Franco Campegiani su "Ragionare d’amore" di Maria Teresa Coppola
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Intervento critico della Presentazione del volume presso Horafelix, Roma 8 novembre 2025

Si può ragionare d’amore? certo che si può, di tutto si può ragionare. Tuttavia, ragionare di amore in astratto si direbbe quanto meno improprio, giacché l’amore pretende innanzitutto di essere vissuto. E difatti il ragionare di cui qui si parla non è un discorrere teorico distaccato, bensì un conversare tra sé e sé dell’autrice che non riflette sull’amore, ma conosce l’amore vivendolo, sperimentandolo in prima persona. Un dialogo interiore che un po’ ricorda il celebre verso dantesco, Amor che ne la mente mi ragiona, citato nel Purgatorio da Casella e tratto da una canzone del Convivio, dove è messo in scena il colloquio tra la sfera razionale dell’anima e quella concreta, ossia spirituale dell’amore.
Certo, l’amore di cui parla Maria Teresa Coppola non ha nulla a che vedere con lo Stilnovismo, ovvero con l’angelizzazione tutta maschile della femminilità, quanto piuttosto con la nobiltà di un sentire panico e di un erotismo femminile delicato che rivela la forza morale e vitale dei sensi, della materia, della carnalità. Un’adesione vigorosa e dolcissima, forte e tenera alla terra, un sentimento di appartenenza al Creato, alla natura, alla vita. Le esplicite citazioni che la poetessa fa del Cantico dei Cantici (“Il mio amato è per me e io per lui”; “Egli pascola il gregge fra i gigli”) parlano di una sana sensualità che rende bella e fascinosa la vita. “Entrare nel mare / lasciando gonfiare la gonna”: come è bello questo erotismo stuzzicante e pudìco! La sacralità, la spiritualità dei sensi sta qui.
Nulla a che vedere con il bolso sentimentalismo o con la possessione morbosa. Nella sua espressione più alta, l’amore è un legame fra esseri indipendenti e padroni di sé. Un sentimento, certo, ma innanzitutto una legge che richiede fierezza, libertà, rispetto, auto-dominio. Altrimenti l’amore dilegua: “La luna che vuoi / la imprigioni nel pozzo / ma ripescarla non puoi / ché il secchio la disperde”. Nessuna appropriazione e nessuna dipendenza. Umile devozione, invece, e dedizione profonda verso colui o colei che si ama. Fino a desiderare, scrive la poetessa, di “slacciargli le scarpe”, ma con quella dignità che poi le fa dire: “assolverti di rispetto / e volgerti le spalle”. Un diario intimo, dove il languido intimismo non è di casa.
Una poesia sussurrata, ma non un monologo, un ripiegamento dell’io su sé stesso, bensì una conversazione dell’io con sé stesso, sulla quale si fonda l’apertura al dialogo in generale, e dunque la stessa relazione d’amore, quando è sana: “Se di te / giusto qualcosa mi manca, / è di me che mi manca”. Un teatro dell’interiorità auto-dialogante, che s’apre al dialogo con l’altro in quanto aperta al dialogo con sé. Autoanalisi, superamento dei pregiudizi: il limpido amore sta qui. “Potessi / lavarti lo sguardo / quei pensieri, / quelle scorie ingombranti, / tenaci di stolida cotenna / che stanno tra te e me, / che non ci lasciano / essere uno, sentirci / io le tue mani / tu le mie. / Diventare, per una volta, / noi, / sconfiggere la paura, / guarire la ferita, / sapere che la mia voce / è la tua”.
E tuttavia, “sorte ci vuole / grano e zizzania”, rammenta la poetessa. Il processo di pulizia mentale non può avere luogo in assenza di torbidezza, di opacità. Amore della luce con le tenebre, amore a trecentosessanta gradi. E qui balena la lezione junghiana dell’ombra, del lato oscuro dell’anima necessario alla completezza, all’integrità. Rifiutare l’ombra significa intralciare il processo di maturazione psichica, perché nell’ombra ci sono i semi della nostra possibile trasformazione, gli stimoli a superarsi e a procedere, ad andare avanti e a migliorarsi sempre nella vita. Così come tutto muore e rinasce in natura (l’alba e il tramonto, il seme e il frutto, l’inverno e la primavera, il vecchio e il bambino), altrettanto avviene nell’anima, inserita nello stesso ciclo.
La poesia di Maria Teresa Coppola punta i fari su questa inquietante e gratificante realtà. Una ricerca, un viaggio alla scoperta di noi stessi, fuggiti, lei scrive, “là, da dove / non si è mai partiti”: da quell’Eden che Adamo ha posto fra parentesi, ma che è ancora là, dove è sempre stato, nei recessi più segreti e profondi del sé: “Alzate le vele e preso il largo, / tutto hai travisato trasgredito / trasferito travasato transitato, / travestito e travolto, / mai tralasciato davvero”. Finché all’improvviso: “una sera mi fermo / e mi aspetto. / Mi specchio oltre i vestiti, / gli orpelli, i segni / di trascorse allegrie e solitudini, / sentimenti usurati o soffocati”. Ed ecco apparire “il mare, / … / che trascuravo dentro, / che riconosco e mi guida, / lontano dai giochi finiti, / nei giochi infiniti di Kairos”.
È l’avvistamento della propria identità, fissa e mutevole nello stesso tempo: “Il tempo vola, io no”. “Luce, ovunque / luce da straripare, / … / luminosa, numinosa, perfetta”. Luce che tuttavia “rimane nella regione di me / dove il tempo non è tempo”. Poi c’è l’altra parte di me (della psiche), sotto il dominio di Kronos (non di Kairos), dove tutto muta in continuazione: “Mi osservo e mi rincorro / l’io e le tante / che in me si muovono, / che cambiano e ricordano, / azzardano e ri-esistono”. Un’identità/alterità, che, per quanto inquietante, occorre al nostro equilibrio, a renderci liberi e mentalmente elastici, a incamminarci sul sentiero di un equilibrio raggiungibile e irraggiungibile nello stesso tempo. Una ricerca interiore, un viaggio infinito nel miglioramento progressivo di sé.
Allora sarebbe ora di smetterla con la stucchevole contrapposizione tra il privato e il pubblico, tra poesia civile e poesia dell’anima. Nel pubblico si riflette il privato. Se gli individui sono sani, anche la società lo è. Il primo habitat dell’uomo è sé stesso. È dunque da ognuno di noi che inizia la società. Le ideologie sono depistanti, sono proclami astratti, dei puri e semplici bla bla. Le bandiere sventolano invano, perché ciò che conta sono gli uomini che stanno sotto le bandiere. La fonte della comunione, del rispetto, dell’amore e della fratellanza sta nell’interiorità. È lì, nella solitudine e nella compagnia di noi stessi, che esplode la coralità di tutto il vivente. Ci sono, in questo diario squisitamente intimo di Maria Teresa, degli umori civili e sociali paradigmatici, che voglio citare.
“Primo maggio in via del Borghetto. / I marciapiedi rigurgitano / sacchetti azzurri. / - sacrosanta festa / anche dei netturbini - / La fiera dello scarto / che gli altri giorni non vediamo, / rapina senza fame, / inconsapevole oltraggio, / ombra, / nostro ignobile doppio / che ogni sera rifiutiamo, / assolti / dalla raccolta differenziata”. Una denuncia sociale in piena regola. Il dito è puntato verso l’inciviltà degli scarti che abbiamo creato. Ci mettiamo l’anima in pace con la differenziata, ed è meglio di niente, sicuramente meglio dell’inceneritore di cui l’Urbe vuole fare gentilissimo dono agli amati dintorni, ai Castelli Romani. Resta tuttavia la condanna del consumismo, rapina senza fame. Dov’è finito l’incivile mondo contadino che stava con i piedi per terra in un habitat incontaminato?
Numerosi sono i riferimenti, nel testo, alla superata civiltà contadina. Ma non in senso ideologico, né tantomeno nostalgico, arcadico, idilliaco, come potrebbe sembrare, quanto piuttosto in un senso archetipico. Un richiamo alla forza vitale e morale della natura e degli uomini che l’abitavano, della saggezza dei vecchi che sapevano accettare il proprio stato: “assecondavano gli anni / senza subirli. / Placati, / sistemavano al sole una sedia / ad occhi chiusi annuivano, / sincronizzato il respiro / al ritmo lento di terra e stagioni. / Le nonne raccoglievano / il mondo nel grembiule / dove vorresti, per un’ora, / farti accogliere la testa”. Era quello l’Eden, l’accettazione vigorosa del Bene e del Male, la lontananza dai frutti proibiti che danno la scienza, ossia la separazione, del Bene dal Male.
Oggi regna l’angoscia: “l’angoscia mi atterra, / fuor di metafora. / Stramazzo, mi abbatto, / … / Occhi bassi, / … / I lividi non mentono, / ricordano / che buone gambe / non bastano / se tu non ti basti, / … / se non sei in grado / di appartenerti”. Tuttavia l’amore che fugge dal mondo può tornare nel mondo se riesci ad amarne le malie. A quel punto, all’improvviso ti accorgi che “stanotte / l’Universo guarda il giardino. / Notte dialoga con Erebo, / sciorinando gioielli, / Arturo, Sirio, forse Vega, / più in là Cassiopea. / Hypnos ritarda. / Ma so che la luce, / anche lontana, / allontana la paura. / Posso stare nella notte, / semplificarmi, / fermarmi, / lasciare le cose / alla loro sapiente perfezione. / Amore oblativo mi investe, / … / E se ho svenduto l’anima, / un’altra me ne farà. / Stanotte”.
Non c’è mai un discorso univoco in questa poesia. C’è sempre il rovescio della medaglia, un contrasto di luci ed ombre, di pienezze e fragilità, di armonie e disarmonie. E anziché creare situazioni di stallo, tutto questo crea equilibrio, elasticità, dinamismo propulsivo. Sta qui il succo di questo ragionare d’amore. Amore il cui corrispettivo filosofico è conosciuto da sempre come armonia di contrari. Per questo l’eloquio poetico di Maria Teresa ha un timbro sostanzialmente classico, purché non si pensi alla classicità come ad un mondo da perpetuare nei secoli, appartenente al passato. Ciò che è classico non è databile. E non perché viva fuori dal tempo, ma, al contrario, perché è universale, capace ossia di vivere in ogni tempo con modalità differenti tra di loro.
L’illo tempore del mito è un momento sacro perennemente attuale. Le figure mitologiche cui spesso la poetessa ricorre potrebbero sembrare tratte dal passato, ma invece appartengono all’eterno presente dell’inconscio collettivo. Gli archetipi sono sempre, in ogni tempo, aderenti alla vita. Balenano nel linguaggio nominando in ogni epoca per la prima volta il mondo, ma il linguaggio non può catturarli, salvo trasformarli in feticci. E così diviene autoreferenziale, il linguaggio, nominando non più il mondo, ma sé stesso. Per questo Maria Teresa dice che le parole “liberarle bisogna, / lasciarle avvicinare, / provare a carezzarle, / convincerle a guardarci, / venirci dietro / nelle stanze, per la strada, / nei bar e nella metro, / correre con noi sotto la pioggia, / lasciarsi masticare in un panino”.
Maria Teresa Coppola, salentina di nascita, pisana di adozione, si laurea in giurisprudenza a Pisa dove vive tuttora. La poesia le è familiare sin da piccola. A casa del poeta Girolamo Comi frequenta letterati quali Alfonso Gatto, Diego Valeri, Oreste Macrì. Seguono in Toscana anni di affettuosa contiguità con il poeta e critico d’arte Raffaele Carrieri. Varie sue liriche sono presenti in più antologie e nel collettaneo Argeste 2023 di Aletti editore. Con la silloge Sottovoce ha vinto il premio speciale della giuria del Premio “Casentino” 2023. Ha pubblicato la silloge C’è di più (Aletti), seconda classificata al Premio “Caravaggio”. Ha ricevuto riconoscimenti per la sua attività letteraria tra cui il premio della giuria del Premio Internazionale di arte letteraria “Il canto di Dafne”, il terzo premio alla sesta edizione del “Concorso Nazionale di Poesia dell’Accademia Casentinese” e numerosi altri.



























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