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Annalisa Manstretta, Il verde e i suoi dintorni, AtìEditore, Milano 2017 di Salvatore Ritrovato


Se c’è una voce della poesia contemporanea impegnata da anni a recuperare un fondo di verità nella nuova attenzione verso il paesaggio, questa è Annalisa Manstretta, della quale mi piace segnalare, cogliendo l’occasione della presente nota al suo ultimo libro Il verde e i suoi dintorni (AtìEditore, Milano 2017), raccolte come La dolce manodopera (Moretti & Vitali, Milano 2006), e Il sole visto di lato (2012) e Gli ospiti delle stagioni (2015), uscite entrambe con Atì. Se non ché rispetto alle precedenti raccolte, Il verde e i suoi dintorni mi pare addirittura spiazzante: come se bucasse lo schermo (per usare un gergo televisivo). Non si tratta infatti di una raccolta, ma di un diario di passeggiate, fatte in macchina e a piedi fra i prati erbosi della campagna lombarda, la maggioranza delle quali nell’Oltrepò Pavese, dove l’autrice ha trascorso i suoi anni dall’infanzia alla prima giovinezza; un diario che rispetta luoghi e date, dal momento si svolge secondo calendario, dal 24-25 aprile 2005 al 26 dicembre 2006, e nello stesso tempo sembra mirare non a una dimensione metafisica, bensì alla sostanza profonda di quel “verde” inteso come habitat, luogo abitato e da abitare, colore della pelle del pianeta.

Vi è, in questa prospettiva della Manstretta, una lunga sapiente tradizione letteraria che va dalle ormai archetipiche Rêveries du promeneur solitaire di Rousseau a Goethe, ai poeti romantici, fino a Thoreau a Daumal, e coglie, nella sua dimestichezza con la “passeggiata d’indagine” (di cui non è vano ricordare altri interpreti più recenti, come Franco Arminio, per marcare le peculiarità della Manstretta), gli aspetti inconsueti delle cose, il loro rivelarsi lietamente, e persino drammaticamente, alla sorpresa («È incredibile quanta erba ci sia in campagna e come compaia ovunque […] Camminando appena fuori dal paese ci si meraviglia per il numero dei prati […] I miei occhi non riescono a staccarsi da tutta questa abbondanza […]», leggiamo nelle prime pagine del libro), che sprona il promeneur, con la pazienza di chi ritorna più volte a riattraversare lo stesso luogo, a guardare dentro e oltre il “verde” (quel «variar del verde» che aveva già appassionato Luciano Erba), alla ricerca del senso “religioso”, nel senso più antico e autentico della parola, di legame con la terra («Così ho pensato che il verde corrisponda a una specie di cielo terrestre, che sia il corrispettivo concreto, palpabile, dell’azzurro […] Ha questo, però, di concreto: che lo puoi cogliere, puoi stendere le mani sull’erba, camminare scalza nei prati»). Ma appunto l’apparente svagatezza del passeggiare-scrivere senza meta, che si chiami evasione dal tempo ordinario della giornata o fuga, come di chi ha lasciato dietro di sé ogni pensiero o preoccupazione e intende percorrere liberamente il sentiero che lo porta fuori dal proprio schermo lirico egocentrico, ci permette ora di comprendere quanto ancora abbiamo da imparare dalla natura e, in particolare, dalla sua forma specificamente umana di linguaggio, cioè il paesaggio, ove si voglia rispondere alla domanda che mosse Richard Mabey in Nature Cure (2005), un bel libro che la letteratura ecologica non può ignorare: «Dov’è il mio posto nel mondo? Qual è il mio ruolo? Come posso, dal punto di vista sociale, psicologico, ecologico, adattarmi?» (Natura come cura. Un viaggio fuori dalla depressione, trad. it. L. Civalleri, Einaudi, Torino 2010, p. 13).

Pertanto la Manstretta rinuncia, opportunamente, al verso ma non alla poesia, e imbocca la via di una prosa, che, invece di approdare alla “prosa d’arte”, si trattiene, fra sermo humilis e sermo mediocris, entro il perimetro circoscritto di un quaderno nato all’interno dello spazio vero (in senso geografico, prima che simbolico) dell’esistenza. Un luogo che, come tanti nel mondo, non mira a entrare nella classifica dei posti più ambiti dai turisti, ma in uno scrigno interiore che lo preserva dalle visioni manipolatrici delle sovraesposizioni mediatiche, come un messaggio chiuso nella bottiglia, protetto dal suo vetro, in alto mare, a lottare contro le correnti della storia.

*

Dintorni di Stradella

È incredibile quanta erba ci sia in campagna e come compaia ovunque. Del resto il vento, indisturbato, si sposta in questi grandi spazi e porta i semi nell’aria. Sugli orli dei marciapiedi, tra l’asfalto della strada e il bordo in granito, spuntano ciuffi di denti di cane e di altre erbe sottili, spuntano vicino ai muri, spuntano sul gradino in cemento che segna l’entrata di quasi tutte le case. Quando l’erba diventa troppa vanno a strapparla i pensionati o le anziane massaie di colline. Ricresce comunque.

Camminando appena fuori dal paese ci si meraviglia per il numero dei prati. Anzi, qui è tutto un unico prato a destra e a sinistra della strada e poi in alto fino alla cresta delle colline. L’erba segue fedelmente l’andamento del suolo che è tutto ondeggiante, eppure si prende anche la sua libertà: cresce in verticale, puntando in alto.

Ci sono prati dove la strada fa una curva e sale, crescono su un terreno che cambia costantemente, quasi impercettibilmente inclinazione; su una tale superficie il vento soffiando si sparpaglia e ogni filo d’erba sembra dondolare per conto suo nelle più varie direzioni. […]

Il verde è il colore dei grandi esperimenti sotto il sole. Dal verde emerge ed entra nella nostra mente il concetto di sfumatura.

Osservando la quantità di forme che assume e le tante sfumature non c’è colore più insofferente alla stasi. Eppure anche la stasi è contenuta nel verde, per esempio quando si guardano da lontano i boschi di latifoglie che coprono i fianchi delle colline e non si possono percepire i giochi di luce né i movimenti delle foglie. Il verde rimane a lungo quieto sotto le stelle e da millenni viene largamente illuminato dalla luna. […]

Tra Zenevredo, Rovescala, S. Maria della Versa

Un paesaggio non è uno sfondo. Non è quello che si vede da una finestra, stando fermi in un posto con un punto di vista ben preciso. Così si percepisce solo un’immagine piatta con un’illusione prospettica, è in azione la meccanicità della vista, così si formano foto­grafie e cartoline. Perciò il paesaggio è sempre stato la crux dei pittori. È una sfida da giganti il ritratto di un paesaggio su una superficie delimitata da quattro net­te cesure che, volenti o nolenti, implicano un punto di vista. È come far passare un cammello attraverso la cruna di un ago, ecco cosa significa davvero dipingere un paesaggio.

Il paesaggio ragiona. Te ne accorgi quando ci cammini dentro, però il rischio che si corre cammi­nando è quello di perdersi nei particolari secondari.

La velocità in cui il paesaggio acquista la sua fisio­nomia continuativa che lo rivela quale esso davvero è, cioè un fenomeno unitario e sorprendentemen­te sintetico, coincide con i 30-40 km/h. Meglio sa­rebbe utilizzare la bicicletta, ma non ho abbastanza fiato per pedalare almeno due ore, sulle continue salite e discese delle colline. Così vado in macchi­na, mantenendo il più possibile la velocità costante, qualche volta rallento ulteriormente.

In questo modo il paesaggio appare unitario e gran­dissimo, avvallamenti e sommità si alternano in con­tinuazione, compaiono versanti di colline per ogni dove. Ecco, ora se ne è illuminato un altro, a ore 11 davanti a me, lo illumina dritto un fascio di luce appe­na uscito da una nuvola. Sono tre colline verde-giallo chiarissimo, assomigliano al colore dei campi di riso a metà maggio e siamo in autunno, da dieci giorni è passato l’equinozio.

Faccio una curva e vedo ciò che prima avevo alle spalle. Da quel lato le colline si abbassano e spunta a tratti la pianura. Compare in ogni momento qualcosa che prima non vedevo, scompare qualcosa che era lì.

Gira e sta fermo il paesaggio. È così che lo senti ragionare, quando ne cogli contemporaneamente il muoversi e il perdurare. In modi che non si possono immaginare stando fermi si concatenano tra loro le colline, cambiando prospettiva, come si concatenano, ragionando, i pensieri nel cervello.

Quando lo riconosci come un tutt’uno, quando ti compare il suo aspetto monolitico e vastissimo – l’e­lemento più intimo di un paesaggio, il più difficile da scorgere – e ti compare con silenziosa evidenza, ti sembra impossibile non essertene mai accorta. Allo­ra ti chiedi: ma questo immenso oggetto, che non è propriamente un oggetto, che cos’è? Non fa parte del regno minerale perché ci vivono dentro troppi uomi­ni e animali, ma nemmeno del regno animale, troppe sono le erbe e i pioppi, le robinie, i vigneti e gli albe­ri da frutto, ma non è ovviamente un vegetale… che cos’è?

Mi muovo nel paesaggio, percorro le sue strade e osservo.

Qui una casa non è solo una casa, ovvero le quattro pareti, il tetto, le finestre, le porte, il piccolo giardino o il cortile di lato. No, non è solo questo. Una casa è anche quelle cinque robinie che immediatamente la precedono sulla strada, è la curva della collina che le sta dietro, è quel fosso che gira, appena fuori dal can­cello, assieme alla strada, è anche quella curva che fa la strada medesima immediatamente dopo e il prato incolto e il bordo di un vigneto. La casa è lì, quella è la sua nicchia, i dintorni immediati la costituiscono, for­mano le sue radici. Le case qui assomigliano ai grandi alberi e il cielo e il resto che si vede dalle finestre e dal cortile sono i loro rami e le loro foglie. Mi piacciono delle colline proprio queste case, le case-albero, che non si incontrano dentro i paesi, ma qua e là, incistate nel paesaggio, suoi essenziali tasselli.

Quando finalmente il paesaggio ti si presenta così, in questa brulicante unità, anche le osservazioni che fai guardando cambiano: capisci subito che ogni ele­mento che istintivamente tendi ad isolare, a porre in rilievo, diventa superfluo, invece ogni elemento che ti sfugge, perché ti appare quasi indistinto dall’insieme, diventa essenziale.

Il fatto è che il paesaggio ha acquisito una sua pre­cisa identità davanti a te e non è più sparpagliato o a forma di tante cartoline; si fa, per così dire, davanti ai tuoi occhi. Per questo, pur continuando a vedere gli innumerevoli elementi che lo compongono e i loro cambiamenti, non riesci più a comprenderne nessuno se cerchi di estrapolarlo dall’insieme. Se ci provi, per esempio con un albero particolarmente spettacolare o un rustico o una siepe carica di bacche rosse o qualche cespuglio giallo intenso di topinambour, ecco che cia­scuno perde senso. Perdono la voce, diventano insipi­di, sbiaditi, destano un’intensa pietà: non sono niente, improvvisamente, con evidenza agghiacciante, niente. O sono i calcinacci, le tegole rotte, la casa distrutta.

(1 ottobre 2005)

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