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Remigio Bertolino, Qualche considerazione sul "fare" poesia

C’è un verbo in piemontese – ëmborborì – che è pressoché intraducibile, letteralmente, in italiano.

D’autunno, prima della vinificazione, le botti e i mastelli, che evidenziano la più piccola perdita, vengono riempiti d’acqua e lasciati a “stagnare” per alcuni giorni. Le doghe per effetto dell’umido si gonfiano e ritrovano la compattezza che il bottaio aveva loro dato all’origine.

In modo analogo avviene per la poesia: bisogna lasciarsi invadere da quella forza oscura che ci macera, ci angustia per giorni, finché pullula dal nostro inconscio come un’acqua di sorgiva. Sgorgando alla luce trova la giustificazione della sua forma.

La poesia può sbocciare con un primo verso che, come ricorda Rilke, è un dono degli dei.

Quel primo verso che sfolgora per una serie di circostanze favorevoli. Un ricordo suscitato dalla dolcezza di una madeleine, un volto che emerge da veli di nebbie come un’epifania, un evento doloroso che aggalla a poco a poco come una pozza d’acqua che si schiarisce dopo il temporale.

Talora, per casi misteriosi, accade il contrario. Nella mente qualcosa suggerisce un lapidario finale, qualche parola già fissata in un ritmo predestinato, in una cadenza di chiusa, di definitivo e improrogabile epilogo di un fatto esteriore od interiore.

Come spiegare tutto ciò? La genesi poetica è sempre oscura e misteriosa. Vi sono in campo forze fuori del pieno controllo dell’Io. Un universo di materia oscura che, di tanto in tanto, si lascia attraversare da un fascio di luce. Non ho altra spiegazione.

A volte, per un lungo periodo, la vena langue arida, asciutta, rinsecchita. Poi, come per un magico tocco primaverile, le gemme dormienti si spalancano e ardono di azzurro.

Ciò che non si sperava più, miracolosamente, prorompe in zampilli di parole. Quel verso, che giaceva avvolto da coltri di buio, ora brilla alla luce tremolante di una candela.

Ciò che, disperatamente, si cerca non si trova.

Ancora Rilke è maestro nel ricordarci che la poesia è attesa. Occorre predisporre l’anima come un catino che attende la misura dell’acqua che lo colmerà ed allora sarà specchio raggiante.

Mi torna alla mente l’immagine di me – adolescente – alla cerca di funghi in fitte boscaglie, in radure d’erica, in isolotti di muschio. Come un pellegrino armato di bastone, la bisaccia a tracolla, pane e acqua di sorgente per colazione.

Dove credevo di trovare costellazioni di ovoli, trovavo deserti di seccume, tra le felci, dove non speravo di veder apparire il cappello iridescente di rugiada di un porcino, mi perdevo nello stupore della ricchezza.

La poesia non va cercata, ma ritrovata. Come accade per l’eternità di Rimbaud...

In sostanza bisogna lasciarsi ëmborborì, riempire di vita, di ricordi, di bellezza, di orrore, di luce e di ombra, e dopo anni di religiosa attesa forse scoccherà la scintilla di un verso...

È uno sprofondare nelle spirali dell’anima, un affidarsi ai gorghi dei sogni, ai labirinti dell’inconscio.

La parte razionale subentra appena iniziata questa stenografia dell’anima, questo dettato di «voci» interiori. Un lungo e appassionato lavorio. Lime leopardiane, scalpelli, seghetti e asce, se il caso.

Alla poesia è più affine il levare che l’aggiungere, il giustapporre, l’espandere.

In pochi versi si condensa una situazione, in qualche strofa si racconta un amore, in tre versi i giapponesi riescono a concentrare la meraviglia della vita.

Lunga o breve, la poesia non ha che l’attimo per compiersi. Quell’attimo che è un po’ una sorta di big bang. Quando la materia costretta allo spasimo erompe, sprigiona una energia possente, irraggia un bagliore infinito su quella che era una cavità oscura e priva di vita.

* * *

Ci sono dei giorni che non si riesce a “cavare una rapa dal vaso da notte” come recita un proverbio nostrano. Si è di fronte ad un muro ostile che si frappone tra la nostra sete e l’acqua che sentiamo scorrere come in un sogno, in un murmure che ci sfugge.

Sono i giorni dai cieli plumbei, l’anima calafatata è sorda alla voci. Si aggrovigliano su se stessi i pensieri e non v’è modo di districarne i fili.

Sono i giorni in cui la famosa rapa ci guarda dal fondo del vaso di coccio come per dirci: neppure questo oggi riesce alle tue mani, figurarsi mettersi sulle tracce dell’infinito. La poesia si ritrae scontrosa nel suo guscio di lumaca invernale, la Musa si nasconde e l’eco della sua flebile voce non raggiunge le nostre orecchie interiori.

In quei giorni nefasti si può tentare di mettersi a tavolino e compitare versi come un bimbetto sui banchi di scuola. Magari a furia di sudore e spremiture di meningi, qualche verso zoppo potrebbe zampettare sulle righe descrivendo improbabili percorsi.

Ho avuto molti giorni simili.

Testardo come un mulo, procedevo sulle stanghe del foglio a tracciare parole, parole filtrate dalla mente. Erano come frutti artificiali di cera, belli esteriormente ma senza sapore, senza il miele del succo, senza la naturalezza dei colori autunnali.

Intagliavo qualche strofa con finezza di ingegno, con perizia artigianale, ma sotto quella patina rilucente, le parole avevano un suono sordo come, al tocco, le botti vuote... Le immagini erano come pietre preziose incastonate qua e là a far rilucere la povertà del vissuto, si indovinavano subito false e giustapposte.

* * *

...E poi ricordo sere uggiose di collegio con il mio quaderno di versi segreti che tenevo nascosto tra le pagine del libro di Storia per non farmi scorgere a scribacchiare inezie. “Perdi tempo” mi avrebbe scosso bruscamente l’assistente.

La poesia era nel tempo. Quando mi cercava le spalancavo l’anima. A volte la sentivo alle spalle bisbigliare assurdamente qualcosa. Versi? Ciangotii d’acque?

Mentre gli altri ragazzi scorrazzavano brandendo la gioia della libertà, io avvolto nel lungo pastrano mi lasciavo ëmborborì, riempire di sogni che filtravano come la luce invernale tra le fronde argentee dei platani.

Avevo sempre con me una cicca di matita e un foglio gualcito dove annotavo vibrazioni, moti quasi impercettibili dell’anima.

Amavo fin da bambino le parole appollaiate sulle righe, pronte a spiccare il volo. Per dove, poi?

A volte mi perdevo nel volto ceruleo di una pozzanghera ghiacciata. Sotta la lastra vitrea l’acqua era viva e gemmata di luce. Come l’acqua, mi dicevo. Pur se stretta nel vetro del ghiaccio è viva e ricorda il cielo di dove è venuta.

***

Soffrivo. Non possedevo che povertà. Una lingua, che a fatica tentavo di conquistare, mi illudeva nella dolcezza del suo ritmo cadenzato.

Ne ero ossessionato. Ero come un mendicante, vivevo di misere elemosine.

Quante poesie avrei voluto scrivere...

Le sere cadevano sonnolente su Breo. Veli di nebbie autunnali fumigavano per le viottole acciottolate,

si addensavano sulla mia anima.

“Domani, domani” mi dicevo per farmi coraggio. “Domani avrò in dono una meravigliosa visione...”

Ma i domani passavano ed io ero sempre lì, in ginocchio, a pregare, a supplicare il dono di un verso...

Giorni felici, invece, quando la musa si sedeva accanto e mi racchiudeva nelle grandi ali.

Ali? Ero in volo e spesso cadevo d’improvviso dall’altezza di una strofa... Tonfi, come di rana nel pantano.

Disponevo parole a scala sui fogli bianchi (da bambino con un fuscello scrivevo sulla neve del cortile una pagina ad ogni nevicata).

Non era la lunga scala a pioli di mio padre, quella sfida tra lui e il cielo?

Ma la scala non serviva anche per discendere nelle cisterne cieche a ripulirle delle lordure accumulate nel tempo?

TURRIS EBURNEA

Da giovane pensavo che la poesia scaturisse solo dal silenzio della torre d’avorio e vivevo in un selvatico isolamento.

La mia torre d’avorio era il fienile d’inverno o una grotta sul torrente d’estate.

Sul barcon, fienile in dialetto, ma proprio d’un vecchio barcone, aveva un po’ la forma, con assi e pali che si torcevano a contenere tutta quella marea di fieno debordante. Fissavo i lenzuoli da involto sospesi come vele gonfie di vento e pensavo di veleggiare con la prua a filo di cielo nelle lande dell’ignoto e del mistero.

Vi salivo i pomeriggi rugginosi di neve quando una malinconia indicibile mi ghermiva nelle sue braccia. Su, su, per assi traballanti, arrampicato a pioli, raggiungevo il mio barcone e mi gettavo sulle onde placide dell’erba essiccata che mi invadeva di vaporose essenze. Mi ricordava la grotta lungo il fiume dove, i pomeriggi d’estate, voltato il fieno, mi rintanavo a guardare l’acqua perdersi nei meandri dei prati. La sentivo gorgogliare sotto le chiome argentee dei salici genuflessi sull’argine, in muta contemplazione di quel fluire verso una meta lontana e misteriosa, un paradiso d’acqua e di luce.

Ora era inverno. Nel silenzio ovattato della nevicata (solo il fieno cricchiava ai miei rari movimenti) guardavo il bianco poema farsi lentamente. La poesia doveva sgorgare così semplicemente come dalle nubi di latta arrugginita i bianchi sciami delle falde.

Aspettavo.

Come si attende l’innamorata sotto un lampione e, d’improvviso, in un’ombra pare di scorgerne la sagoma nel tratto di strada dove la luce è un fioco barbaglio, così io scorgevo la musa nel velame di brume e nevischio.

Avevo con me un quaderno dalla ruvida copertina nera, un lapis che avrebbe dovuto sintonizzarsi ai moti oscillanti della nevicata...

«Consolami» la imploravo. «...Una manciata di parole...»

Ma lei non era che soffio di vento che giungeva a lambire il fieno che sporgeva dalle assi sconnesse del fienile. Non aveva parole per me, se non il sussurro dei pruni scheletriti, giù nell’aia, che il freddo spolpava e feriva nella corteccia argentea.

«Una gemma, una gemma di luce schiudi nelle mie mani vuote...»

Non c’era verso. La musa altezzosa rideva.

«Metti un po’ di sale sulla coda alle parole...» sussurrava nei vortici della nevicata prendendosi gioco di me, come si fa con i bambini.

Ma anch’io, del mio pari, mi ravvolgevo nel mantello militare e con aria di sussiego (me lo diceva mio padre che avevamo qualche goccia di sangue blu mescolato al nostro – rustico – e il mio naso uncinato mi ricordava figure araldiche di grifoni) mi chinavo sul foglio bianco. E cercavo come mio padre, all’alba, tra i carboni della stufa qualche residuo di brace per ravvivare le fiamme...

«Soffia sui carboni» diceva facendo roteare le ali di ghiaccio azzurro...

Quando la voce imperiosa di mio padre mi richiamava dal basso, di colpo, voltavo gli occhi verso l’interno del fienile, passavo sotto le travi enormi da cui penzolavano le reti dell’erba – le mie vele.

A balzi facevo il percorso inverso: dalla torre all’aia.

Giù, mi aspettava mio padre, i capelli già bianchi come la siepe dell’orto, la scure appena affilata che scintillava sulle spalle:

«Andiamo a far legna...»

Le parole scandite nell’irto dialetto di montagna mi riportavano al nostro stato di indigenza ed avevano l’effetto di un fiammifero gettato sul fieno: incendiavano le visioni turrite del mio “barcone”.

Un colpo dietro l’altro, le tacche volavano sotto il portico dove il vento s’insinuava gemendo. Quella era la musica della poesia quotidiana. Quel ritmo binario: sollevare e abbassare di colpo con tutta la forza possibile l’ascia, il ceppo che si spacca e profuma di linfa e sulle mani incominciano a fiorire le gemme dei calli.

Un bel giorno capii. La poesia era quella della musa quotidiana e dimessa che non mi sollevava alto sui vortici di nuvole e vento, lassù nella purezza di versi ineffabili, ma prosasticamente stava qua, nella fredda penombra del portico, nel ritmo dei colpi calibrati, esatti. Oltre l’arcata, le neve che cadeva, in silenzio, un bianco poema inattingibile.

Elle est retrouvéè! / Quoi? l’eternité.

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