarola sopravvissuta alla globalizzazione e alla pandemia.
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