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Gigli a colazione, di Gianfranco Isetta

Gianfranco Isetta, Gigli a colazione, Postfazione di Ivan Fedeli, pp. 68, € 12,00, puntoacapo Editrice, Pasturana 2017

di Mauro Ferrari

Difficile definire “raccolta della maturità”, come sono tentato di fare, questo Gigli a colazione di Gianfranco Isetta. Difficile perché Gianfranco, che ha esordito oltre i cinquanta anni, è maturo da tempo, e questa è la quarta raccolta (escludendo l’antologia Indizi... forse). Ma dico questo perché i segni della maturità espressiva e tematica in questa raccolta sono lampanti, e nel segno di una forte originalità.

Diciamo che la voce poetica di Isetta nasce naturalmente impostata, su un parlato colloquiale, con venature ironiche, e attraverso la creazione di una svagata persona poetica che osserva con animo serenamente disincantato lo svolgersi delle cose del mondo. In questa raccolta c’è un tema che si accampa sullo sfondo per riemergere prepotentemente: ed è il tema della morte. Un tema però mai affrontato direttamente, senza il travestimento della “finzione” poetica: anzi, l’abilità del poeta sta proprio nel creare simboli, metafore, immagini insomma che rimandano a quel tema.

Si parte con il primo testo, con quell’“ansia / in arrivo col temporale” (p. 7), in una raccolta autunnale nei temi e nei toni, ma senza tristezza, anzi: il titolo nasce proprio da una poesia in cui si parla di “autunno che viene” (p. 13); troviamo poi molte altre occorrenze, ma forse il pensiero profondo ci viene svelato dal garbato panismo di Siamo giunti da un cielo (p. 16), in cui si parla di “esile vita” e di continuità (finale).

E neve poi, cielo che “preme contro le pareti” forse proprio con quell’ansia di cui sopra, quasi un richiamo naturale. E inverno – si veda p. 20 e 21), e vento (p. 22, 25): quel vento che, come vento dell’ovest, in Shelley è un chiaro simbolo di sia di rinascita che di morte, perché rimanda ad Eschilo, alla generazione delle foglie spazzate dal vento. Proprio le foglie che scorrono a p. 23 (“e i giorni fra le mani”, si noti subito il parallelismo).

Mi sembra, insomma, che questo libro parli dell’“inganno che perpetua / la favola del vivere” (p. 36), o “immagini d’ombre / chiuse in un disegno che ci circonda” (p. 45): pulvis et umbra, insomma (Orazio, IV,7), all’interno appunto di un disegno oscuro; ma oltre a Orazio citerei la visione di Lucrezio, convocato esplicitamente a p. 15. Però questa visione, così cupa in Orazio, è alleviata dal nostro cogliere la bellezza – che c’è, per chi sa vederla, come appare chiaro a p. 41; o meglio, forse, la grazia.

Che è una parola importante in Isetta, a partire da quella poesia sul padre imbiancato di farina: perché la grazia deriva dal nostro atteggiamento verso il mondo, dal nostro aprirsi ad esso per capire come, all’interno della tragedia dell’Esserci, ci sia / ci debba essere spazio per la levitas, per la brioche mattutina a Parigi, per l’apparizione della bellezza, per la contemplazione del tempo che ci avvolge e a cui ci aggrappiamo.

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