Alessia Bronico, «La luna mi fa donna fino all’alba»: Lea Ferranti poetessa dell’amore
Lea Ferranti nasce a Roma sotto il segno dell’acquario nel 1919. Vive e cresce con una famiglia di artisti, padre scultore e madre pianista. Si sposta tra la Toscana, il Lazio per poi stabilirsi definitivamente nelle Marche, ad Ascoli Piceno dove risiederà sino alla morte, nel 2003.
Scrive per molti anni senza mai pubblicare. Intorno agli anni ’50 cominciano ad uscire alcune sue poesie su riviste, giungono i premi, così nel 1969 dà alla luce la sua prima raccolta Donna di mais. Ne seguiranno moltissime altre. La Ferranti è anche corrispondente di riviste importanti, collabora con pagine locali de “Il Messaggero” e de “Il resto del Carlino”, ma senza percepire denaro, una scelta personale. Non si sposerà mai, punti fermi per la donna saranno la famiglia d’origine e la poesia che occuperà tutta la sua vita. La sua scrittura è stata oggetto di attenzione di diversi critici e scrittori: Bàrberi Squarotti, Bufalino, Rao, Vizzari e altri.
Sono entrata in contatto con la poesia della Ferranti in maniera inaspettata. Un dono. La luna sul balcone: poesie dal 1973 al 2001 è l’antologia curata dal professor Luciano Roncalli Benedetti, che raccoglie il meglio delle opere della poetessa, edita da Bastogi. Una vastissima produzione che ha trovato in me una lettrice coinvolta, curiosa, interessata.
Definita poetessa del mare e dell’amore, Lea Ferranti fa di questi due aspetti temi ricorrenti ma mai ripetitivi, noiosi, logori. Lo stile è sempre sorvegliato, elegante. La parola musicale e mai casuale, pochi aggettivi usati con parsimonia e scrupolo. Tramite i suoi versi è possibile conoscere la terra picena, la magia dei territori e la magia praticata nei luoghi in tempi remoti. È possibile conoscere un mare confidente, trovare un gabbiano fedele. C’è nei suoi testi il racconto della tradizione e dell’inevitabile progresso che ha ridotto gli aspetti della cultura contadina. La tradizione e l’industrializzazione si condensano nelle sue opere attraverso la rielaborazione del Mito. Protagonista assoluta delle sue raccolte è la parola, «con la poesia non si può barare» era solita dire.
La solitudine è l’altro leitmotiv evidente nelle pagine: «inguaribile malattia» scrive Maria Pia Beani nell’introduzione al volume, che la Ferranti cerca di dominare attraverso i suoi versi lievi; è sempre un dolore composto quello della poetessa, mai esagerato, mai disperante. Lea è una donna consapevole di sé, dei propri mezzi. Loi sosteneva che la Ferranti avesse la capacità di «dare alla parola il carattere di una scelta». Da queste quasi settecento pagine traggo una lezione di stile e di coerenza, immagini forti e chiare, l’originalità del dire di cose semplici, umane in modo raffinato.
Di seguito una scelta di poesie. Buona lettura.
NEL TEMPO DI UNA VITA
Sono la goccia che incide sul travertino
la fine del giorno
fragile radice cresco tra rocce e anfratti.
Mi sono chiesta
se anche Dio sbaglia e abbia mosso i primi peccati
piangendo nel vento di primavera.
Il Paradiso non basta in un giorno di smemoratezza
e stupisco della terra che stringe tra le mani
il cielo.
Dopo aver visto guerre sole piogge e mare
chi se n’è andato come talpa
morta nella tana
non credo che io possa ancora vedere l’umanità
con occhi diversi.
Sono certa:
mi addormenterò
col succo dei papaveri spremuto
sulla bocca.
E sarà tutto ciò che io donna
potrò compiere nell’arco di una vita.
CANTO DELLE RAGAZZE FUCILATE PER RAPPRESAGLIA
Genziane sbocciano dai nostri occhi
dolcemente
per noi la luna secca nel canneto.
Quella sera tenendoci per mano
pensavamo al nostro amore
in fuga sopra un camion.
Al melo fiorito
sotto cui eravamo state baciate
e le nostre trecce sapevano di menta e di viole.
Ora
abbiamo i piedi impigliati alle radici dell’ulivo
le mani bacche di ginepro.
Vorremmo una bara tutta bianca un vestito azzurro
e sul cuore
il fiore rosso del geranio.
Cademmo
colombe prese a tradimento
precipitando veloci per un rigo di sangue
sotto l’ala.
Solo ricordo: il tempo dolcissimo dell’alba
i pioppi oltre l’orizzonte.
Poi più nulla.
Non la casa il buio delle stanze
il primo amore.
Qui cademmo ed era primavera.
*
Gli onesti e i santi camminano per la stessa strada
E mai s’incontrano –
L’erba scolora i loro passi
E vanno alla deriva sbalorditi.
FARE IL MIELE
Fare il miele
non assolve l’ape dalla puntura
e per salvare una goccia
non si può seccare il mare.
*
Nessuno esiste
per nessuno.
Pure domani dimenticheremo
i nostri volti
la nube che è goccia
nella brocca
le ceneri di un fuoco
acceso altrove.
Il palpito di ciglia
sopra noi.
*
La farfalla schiacciata dal treno
Le due ali che non si possono
rammendare nemmeno a filo d’oro.
*
L’amore è come bruciarsi in due
nello stesso tronco. Onda di luce
che piano respira e si fa autunno.
*
Si ripete sempre l’errore
di crederci felici.
*
Neanche un monolocale la
porta di legno senza campanello.
E un caffè al mattino amaro se
non c’è lo zucchero. Trecento prefiche
coi capelli
spunduti
-
i piedi asinini
sulle scale.
Una boccia di acetilene a
Farmi luce e una pelle di lepre
per il freddo.
*
Strade tagliano campi di
grano
colline spinate di verde.
Le case una linea che
accieca
.
Io guardo lontano il Vettore
innevato nel basso azzurro
del cielo.
Rifiuto il sonno fino alle
lacrime e resto a cercare parole nuove
finché l’ultimo sole in fronte
mi muore.
*
La scala a chiocciola m’è necessaria
per vedere a occhi nudi
Altair
un posto dove mai sono stata.
Le statue che respirano la
colomba che cade a vite
e si fa cirro.
(Articolo uscito il 15 settembre 2017 per il blog Finzioni)
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