Luca Campana, Del logos, o dell’inesauribile carcassa. Su Autopsia (reiterata) di Dario Talarico
Leggendo le poesie che compongono l’ultima raccolta di Dario Talarico, Autopsia (reiterata). Poema logico-filosofico (puntoacapo editrice, 2022), si ha fin dall’inizio l’impressione di trovarsi di fronte a un distillato, a una lingua che è stata lavorata a lungo, per sottrazione di elementi, fino a diventare qualcosa di estremamente sottile e tagliente: un bisturi, attraverso il quale l’autore seziona pezzo a pezzo il corpo stesso del linguaggio, cavandone fuori suono e senso.
Il libro si compone di cinque parti, i cui titoli richiamano l’analogia che struttura concettualmente l’intera opera: Anamnesi, Referto numero 1, Referto numero 2, Referto numero 3, Diagnosi.
Anamnesi ci presenta la figura di un anatomopatologo intento a tagliare e cucire, in maniera seriale, ordinata e tanto distaccata da risultare asettica, la polpa carnosa di un cadavere, posto su un tavolo anatomico: in questo corpo inerte c’è “tutta la letteratura”, divenuta ormai “uno scambio d’organi, un’autopsia” (p.10); in queste membra consumate, eppure ancora consistenti, sta l’intera carcassa del linguaggio. Seguono i tre “Referti”, che danno voce all’anatomopatologo, il quale finirà per scoprire che il corpo sul quale lavora è il suo stesso cadavere; tale esito è anticipato dall’inizio del libro, dove si parla di una “auto-autopsia” (p.9). Infine Diagnosi propone il risultato conclusivo, che argomenta seguendo una modalità affine ai paradossi eleatici dei successori di Parmenide. E il paradosso, insieme alla deduzione sillogistica, rappresenta il taglio di questa doppia lama, che scompagina e riassembla aprendo la pagina alla verticalità, all’affondo abissale e alle vette di un continuo voler “elevarsi” (p.17, “i”).
Procedendo attraverso i tre referti, la parola è al contempo ciò che taglia e ciò che è tagliato. Ad essere smembrate e ricomposte sono le domande e le risposte che l’uomo si porta dentro fin dall’alba dei tempi: la possibilità della conoscenza, la necessità di rinunciare all’ego, la poesia e la parola come strumenti inadeguati a possedere la verità, ma capaci di dischiudere una crepa, un taglio, una ferita, sempre la stessa, da riaprire e richiudere attraverso i gesti di un’antichissima disciplina seriale, di un ininterrotto “scambio” tra presente e passato.
Le fibre che affondo dopo affondo vengono portate alla luce parlano la stessa lingua, fatta di versi misurati e precisi, di una sintassi essenziale, di rime e assonanze, di segni grafici che nel testo appaiono come vere e proprie suture cicatriziali e scandiscono il ritmo logico delle argomentazioni.
Più i testi si fanno quantitativamente scarni (e questa prolungata “scarnificazione” del discorso è il dato più evidente rispetto al precedente libro di Talarico, Il coraggio di non lasciare il segno, del 2019), più acquistano significato e luce, caricandosi di una valenza sapienziale e di un tono oracolare che rimandano alla tradizione delle Upanishad, dell’Ecclesiaste, del pensiero presocratico, a quella dimensione totale dell’essere di cui sono testimonii primi filosofi dell’Occidente, per i quali il pensiero, il linguaggio e la parola sono racchiusi in un unico logos. L’autopsia è questo percorso a ritroso, questo “ricavare da una foglia una radice” (p.11), che dal cadavere riscopre i segni della vita, dall’ultimo crepuscolo i bagliori dell’alba.
“Partorirsi a ritroso”, “nascere dalla fine” (p.11), sono i paradossi che il poeta-filosofo assume come ipotesi da perseguire fino in fondo: del resto, come ripete la citazione di Wittgenstein posta in apertura, “conoscere una proposizione è sapere che cosa accade se essa è vera”; e in questo procedere circolare, lungo i vasi sanguigni di un sistema chiuso, di un corpo millenario e inesauribile, in direzione di un passato che è sempre da venire, sta il cuore pulsante della poesia “necroscopica” e vivissima, spolpata fino all’osso, eppure florida, di Dario Talarico.
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