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Rinaldo Caddeo su Roberto Caracci, Preludi e deliri, Pentàgora, Savona, 2020

A partire dal titolo e a finire con l’indice, (che mostra i cinque capitoli in cui si suddivide il libro: Andante poco maestoso, Andante molto maestoso, Marcia funebre, Allegro non troppo, Coda), l’ultimo romanzo di Roberto Caracci è in simbiosi con la musica. Ma che tipo di interdipendenze derivano da questa simbiosi?

In primo luogo c’è una struttura ripetitivo-circolare. Come nella musica sinfonica e operistica, una spirale sviluppa temi e tonalità. In questa struttura spiraliforme ritornano motivi, immagini. Qual è il leitmotiv, in cui si trova l’idea tematica principale di tutto il libro?

Quello che troviamo subito: «Lo zio Carlo mi aveva detto al telefono ‘Vieni a sentire i Preludi, ti faccio sentire i Preludi, sono qualcosa, qualcosa che… non te lo posso dire qui al telefono, non si può dire. Vieni a sentire il Preludi di Liszt.»

Questo leitmotiv si ripete varie volte, con varie modulazioni, nel primo capitolo ma anche nei capitoli successivi. I Preludi di Franz Liszt, ispirati al poeta francese Lamartine, come il libro stesso di Caracci ci spiega nel corso della narrazione, si chiamano preludi, in quanto annunci e prefigurazioni di qualcosa d’altro. «La vita è una serie di preludi a quel CANTO SCONOSCIUTO di cui la morte intona la prima e solenne nota.» (Liszt, nell’introduzione ai Preludi).

L’esordio del romanzo, le parole dello zio Carlo al telefono, sottolineano l’indicibilità, qualcosa che è indicibile, nel senso di indescrivibile, per la forza espressiva e la bellezza di ciò di cui si parla.

Poi, nel secondo capitolo, questa indicibilità acquista un altro senso. I Preludi di Liszt sono indicibili, perché appartengono all’indicibile e appartengono all’indicibile, perché preannunciano l’indicibile, cioè la morte. Ci portano oltre i vincoli e i confini della realtà e ci portano vicini all’ultimo confine, quello tra vita e morte.

Nel terzo capitolo lo zio s’inoltra in questo territorio e ci porta all’ascolto di questo CANTO SCONOSCIUTO che ha delle note che noi non conosciamo, registrate nei nastri magnetici del suo potente registratore. Sono fruscii, crepitii, cigolii, un tramestio di voci, in cui si pretende di riconoscere la voce della nonna morta. Sono voci che cercano di mettersi in contatto con noi e che dimostrerebbero che loro, i cari estinti, sono intorno a noi. Ci osservano, ci sentono. Non sono altrove, in cielo o sottoterra, ma sono qui, intorno a noi, accanto, in un’altra dimensione del presente. Ci ascoltano e parlano con una voce a bassissima frequenza, che si fonde con l’etere e che noi non possiamo sentire o che facciamo molta fatica a percepire.

È una teoria che può trovare molteplici agganci, vicini e lontani, con Il fu Mattia Pascal di Pirandello, ad esempio, in particolare con il personaggio di Anselmo Paleari e la teosofia. Paleari cercava la comunicazione con i morti mediante le sedute spiritiche. Qui, invece, con gli strumenti della tecnologia.

Questo leitmotiv innesca una direzione verticale, una spinta vertiginosa, circolare spiraliforme, ascensionale/discensionale, insieme ascendente e discendente, che è rappresentata da un’altra immagine ricorsiva del romanzo: il Vesuvio o come più spesso viene chiamato il VULCANO. Perché?

La risposta la troviamo nel quarto capitolo, dove si descrive un’ascensione al vulcano, con tanto di funicolare, compiuta dallo zio con il nipote fanciullo.

Il vulcano offre una prospettiva binaria: una verso l’esterno, verso il paesaggio circostante. Nel caso specifico: Napoli, il porto di Napoli, capo Miseno, Pompei, la piana del casertano, il mare, le sue isole (Capri, Ischia, Procida). Napoli e dintorni, con il suo presente e il suo illustre passato, come l’eruzione catastrofica del 79 d.c. e con tutto ciò che di memoria storica porta con sé questo passato illustre, incluso Leopardi e La ginestra.

L’altra verso l’interno, cioè il cratere. Il vulcano non ha una cima unica, un vertice, un punto unico di osservazione, un punto in cui convergono i versanti. La sua vetta è una circonferenza, con un versante verso l’esterno e un versante verso l’interno, che è l’interno del cratere. A differenza di una montagna normale vi si può cadere dentro (come Empedocle nell’Etna) non solo fuori. Il vulcano è il luogo topico dell’oltre in quanto snodo tra terra e cielo, ponte tra mondo sotterraneo e mondo celeste. Dunque collegamento tra direzione ascensionale e direzione discensionale.

Lo zio Carlo, arrivati in cima, si profonde in un volo pindarico su questa oltranza, facendo già riferimento ai Preludi di Liszt.

Il nipote, invece, elettrizzato dalle frasi infervorate dello zio, resta deluso dalla assenza di un passaggio, il tunnel che colleghi l’esterno con l’interno, il cielo con il mondo sotterraneo, magari portandoci agli antipodi, dall’altra parte del cielo. Il cratere è occluso, tappato, è un semplice fondo valle.


C’è, inoltre, un aspetto comico che s’impernia sulla coppia comica e sul ritmo incalzante.

Di coppia comica ci parla Gianni Rodari in La grammatica della fantasia. Si tratta di Sherlock Holmes e Watson, Gianni e Pinotto, Stanlio e Olio. Una recente versione è stata quella di Umberto Eco ne Il nome della rosa: la coppia di frate Guglielmo e Adso. Nel nostro caso è quella costituita dallo zio Carlo e dal nipote. Come ne Il nome della rosa, c’è un’analoga relazione di discepolo/maestro, in cui la narrazione è condotta in prima persona dal giovane discepolo.

Lo zio Carlo è il maestro e come tutti i maestri viene colto, soprattutto quando somministra al suo discepolo gli insegnamenti più profondi, in situazioni comiche. Pirandelliani sono i gustosi avvertimenti del contrario, che la voce narrante, in prima persona, dissemina, soprattutto in Andante molto maestoso, cioè nel secondo capitolo, capitolo centrale del libro: lo zio che, al culmine della frenesia gestuale, le braccia levate, proprio quando la musica di Liszt sale al massimo dell’intensità, inciampa nel tappeto e si salva appoggiandosi a una spalla del nipote o quando il miagolio disperato di una sirena, con annesso codazzo sguaiato di claxon, costringe lo zio a interrompere l’esecuzione e a rimettere la puntina del giradischi qualche millimetro più indietro.

Questi spunti non hanno solo una funzione antifrastica che permea tutta la testualità ma collegano uno spazio aperto (quello del caos esterno della città e poi, nei capitoli successivi, delle pendici vertiginose del vulcano) con uno spazio chiuso (l’interno calmo della casa dello zio e poi la quiete spettrale dello sgabuzzino della nonna), coordinano una dimensione ritmica e narrativa piena, incalzante e briosa, a volte quasi futuristica, mediante la tecnica dell’accumulo comico di elementi disfunzionali (in particolare, all’inizio, con la descrizione dell’attraversamento della città), con una tonalità più distesa e riflessiva, che emerge in diversi passaggi (in particolare nell’ultimo capitolo), creando una tessitura ironica e, come direbbe Pirandello, humouristica, in cui l’avvertimento del contrario diventa sentimento del contrario, approfondimento, processo educativo, formazione, anche dell’umanità non solo caricaturale dello zio, nello sguardo e nella coscienza del giovane narratore.



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