Gianni Caccia, Bianco come l'amore (racconto)
Proprio davanti a questa foce, se si va dritti sul mare con il vento di settentrione,
si stende un’isola che alcuni chiamano l’isola di Achille, altri Corsa di Achille,
altri ancora, per via del suo colore, Leuke.
Arriano, Periplo del Ponto Eusino
La bruma sottile sale dall’acqua, bianca avvolge piano piano la spiaggia, la selva dov’è la nostra dimora, i nostri due simulacri, l’isola. Da sempre qui tutto è nel bianco, perfino il verde degli alberi, l’azzurro dell’acqua che confina col cielo ne trasudano, tutto, dopo brevi attimi di colore termina nel bianco.
Da sempre è così, o almeno da quando un qualche dio mi ha confinato in quest’isola che mi è stata data in premio dopo la vita, a godere come larva di ciò che mi era stato negato, ciò che mi ero negato nel giorno: non più il bagliore corrusco di punte e il cozzo di ossa e ferro, non più il rosso grumoso che infettava membra, armi, suolo, ma il bianco dell’eterno dove ogni colore fluisce, diluendosi nella liquida dolcezza dell’amore.
No, non è l’isola il premio che mai avrei pensato. È lei: si è fatta presso di me, qui sulla musica della risacca prima che potessi avvertirla, mi è apparsa all’improvviso come una dea dal cielo nel suo silenzio bianco, il silenzio di sempre qui attorno. L’avevo vista, a volte, tra i lampi della mischia, ma non l’avevo pensata. Lei, la distruttrice dicevano, membra bianche che salivano gli spalti come falce di luna. Oltre per me, altro piuttosto, l’altro che avevo scelto di non essere. Ero l’uomo, l’eroe, da me si aspettavano che dipendessero le sorti della contesa, che fossi il peso messo a spezzare l’equilibrio di anni e anni di vana immobilità sotto mura impietose. Come avrei potuto dunque pensarla, io votato alla gioia di membra che misuravano altre membra, alle armi che s’incrociavano cupe come un tuono di minaccia, alla bava che schiumava nello sforzo di prevalere, al sangue che sgorgava da viscere infrante e riempiva sconciamente le loro bocche, godendo di facce che mordevano la sete della polvere, di corpi che schiantavano al suolo con greve inclinare di ginocchia come alberi svelti da ascia impietosa, io che volevano eroe della mischia, come avrei potuto averla? Due opposti che parevano incongiungibili, la durezza d’asta di faggio e il molle peplo, bianco come le carni che cela e scopre, dove s’abbandonano bianche dolcezze e trovano la loro quiete.
E invece, come il punto dopo aver percorso un’orbita torna al suo inizio, quei due opposti si sono congiunti, si sono fatti uno nel bianco di due larve che abitano l’isola dove tutto finisce nel non colore che è tutti gli altri. Non poteva accadere, prima, finché fossi stato l’uomo da cui si aspettavano che dipendessero le sorti della contesa. L’avevo intravista, talvolta, tra i lampi coruschi della mischia come cosa estranea, e mai l’avevo pensata se non confusa ad altre forme tra le larve del sonno, larve come io e lei ora, quando si credono abbracci di carne e altra contesa si illude; ma nel giorno no, sotto il sole di pietra corazze e lance erano lance e corazze che barbagliavano, le creste degli elmi muovevano al più piccolo alito e le grida erano sfida di armi e giunture, ferite e morte, sangue che nutriva di piacere la mia spada perché accumulassi onore su onore, dono su dono, finché fosse vita. Lei no, era fuori della mischia, a osservare da qualche torre che cosa si faceva per la sua forma, indifferente all’esito, forse già larva com’è ora nel mio dono, o al riparo di qualche casa entro le mura, dove l’eco di grida e urti giungeva come lieve tintinnio di una brocca appena percossa da dita leggere, bianche.
Ma infine ho capito. Ho capito lo sbocco cui portava quell’affannarsi di anni e anni per una forma di donna, quel patire per lei le veglie, la polvere, l’arsura del sangue, quel protendere a schermo o ad offesa per dover essere il primo, quell’accumulare onore su onore, morte su morte. Per lei che sarebbe stata lontana fino al termine della contesa, quando l’avremmo tratta forse dal fumo delle rovine per ricondurla, indifferente ancora, da dove si era lasciata prendere. Ho capito quanto poco il premio del sangue inferto e delle bocche che baciavano il suolo, istante di un battito d’ali, larva non meno dei corpi che credevo di prendere in sogno, non meno di me e lei, su quest’isola di bruma; quanto poco la fama per chi è destinato ad ossa e polvere come i tanti mandati a giacere, anche se il corpo non è pasto di cani e uccelli ma un tumulo lo ricopre a memoria onorata. Ho rifiutato di dover essere il primo, il peso aggiunto perché il piatto inclinasse a vittoria; ho rifiutato, d’improvviso come un colpo di lancia che giunge alle reni sciogliendo le ginocchia alla necessità dell’Ade.
E allora l’ho pensata. Nel calore del giorno, nella febbre del desiderio che piegava il ventre come ferita mortale, là nella sete della mia tenda: la donna che sarebbe sempre stata, bianco di membra che si arrendono senza contesa, cinto che scioglie una rocca cedevole. Altri amori, la schiava di guerra, il lampo che acceca un attimo prima che torni notte, l’alba che dopo breve inganno di luce si rituffa nell’Oceano, effimero del nulla al confronto. Così ho scelto l’altra strada, la strada all’improvviso presente dopo che l’avevo creduta impossibile, e ho offerto il calcagno alla necessità: questo il passaggio che ho dovuto per averla nella bianca infinità del dopo, ignota ai poveri abbracci di carne che si credono vita.
Lei posa accanto a me, nel silenzio del bianco qui intorno. Peplo e membra, sorriso come la spuma che copre il rifrangersi di queste onde mai vario, mai un accenno livido di gonfiore e tempesta, solo questa continua, calma nota di risacca. Bianca come la bruma che poco a poco nel giorno, se vale dire il giorno nel dopo, avvolge la spiaggia che digrada al battito delle onde, gli alberi tra i quali è la nostra dimora, l’isola.
L’isola sorge presso la foce, dove fango e palude si mescono al puro del sale e della spuma vivace a pelo dell’onda: terra e deità, attimo ed eterno cui talvolta è donata la comunanza. Naviganti hanno fatto approdo qui, non ci hanno visto, difesi dal bianco. Confortati da una qualche fama ci hanno eretto due simulacri, non sapendo miseri che il loro marmo non è del bianco che è tutto, qui intorno, e l’innalzare uomini al cielo è sempre vita, il breve impasto di carne e sangue che si tenta di scordare facendolo dio. Nulla di questo in me, è stata la scelta a farmi dio senza il bisogno di un marmo, di una memoria: perché non è più memoria nel dopo, il bianco da accogliere quando ancora si è della vita perché si tenga eterno il dono che non vale contesa.
Non so di lei, lei non ha scelto, mi è stata data, semplicemente. Forse sin dall’inizio era in palio, consapevole di questa sua necessità vi si è adattata come veste che aderisce perfetta alle pieghe del corpo. E per questo premio uomini si sono accalcati, disfatti nella mischia, si sono mandati l’un l’altro nella polvere senza comprendere il premio, cos’era; che doveva farsi la scelta, la rinuncia per tenerlo nel dopo, quando fossero cessate grida vane e contese di un giorno.
Ancora, talvolta, mi prende l’illusione di essere carne, di godere di lei come in vita, di sentire ancora l’ansito, il cuore che vibra come un timpano percosso a follia, i gemiti rochi e strozzati, e poi l’affanno che scema, il rivolo che cola dal labbro a pienezza, il cuore che tumultua nello sforzo e pian piano s’acqueta, il riposo. Ma non siamo che larve, quello era della vita che ho rigettato da me: qui è solo sorrisi di spuma che carezza la sabbia e subito si ritrae, nudità leggera di passi lungo la spiaggia, tra gli alberi dov’è la nostra dimora, su in alto per le rocce, se mai giungessero naviganti all’approdo. Qui è il posare accanto senza una fine, guardarsi e dirsi senza più parola che è, molle e sicuro ripetersi tra canti leggeri di uccelli e lieve tremolare di spuma, fin che la bruma arrivi ad avvolgere, per sempre ancora. Nel bianco.
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