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Nota di Paolo Artale a Filippo Ravizza, Nel tremore degli anni

Non sono poi molti i libri di poesia che restituiscano il senso di finitudine dell’essere umano in misura totalizzante. Che l’uomo sia precariamente stabile su questa terra è un fatto, ma non è scontato invece che tutti ne avvertano sempre l’innegabilità e quindi lo sgomento. Il volume di Filippo Ravizza dal titolo Nel tremore degli anni (puntoacapo) è uno di quei pochi e appunto il titolo ci dice già quanto l’autore senta con angoscia, ma anche con bellezza, che poi si traduce nella bellezza dei testi, il passare del tempo, così come l’inazione, arginata e ribaltata dall’autore stesso, naturalmente, con la scrittura.

Il suo dettato, assimilabile al canto, è spesso privo di punteggiatura, i versi ci incalzano e sovente la iterazione e reiterazione di parole o sintagmi prossimi ci toglie il respiro, mentre leggiamo.

Libro complesso per la quantità di emozioni, ricordi, capacità di sondare il presente con disincanto ma anche con la speranza che qualcosa possa alla fine cambiare, magari si possa ritrovare.

La parola “nulla” compare assiduamente nei testi di Ravizza: il trascorrere del tempo e la caducità dell’essere sono captati e poi registrati in maniera definitiva, così forte tanto da rivelarci che forse “le cose esisteranno finché esisterò io”: noi siamo la costante vivente delle cose che non durano, sembrerebbe dirci il poeta.

Il tema del tempo, come afferma Giuliana Nuvoli nella postfazione è davvero, per Filippo Ravizza, una ossessione.

Mai il tempo e il nulla che innervano il libro e che apparivano così incontrovertibili, verso la fine sembrano diluirsi, aprirsi e quindi aprirci, per fortuna, uno spiraglio seppur ancora poco nitido. Ecco “l’ebbrezza dell’esistere”, consapevolezza di una ansietà ancora viva; l’uomo, azzardo io, che come energia accumulata nella vita, sia rimesso in circolo e torni con la stessa energia delle cose magari, come invece annota Ravizza, fra un milione di anni.

Il nulla ci fa pensare a qualcosa di scuro, di buio insondabile e che inghiotte tutto ciò che ci circonda, come una zona scura dell’universo: ma per osservarlo, abbiamo comunque bisogno della luce.


Paolo Artale




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