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Chiara Murru su Cosa c'è di vero nelle città di mare" di Michela Silla


Michela Silla, Cosa c’è di vero nelle città di mare, Capire Edizioni 2024 (pp. 73)

 


Dove resta la luce: le parole delle città di mare




Nelle città di mare si respira un’aria che presagisce insieme stasi e movimento; la luce acceca e ottunde, il vento soffia, spesso tanto forte da smuovere granelli di sabbia, oggetti, pensieri nascosti.

Cosa c’è – e cosa c’è di vero – in queste città impregnate di incantesimo e malie è difficile da scoprire, ma la raccolta poetica di Michela Silla (la seconda dell’autrice, dopo Limpida a guardare, uscita nel 2022 per Transeuropa) lo suggerisce vividamente, e lo fa con parole e suoni di rara raffinatezza.

La raccolta si divide in quattro sezioni (La notte non crede alla fine, Vicino al frastuono, L’impensato, il figlio e Il cielo è fermo) e si apre con una citazione di Marina Ivanova Cvetaeva, che recita «Non candele o lampade hanno acceso il buio: ma gli occhi insonni» e che sembra voler introdurre con delicatezza il lettore nel lucore che incontrerà pagina dopo pagina.

I vocaboli relativi all’ambito semantico della luminosità spiccano infatti per frequenza; tra questi, in particolare, le 9 occorrenze di luce, di cui riporto a titolo esemplificativo la prima e l’ultima: «da quale taglio nel buio | arriva la luce?», «Viva | dove resta la luce».

Ma troviamo anche il sole («la città è campo vuoto | ferito dal sole», «quando il sole piange l’oro», «panni al sole», «a ogni passo il sole sorge | tra le fronde dei pini»), l’oro («telai d’oro», «luce dell’oro», «l’oro dell’alba»), il chiarore (della pelle – «Janas dalla pelle chiara» – e  per sinestesia, della melodia – «Non c’è buio nella via | solo la tua voce, chiara melodia» –), i lampi luminosi che squarciano il buio («Notte, estate, lampi | di luce da case intorno»); anche laddove regnano l’oscurità e la nebbia compare sempre un elemento di luce:

 

Fuori servizio il bus

la birra abbandonata

dal ragazzo apache,

la borsa zebrata;

anche l’alba

fuori servizio nella nebbia

non si sa svegliare.

Sono accese le luci di Natale.

 

 

I colori percorrono la trama lessicale delle poesie, dall’azzurro della terra e delle vene al grigio dei muri, dalla sedia gialla al bianco, che col suo candore prevale su tutto: è bianca la sabbia, la fronte, il decolletè, la tovaglia, sono bianchi i muri e le dune.

 

Protagonisti sono poi, inevitabilmente, il mare (6 occorrenze) e il vento (4 occorrenze di vento, ma anche una di controvento e due del sardo bentu), che – immancabile nelle città marittime – apre e chiude, circolarmente, la raccolta: e, primattore nella vita in riva al mare, è Maestrale, la sua personificazione («Maestrale spezza i rami», p. 7).

E tra i paesaggi di mare, naturalmente, in primo piano c’è la terra natìa dell’autrice, la Sardegna, che oltre a trapelare dalle fessure del tessuto poetico si esprime linguisticamente con inserti alloglotti, del tipo:

 

[…]

Terra che tutto ricuce

sollevando il tuono che urla in gola

divora

bentu e sali bentu e sali

terra de bentu e sali

quando il sole piange l’oro

e poi va via,

i nuraghi prendono il buio

e una folle beatitudine

sbatte contro le tempie,

sono tua.

(p. 20)

 

Ma non solo città di mare popolano lo scenario della raccolta: c’è Roma, c’è Firenze, c’è un paesaggio in continuo mutamento che l’occhio dell’autrice riesce a tramutare nel luogo del sentire, e dove il soffio del vento e l’acqua (nelle sue varie forme, compresa quella pluviale) non cessano mai di manifestarsi:

 

Madre con bambino a Roma Termini,

difendi la vita dalla pioggia,

l’orlo dei jeans bagnato.

Insegnami a soffiare piano

rifare il suono del mare.

(p. 40)

 

 

Prestiamo gli occhi al cielo

quinto mese dell’anno,

a Firenze non piove più.

Urla la primavera,

noi muti.

Scintillano

ponte ciottoli soffioni

luna chiese vino rosso.

(p. 23)

 

Anche il sentire più intimo è ritmato dalla cadenza del flutto:

 

Amore gigantesco, ti guardo

e penso a quando morirò,

non ti avrò perso

e morire andrà bene.

Ti scrivo con il mormorio dell’onda

che ride

ride d’amore,

figlio mio dell’universo.

(p. 51)

 

Come nota brillantemente Sauro Albisani nella sua Prefazione, «questo senso abbagliante di luce, questo dire tagliente come le asperità della roccia modellata dal vento e non dalle mani dello scultore, questa percezione della realtà consumata dalle onde salate […] resistano negli occhi e nella voce di Michela anche quando essa è lontana dalla sua terra e parla del presente piuttosto che dell’infanzia» (p. 7).

E infatti il prevalere della paratassi e l’insistenza dello stile nominale danno voce al sentire più profondo dell’autrice, ancorandola a un presente in cui gli istanti diventano eterni e il fugace permanente:

 

Vicolo, affacci.

Sul davanzale fiori avvizziti,

la piccola statua Ganesha

muri tutti bianchi

 occhi stanchi

di donne alle finestre

che sbattono tappeti,

stendono panni al sole;

odore di pulito e polvere

nella luce di settembre

niente vuole cominciare.

Dall’ingresso di fianco alla chiesa

prende per mano un canto.

Bambole nel chiostro

lasciate sui gradini

e dentro

 in croce

la voce che cantava.

(p. 21)

 

Il tempo verbale che prevale è il presente, che rende eterno il ricordo, come nella breve poesia di preziosa delicatezza dedicata A mio nonno:

 

La sedia gialla,

il gelsomino dalle case;

nell’ombra le mani,

piccoli fiumi di vene azzurre.

La notte non crede alla fine.

(p. 25)

 

Il passato, molto più raro, è specialmente passato prossimo («poi sei apparso | vicino al banco dei panini, | la macchinina, la mia vita | in una mano, | mi hai sorriso da lontano», p. 45) e imperfetto, un tempo che consente a ciò che è stato di continuare a verificarsi, effetto permanente della memoria poetica: «sui banchi di scuola scrivevo: | per sempre – ti guardavo, | capivi» (p 29).

Sono numerose le interrogative, spesso in ultima posizione, che consentono all’autrice di instaurare un dialogo privilegiato col lettore e di lasciare le tracce di un’eco potentissima al termine della lettura:

 

Dove sono ora le fate, | i canti di sirene, le foreste? (p. 15)

Vuoi vivere o fuggire? (p. 15)

da quale taglio nel buio | arriva la luce? (p. 17)

Sai stare tra le cose? (p. 32)

vede niente o la rosa? (p. 35)

Al mio sorriso alza lo sguardo | ricorda dove stiamo andando? (p. 37)

Ti era dovuto e non lo sapevi? (p. 41)

Poi mi tocchi, | salvo? (p. 49)

Quanto amore vuoi | per sentire che vai bene? (p. 59)

 

 

La voce poetica dell’autrice, autentica e limpida, unita al sapiente uso del lessico, dà vita a una poesia che è al contempo vivida come arte figurativa e delicata come un segreto confidato in un sussurro: rimane l’eco potentissima di un nitore persistente, là «dove resta la luce» (p. 63).

 

 



Chiara Murru è nata a Cagliari nel 1989. Vive a Firenze, dove si è laureata in Filologia Moderna. Ha conseguito il dottorato in Linguistica Storica, Linguistica Educativa e Italianistica. L'Italiano, le altre Lingue e Culture all'Università per Stranieri di Siena, dove è stata assegnista di ricerca e docente a contratto. Attualmente è ricercatrice e docente di Linguistica italiana presso l'Università eCampus. Rientrano fra i suoi interessi scientifici la lingua della critica d’arte di Roberto Longhi, il lessico della Commedia di Dante e la lingua del cibo, dal Medioevo ai giorni nostri. Ha pubblicato la monografia Tra Piero della Francesca e Caravaggio. Studio sul lessico di Roberto Longhi (FrancoAngeli, 2022).

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