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Livio Fubini su "Il geranio sopra la cantina" di Evaristo Seghetta Andreoli



 

Nel complesso e variegato panorama della Poesia contemporanea si registra un’insolita e, sovente, sconcertante superfetazione di opere, per lo più illusorie e frutto più d’improvvisazione. È innegabile che la Poesia costituisce l’elemento portante, che schiude l’animo alla percezione del sé in maniera del tutto eccezionale e originale, ma è altrettanto innegabile che l’amabile dono delle Muse, di archilochea memoria, esige paradigmi e presupposti, quasi mai riscontrabili, o reperibili, nella pletora di volumi, che autori di scarso talento e di impudente prosopopea affastellano di anno in anno in scaffali spesso degnati neppure d’uno sguardo. E giustamente, perché scrivere versi, essere Poeta è un’arte davvero difficile; e quest’Arte sublime, che si percepisce a fior di pelle, è appannaggio di pochi eletti. I quali, dotati di profonda e vasta cultura, mediante forme e stilemi mutuati da un passato anche non troppo lontano, riescono a veicolare con la semplicità e la schiettezza del verso sensazioni e stati d’animo, che solo essi avvertono, riescono a esprimere e a trasmettere col sapiente uso d’un esemplare percorso introspettivo.

Il dettato poetico di Evaristo Seghetta Andreoli, invece, si snoda in tramature lirico-semantiche, che si infuturano in archetipi originati già in tempi remoti e si sostanziano nell’interiorità della naturale risemantizzazione di lessemi ricorrenti, e fondanti, inseriti in sintagmi accuratamente architettati e sapientemente disposti in forma sia lirico-psicologica, sia socio-culturale, sia filosofico-letteraria.

Nella presente silloge la tensione lirica, sorvegliata con vigile costanza, coinvolge il lettore, genera e alia et eadem rinnova nel suo animo la continua presenza de nella dimensione tanto carnale, quanto, e soprattutto, spirituale e metafisica non solo dell’ego cogintans, ma anche, e in particolare dell’ego agens, dell’ego cupiens, dell’ego fidens.  

Il volume di pregevole fattura inserisce tanto l’ego cogitans, quanto l’ego cupiens e fidens nella dimensione panica della natura ancora vergine, nonostante le violenze subite dal progresso materiale e le ferite inferte dall’inarrestabile antropizzazione, che stravolgono il quid substantiale insito nella rarefatta essenza del proprio ens barbaramente violato dall’incombente presenza dell’ens solo in apparenza rationale. Irrompe prepotente il limite stesso della Natura, sofferente per le impellenti contingenze terrene e impossibilitata a fornire quanto la ragione agogna. Ciò non di meno sottile striscia nelle liriche la presenza dell’Eden, abilmente sotteso da incallita abilità narrativa e compositiva, che assecondano e rivolgono l’attenzione sull’ancestrale felicità smarrita e mai più ritrovata. Nell’accurata silloge, infatti, il Poeta rincorre la verginale purezza dell’uomo, che, per ricordare Giacomo Zanella, si crede canuto / … appena all’Artefice / uscito di mano

L’homo di Evaristo, insito in un contesto psicologico-narrativo sapientemente caratterizzato e strutturato, per ritrovare la propria dimensione come ens rationale e, in modo particolare, come ens agens, percorre il faticoso cammino verso l’ens immortale, del quale nella varietà delle sfaccettature riscontrabili nell’attuale realtà avverte imperiosa la presenza, che, lungi dal coartarlo, sostiene, incoraggia e conforta, perché, per riprendere Zanella, conosca la stanza / che i fati gli diero.

All’attento lettore non sfugge la callida iunctura della sinestesia, la studiata collocazione del poliptoto, dell’omoteleuto, della calcolata presenza della rima interna, dell’anafora, della figura etimologica, della similitudine. Questi elementi, che sostanziano la Poesia e rendono la lirica un unicum nella controllata sollecitazione del logos creans, costituiscono i richiami primordiali, cui la mens nell’atto creativo ricorre per innervare il susseguirsi del verbum, che, preso in sé e avulso da così validi supporti, non avrebbero senso.

Per tal motivo il lettore deve entrare in punta di piedi nella lirica di Evaristo Seghetta Andreoli, per scorgervi il tanto trascurato e sfuggente diagramma spaziale-evolutivo, che schiude davanti agli occhi del lettore una nuova, inaspettata ed eloquente dimensione antropometrica, derivata tutta dal presente e incombente assioma ontologico, fluente e dominante nella velata riflessione tanatologica, verso la quale il Poeta orienta sensibilmente il lettore. Ma, accanto a quest’aspetto, motivo ricorrente della lirica contemporanea, serpeggia anche quello erotico, abilmente celato nell’incalzare della riflessione all’interno d’una fitta trama narratologica, che svia volutamente l’attenzione anche del lettore più accorto. Questo tema, usato e logoro dai continui riferimenti spesso poco pertinenti, trova in questa silloge in nuovo modo di introdursi nella coscienza dell’ego cogitans.

Come esempio di lirica fortemente allusiva del particolare uso dell’Eros operato da Evaristo, ripropongo all’attenzione del lettore la splendida lirica, che apre e conferisce il titolo alla silloge:

              Assapora molti tipi di rosso

              la giovane inglese di grigio fumo

              vestita, già abbronzate le gambe

 

              al sole latino, dopo un Bolgheri

              mi sorride, labbra rosso rubino

              come sangue, come sole al tramonto

 

              come geranio sopra la cantina.

Nella ben calibra struttura della lirica mediante l’allusività l’erotismo, pur pacato e velato da immagini fuorvianti solo in apparenza, balza vivo, sanguigno, prorompente; pervade l’intimo e riporta ad anni lontani caratterizzati da esperienze mai sopite; si stempera in fiotti violenti, ammorbiditi e resi immediati nella palpitante possanza dal sapiente e controllato uso dell’enjabement. A una superficiale riflessione critico-semantica nella manciatina di versi, nei quali il continuo ed esasperato labor limae contribuisce a relegare nel torpore quasi evanescente del subconscio, Eros compare e giganteggia in lessemi solo in apparenza collocati quasi per caso in luoghi di passaggio quasi obbligati per lo snodo del piano narrativo. Questi, però, a una riflessione più dettagliata evocano immagini, sensazioni, fremiti, temporaneamente accantonati e mai interamente sopiti. Il rosso costituisce il tema dominante della breve lirica, opportunamente divisa e spaziata. Si trova, infatti, opportunamente collocato alla fine del primo verso e al penultimo posto nel sesto. A questi due, però va necessariamente aggiunto l’ovvio colore rosso sia del vino di Bolgheri, sia del geranio. Il rosso, si sa, è il colore dell’amore, del fuoco passionale.

Eros ancora si insinua e serpeggia nell’esplicito richiamo, ben velato dal normale cenno al grigio fumo del vestito, alle abbronzate gambe / al sole latino della donna inglese, che negli anni Settanta del secolo scorso scendeva in Italia spinta dalle bellezze della penisola, dalla cucina, dal vino e, soprattutto, dall’amore, cui si abbandonava volentieri dopo un bicchiere di vino. Bei tempi passati del latin lover, che Evaristo evoca in modo magistrale, non senza un’amara punta di nostalgia.

La metafora più forte o, se si vuole, la metonimia, probabilmente passata sotto silenzio, è costituita dall’emblematico lessema cantina, il quale, non a caso collocato in fin di verso, a chiusura della lirica, racchiude in sé il significato tanto dell’amore in fiore, significato dal geranio, quanto dell’amore nel suo naturale declino e il luogo, dove sono concentrate le dolcezze dell’amore. In questo caso, però, il fiore rivela notevoli vincigli con i carmi fliaci della rappresentazione dorica nell’Italia meridionale preromana. Questi particolari, che animano e conferiscono vitalità alla lirica, sono adombrati da raccolto misticismo, che, volutamente, suggerisce e impone l’accorato intimismo, che si proietta in un quid aeternum, che, presente nella silloge, qui non è ancora né delineato, né definito.

In questo momento di scoramento, col pressante richiama all’inconfutabile realtà, Evaristo sembra evocare il crudo potere tanatocentrico, cui non sfugge il domino sulle cangianti sembianze della natura umana. Con questa lirica e con le successive, precipitate nella raccolta, Evaristo incita l’uomo contemporaneo a riflettere sulla rerum vanitas: l’uomo d’oggi, infatti, sembra ebbro del nettare degli dei omerici abondantemente cosparso di nepente; è illuso dal fluttuante e incerto potere dei molti mezzi disponibili; appare cupo e preoccupato, come se venisse condotto con violenza dal profondo antro di Trofonio; travolto dal turbinio degli eventi e delle passioni, non conferisce adeguato valore al tempo e alla propria giornata e non pensa che muore giorno dopo giorno. L’uomo di Evaristo, che ha certamente letto le Epistolae di Seneca, sembra attanagliato dalla continua illusione che la morte, pur sperimentata ogni giorno mediante i luttuosi e incalzanti eventi bellici, sia un evento, che o non lo tocchi, o, peggio, non lo riguardi. Eppure l’ens rationale, ma mortale, sa bene che il passato è in potere della morte, che mediante un’efficace similitudine può metaforicamente essere richiamata dai due versi conclusivi della lirica: come sole al tramonto / come il geranio sopra la cantina.

Si potrebbe, a questo punto, osservare che il lessema cantina allude chiaramente alla leopardiana tomba ignuda. La lirica di Evaristo, in effetti, rievoca non pochi stilemi della leopardiana A Silvia, e non solo, abilmente trasferiti in un’ambientazione, che, almeno in apparenza, con Leopardi non ha nessun rapporto, nessun legame cogente.

La ricca e complessa formazione culturale di Evaristo, anche a un esame formale, evidenzia una limpida e lineare struttura poetica e la sua intima cognizione, secondo le felici intuizioni di R. W Gibbs, è modellata da processi poetici o figurati, in particolare metaforici, sebbene nel loro insieme siano esigui e si concretizzino in un limitato numero di metafore, del resto comune e condivise anche da altri Poeti. Mediante queste, con rara sensibilità e padronanza delle strutture metrico-espressive, il Nostro organizza la percezione del lettore, cui veicola un messaggio ineludibile, che spoglio dei necessari mezzi espressivi, si rivela, in ultima analisi, comune e, si potrebbe dire, anche banale. Fra le strutture concettuali, come il comune lettore può sperimentare, spicca, per la sua pervasività, il tema del viaggio, in forza dell’attinenza alla metafora più forte e incisiva mediante la quale l’ens rationale concepisce e vede la vita come un viaggio. Ed Evaristo all’interno della sua paradigmatica esperienza artistica unisce alla realtà contingente e fluttuante la sua espressione poetica del viaggio dell’uomo sulla terra; indulge con rassegnata amarezza alle vicissitudini delle intenzioni umane, agli aspetti significativi della dinamica fornita dalle cangianti esperienze umane, che il Poeta imprime in una miriade di forme, che come artista forgia e trasmette mediante il proprio, inconfondibile alfabeto. La complessa e articolata opera di Evaristo parla all’uomo dell’uomo, del mondo, dell’universo, del possibile, dell’impossibile, del fantastico, dell’immaginario, dell’assurdo dominio degli strumenti tecnologici, non a caso relegati nelle tre liriche di Web, la sesta e ultima sezione del volume. Tutte queste sfaccettature concorrono a modellare il modo personale di percepire la realtà, che sfocia necessariamente nella nostra identità, nel nostro comportamento.

L’esperienza assiologica della silloge, oltre a essere descritta, e giustamente, una silloge, si può meritamente inserire come un viaggio, un’esplorazione dei variegati territori della psicologia del linguaggio e del mondo poetico dettata e sospinta dall’intento obiettivo di trovare intelligenza, di contribuire a svelarne l’enigma e dalla convinzione che la letteratura rappresenti un valore, anzi uno dei valori più alti dell’esistenza, offrire un antidoto al presente travagliato e confuso. Questo aspetto fondamentale della Poesia è presente già nell’Epopea di Gilgameš, negli Inni di Enheduanna, nei Poemi omerici, nella produzione poetica ebraica, greca e latina, e continua con alterne vicende in quella contemporanea. È questa realtà metasensibile, che permette la comprensione delle proprie possibilità espressive, cognitive, immaginative e col suo rigoglio concorre a mantenerla, perpetuarla, avvalorarla.

L’indagine sulla psicologia della letteratura, e la silloge di Evaristo orienta in questo senso, si salda e permette di scoprire e di penetrare nel meraviglioso e sovente incomprensibile strumento ottico, che Evaristo adopera e offre al lettore perché gli consenta di scernere ciò, che forse, senza questo libro, non avrebbe potuto intravedere sia nel suo conscio, sia, e soprattutto, nel suo inconscio; gli mostra come usarlo per scoprire il vasto e ricco bacino minerario con la sua estensione sconfinata e disparata di giacimenti preziosi, cui il Poeta per primo attinge per la creazione e la realizzazione del proprio mondo poetico e artistico.

All’attento lettore, mentre si aggira curioso tra le pagine della silloge, non manca certo lo strumento atto a suscitare e a rinvigorire in sé l’interesse per il fenomeno letterario e per i meccanismi dai quali è regolato; a proporgli elementi di conoscenza di quel particolare tipo, che dei componimenti scandaglia tutti i codici, consci e inconsci, per rimuovere tutti i tabù costituiti dal sesso, dalla classe, dalla religione, dalla cultura dominante. In questo caso particolare Evaristo autorizza il lettore a identificare, a misurare, a esaminare alla luce dei canoni acquisiti le proprie elaborazioni cognitive, i propri emungimenti, i propri dreni emungitori.

Un aspetto particolare della silloge, come hanno certo emunto i più accorti intenditori di Poesia, è la relazione particolare che Evaristo instaura col lettore, che si accinge a prendere in considerazione una sua lirica qualsiasi. Lettore-testo è un binomio inscindibile che l’Autore ha costantemente presente, perché, consapevole del potere paideutico della Poesia, prende necessariamente le mosse da considerazioni riguardanti in particolar modo gli aspetti intellettivi, la natura delle rappresentazioni mentali, i processi semiologici e semeiotici, i meccanismi strutturali, le strategie implicate nel dettato poetico e nella sua comprensione in senso tanto orizzontale, quanto verticale, che, in certo qual senso, coincide col ricordo e la piena fruizione del testo.

Sotto questo ambito particolare, nell’affrontare la lettura del libro, l’ego cogitans si imbatte subito nell’aspetto paideutico, linguistico e psicologico, mentre nel suo conscio definisce all’interno della lirica l’estensione sintagmatica con una netta tmesi tra significato e significante. Le ragioni, per le quali Evaristo riversa le sue idee in lasse di varia lunghezza e accuratamente strutturate, sono da ricercare nella meticolosa organizzazione non solo di tipo logico e di coerenza, ma talvolta anche in criteri prettamente autonomi, che esulano dalla perversa logica tendente ad assecondare le aspettative del lettore soprattutto sprovveduto.

L’estensione della lassa, talvolta solo d’un verso o due, mediante un serrato ritmo interno, dato da sequenze polimetriche, da assonanze a distanza, da parallelismi, da fluttuazioni di tono e giustapposizioni di raro effetto semantico, produce nel subconscio del lettore da un lato un senso di quiete, dall’altro, mentre la riflessione richiede risposte sempre più appaganti, un senso di smarrimento e di paura. Nel procedimento creativo Evaristo non si attiene a una precisa definizione strofica in senso classico, ma tende a un non sempre ben delineato e definito aspetto psicologico, che, per la sua compiuta indeterminatezza, ingenera moti psichici e spirituali circoscritti in ambiti puramente sensitivi e, non di rado, sensoriali. Definire la peculiarità della lassa nella silloge, individuare asfittiche tipologie tràdite da obsoleti manuali, tracciare la genesi di ciascuna, conduce allo svilimento d’un dettato poetico che si innerva spesso nell’apparente e nell’illusoria frammentarietà.

Mediante questo sistema, mutuato dalla continua ricerca stilistico-fonologica, Evaristo sottolinea vigorosamente la necessità di trattare in ciascuna lirica tanto i problemi della produzione del linguaggio quanto quelli inerenti alla percezione del linguaggio. L’apparente dicotomia si salda in un assolo monocromatico di potente impatto psicologico e profonde nella tenue sfumatura delle note un’accattivante e feconda policromia.

I dati percettivi, che si emungono dalla continua variazione cromatica, vivificano dall’interno la specificità del testo letterario e, eludendo le deviazioni attese dal lettore, ingloba l’ego cogitans e lo convoglia verso una sintesi paradigmatica sottesa al testo poetico, perché colga, in questo modo, il messaggio frammentato nelle relazioni tra i diversi assi del linguaggio.

Nell’esame d’una qualsiasi lirica è dato di cogliere le diverse deviazioni da una prospettiva psicofisiologica, che, pur parte integrante della struttura, richiama alla mente l’estetica dell’alterazione, che, si badi bene, non significa assolutamente frammentazione dell’asse narrativo. Nel miracolo dell’arte si verificano e coincidono i costrutti formulati da Jakobson con le analoghe teorizzazioni di Barthes, che incastonati nella struttura lirica producono a un tempo il voluto e ricercato effetto estetico funzionale e l’effetto estetico formale.

L’effetto estetico funzionale, elemento basilare dell’esperienza estetica, si verifica quando la sequenza normale delle parole, e parallelamente i significati associati normalmente evocati, sono fratti da una parola che costituisce un’intrusione rispetto alle normali associazioni. L’effetto estetico formale, invece, è dato dalla relazione intercorrente tra rima e semantica, o tra asse fonetico o asse semantico, e si riferisce al fatto che, quando le parole rimano, il normale significato viene, per così dire, turbato dalla sovrapposizione degli assi del linguaggio e della narrazione.

Nella silloge Evaristo ricorre di frequente a questa tecnica, come si evince dalla lirica a pag. 14:


              Non è così male se ci sorprende

              con l’evento ormai inaspettato

              con la felicità data al soldato

              dalla guerra finita, abbandonato

              il fucile, ora che la vita ci offre

              uno specchio nuovo, il ritorno della

              purezza, perché bellezza vera

              penetra nel cuore senza riserve

              semplicemente penetra.


In questa breve pericope il lettore individua a colpo d’occhio l’efficace uso della rima tanto in fin di verso, quanto all’interno del medesimo verso o con l’inizio d’un verso con la chiusa del successivo. L’effetto lirico-semantico, che emerge e avvolge nel suo ritmo ora pacato, ora più mosso, costituisce l’asse portante d’un pensiero, che non poteva essere veicolato in altro modo. E credo sia superfluo dire che la diversità del carattere, non presente nel teso, serve a richiamare l’attenzione del lettore su questo particolare aspetto.

In questa breve nota non si può non segnalare al lettore l’efficace uso del poliptoto nella brevissima lirica, quasi epigramma, di pag. 16:


              Succede pure che a volte sogniamo

              per giorni e giorni, forse anche per mesi.

              Sembriamo sogni sognati da svegli,

              poi ci svegliamo e ci rendiamo conto

              che erano veri.


In questa manciatina di versi, però, colpisce anche, e soprattutto la rima, che lega strettamente i pur distanziati lessemi e conferisce un’inattesa e inaspettata facies lirico-semantica al secondo sintagma: sembriamo, svegliamo, rendiamo col naturale accento sulla penultima sillaba sembrano e, immancabilmente, richiamano i rintocchi funebri d’una campana. L’omoteleuto dei tre verbi, scientemente adoperati, smorzano il ritmo giambico, perché il lettore indugi un po’ più a lungo su quello spondaico. Credo che a nessun lettore, seppur distratto, sfugga l’adonio, che, confortato dalla sinalefe, chiude i quattro endecasillabi. Gli stretti vincigli con la metrica classica sono evidenti: sarebbe una splendida strofa saffica classicamente intesa, se gli endecasillabi fossero tre. Ma l’Arte, classicamente intesa, non soggiace a rigide regole precostituite.

Un particolare e insolito uso della rima è offerto dal carme di pag. 23:


              Vorrei capire perché dalla siepe

              si espande questo ronzio d’api

              come impazzite volano in un canto

              lirico quasi un pianto d’amore.

 

              Lentamente scorrono le ore gonfie

              di sole e di primavera, diffondono

              coraggio e mi trascino fino a sera.

 

              L’anima riemerge in superficie

              è visibile ora quasi inafferrabile,

              so bene: ha la consistenza di un fiore.


Oltre alla rima, così efficace sebbene distanziata, un ruolo di particolare impatto emotivo e logico-semantico è dato dai lessemi sdruccioli: gonfie, diffondono, coraggio, superficie, visibile, inafferrabile sembrano dilatare all’infinito il tempo e lo spazio, e con questi l’animo del lettore, che si lascia cullare ora dal ritmo piano di barcarola, ora destare da quello veloce sdrucciolo-anapestico, frenato dall’enjambement fortemente avvertito a livello psicologico. Non si passi a piè pari sulla studiata rima, ricorrente anche in altri carmi canto - pianto della prima strofa. Questa, costituita da lessemi piani, che invitano al raccoglimento e alla meditazione, seguono le strofe successive, costituite, per lo più da agili lessemi sdruccioli, collocati tanto all’interno, quanto alla fine del verso.

Nella silloge, come il lettore si è accorto, il lessema di uso più frequente è amore, che, sebbene usato sei volte, non sempre è foriero di pruriginosa sensualità, che prorompe con sanguigna potenza nella seconda strofa della lirica, a pag. 17:


              E il tepore di maggio esplode nella

              stratosfera del soffitto colore

              bianco celeste di quella marina

              artificiale senza schiuma, senza

              onde, adesso che il sogno sosta sulle

              spiagge dell’Eden, i suoi passi sopra

              al cuore. Coglieremo un solo frutto

              dai rami vivi del bene e del male

              e ci riscatterà la fantasia.


Quest’ampia e bene articolata pericope, pregna di metafore, parla da sé e ogni parola aggiunta appare inutile chiosa. Si lascia all’immaginazione del lettore cogliere il senso profondo, che anima ogni singolo lessema, ogni singolo verso, tutta la strofa. Il tempo fugge, come canta Virgilio nelle Georgiche, fugge irreparabile, inarrestabile. Evaristo, e ne sono certo, oltre al poeta mantovano, ha tenuto certamente presente Petrarca dei Trionfi e del Canzoniere, nonché il Foscolo Dei sepolcri. Le allusioni, nella loro vitalità e nella dolorosa e rassegnata riflessione sul decadimento della vigoria, riportano più direttamente a Petrarca, e propongono con pacata meditazione la stasi fisica e fisiologica, che naturale subentra all’esuberante baldanza della giovinezza. E l’uomo, nella necessaria riflessione sull’avanzamento degli anni, avverte con dolore la fine ormai prossima, ineludibile. In questi momenti unico conforto sovviene la fantasia, che nella giovinezza realizzava i propositi e nell’età avanzata diviene rimpianto e per quanto lasciato e per quanto non si può più realizzare. L’amaro endecasillabo di chiusura si sente spesso su quanti sono sull’orlo del precipizio, in attesa del trapasso. All’avvicinarsi dell’ora fatale, come scrive a pag. 66, tutti temono di


              Essere cancellati, depennati,

              espunti, cassati soppressi, tolti,

              abrasi, elisi, estinti, ecco ciò

              che capita nell’ignominia

              del dubbio, del cercare di capire.


L’uomo è per natura ens rationale e proprio per questa facoltà insita nel suo ens vivens e rafforzata dalla quotidiana esperienza crede fermamente di capire tutto, d’essere immotale, soprattutto nella giovinezza. Quando, però, si trova davanti all’ineluttabile conclusione del viaggio terreno e al buio che si schiude sul nuovo viaggio, se non è sorretto dalla certezza che l’anima è immortale, le incertezze si affacciano e avanzano con violenza, si apre il baratro della disperazione, magistralmente espressa nella climax, sapientemente distribuita nei primi tre versi con verbi, che esprimono tutti, con lievi sfumature semantiche, il medesimo concetto, il medesimo risultato. Il Poeta, però, se ha dato ampio risalto all’aspetto negativo della morte con l’affastellamento di ben nove participi, che sembrano altrettanti rintocchi funebri, suscitati e alimentati dal dubbio, nella terza strofa, propone alla riflessione del lettore che


              Niente merita preoccupazione

              tutto accade nel ventre della Natura.

              La nostra è solo estensione della

              res finita così nel contingente.

              Apparteniamo all’Assoluto e a lui

              ci riuniremo con l’intelletto

              che si libra nella sua perfezione,

              Lui che non condanna né perdona.


La pericope, pervasa di fede sincera, è una costruttiva e pregnante meditazione filosofica sulla realtà che attende l’uomo dopo il trapasso, perché continua a vivere nella Natura, cioè in Dio, esattamente come prima, anche se in aspetto e dimensione diversi. L’uomo nella definizione filosofica medievale è res finita, vale a dire un essere nella pienezza delle sue funzioni, ma circoscritta nei suoi limiti e temporali e spaziali. Nella pericope, però, la res non è finita, ma precipitata nel contingente, relegata con tutto quanto la circonda nell’eracliteo panta rei. Evaristo ripercorre la travolgente pericope foscoliana:


                   e una forza operosa le affatica

di moto in moto; e l’uomo e le sue tombe

e l’estreme sembianze e le reliquie

della terra e del ciel traveste il tempo,


e nel lessema contingente, ormai spoglio della connotazione filosofico-meccanicistica, convoglia l’essenza del credo cristiano, riverbero pregnante di fiat voluntas tua. Il contingente, allora, diviene ancora di salvezza, certezza che con la morte la vita non finisce per sempre, ma cambia stato: da terrena e mortale, diviene spirituale e immortale, perché l’anima appartiene all’Assoluto, e l’Assoluto è immortale ed eterno. È il pregnante sintagma vita mutatur, non tollitur. Nella dimensione spirituale, a contatto con l’Assoluto, si libra, vive solo nella sua perfezione, là dove Dio né condanna né perdona. È la fede pura di cattolico convinto, che avverte sempre più pesante l’ingombrante fardello della carne, in attesa della liberazione. Questo concetto, molto dibattuto sotto l’aspetto filosofico e teologico soprattutto negli ultimi tempi, anche se mai esplicitamente accennato, si presenta in tutto il suo vigore e rivela l’intima aspirazione dell’ego meditans del Poeta su una realtà metafisica sempre più vicina. L’intima aspirazione dell’ego si dipana in rivoli scroscianti, che alimentano e dànno vigore all’intima speranza nell’immortalità, come emerge dall’anaptitico endecasillabo siamo tutti salvi e senza difetto, collocato come lassa a sé, a conclusione della lirica.

Dalla pur affrettata lettura della silloge emerge uno schema ontologico ben pianificato, che costituisce lo sfondo vero e proprio della lirica più matura e guida lo svolgimento della poesia in modo che esso stesso diventi costruttivo e pregnante processo ontologico. Tale schema balza evidente, perché in diverse liriche ricorrono i medesimi atti fondamentali, che conferiscono ai motivi, ai lessemi, ai sintagmi, a intere pericopi immagini sempre più semplici unite all’eterea dimensione che sfuma impercettibilmente nella rarefatta atmosfera della più pura e genuina spiritualità. L’assoluta originalità di Evaristo, insieme con la cristallina fede nell’Assoluto, consiste nel conferire alle esperienze fondamentali della modernità un indirizzo, che coincide con non pochi passi del vangelo. Esperienze, passioni, fallimenti, tensioni psicologiche e altri motivi contingenti non privi di incoerenza e di tentennamenti si fondono nella tramatura ontologica dell’ego cogitans e con la loro affascinante misteriosità costituiscono l’humus della lirica ontologicamente intesa.

 

   

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