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Domenico Cipriano, L’origine, L’arcolaio, Forlì, 2017

Domenico Cipriano, L’origine, L’arcolaio, Forlì, 2017

di Salvatore Ritrovato

Quello che mi ha da sempre colpito della poesia di Domenico Cipriano è la sua versatilità, una dote non comune fra i poeti di oggi. Versatilità soprattutto formale, che non discende da una indecisione stilistica, bensì dal dubbio che la poesia non debba inseguire il verso, se mai il contrario. Rispetto a Novembre (Transeuropa, 2010) e a Il centro del mondo (Transeuropa, 2014), alcune delle più importanti raccolte di Cipriano, L’origine (L’arcolaio, Forlì, 2017) spicca per una più marcata estensione della sonorità timbrica del verso che non si appaga più di misure metrico-ritmiche fisse e regolari, ancorché chiuse, e predilige invece il taglio obliquo, sghembo, di una voce che si ferma e ricomincia proprio nel punto in cui l’immagine, quale si snoda nel verso, ad ogni ripartenza fino all’a-capo, libera ormai lo slancio lirico.

Ne deriva una “forma-testo”, per questa nuova raccolta, che non possiamo dire del tutto inedita nella poesia di Cipriano, dal momento che si apparenta, almeno nella costruzione del fraseggio, a quella della musica jazz, le cui forme compositive, di là dai differenti generi – sia qui lecito semplificare – si caratterizzano per una sviluppo della linea melodica fra sincopi ed extrasistoli, e per quella capacità propria di improvvisare di volta in volta (ed è qui il senso di libertà che esso procura) un’idea musicale. D’altronde, Domenico Cipriano, cultore di musica jazz, da molti anni è impegnato a esplorare la frontiera tra poesia e musica con varie formazioni di jazz-poetry, in particolare il progetto JPband, insieme al musicista Enzo Orefice e all’attore Enzo Marangelo, con i quali ha realizzato il CD JPband: le note richiamano versi (Abeat records, 2004). Non saprei dire quanto questa esperienza abbia influito sulla poesia di Cipriano, e non credo sia necessario in questa sede stabilirlo; senz’altro, i brani concepiti per JPband rispecchiano la costruzione di un “assolo” con note e sillabe legate tra loro, secondo un preciso sistema di rispondenze, in una nuova avvolgente forma-testo che si protende, come ora dimostra L’origine, ad accogliere il mondo nel suo «intimo inizio», ovvero con uno sguardo in grado di coglierne l’incanto “incipitario”, ancorché disposto a non sottovalutarne gli aspetti meno appariscenti, i dettagli più nascosti, e insomma a restituire la realtà (ricordi, episodi, incontri) nella sua articolata e non di rado sottovalutata complessità.

Lirica? Sì, una lirica da eseguire sulla traccia – come avverte l’autore nella Nota al testo – di brani jazz (citati in apertura alle tre sezioni) che danno il la ideale alla lettura, senza forzarne la lettera: una sorta preludio emotivo che la parola assorbirà nella sua ostinata calorosa fiducia, traducendolo in un segno orfico di salvezza («Di ogni gesto di delicatezza o gemito / scegliamo la grazia per ricondurci al mondo»).

*

Io sono

tutte le terre che ho visitato

anche se da una sola

ho preso vita.

è rimasta ferma una ferita

per ogni passo

trascinato stanco

per ogni sguardo

che non mi riconosce.

E sono tanti i segni sul mio corpo

che ha tracciato la poesia

di chi

non ha più un luogo

e chiede asilo.

*

Lei, Lucy, avrebbe avuto oggi 41 (quarantuno) anni

senza acciacchi – se la vita le fosse stata benigna –

e un lavoro giornaliero. Chissà

se avrebbe civettato col suo aspetto

impreziosendolo o trasformando le fattezze.

Frutto

di un secondo parto – dal ventre della terra –

perché comprendessimo

la nostra provenienza astrale, la trasformazione

e la memoria racchiusa nelle cose, se nascoste

dall’incedere degli anni.

La terra

restituisce a volte i suoi diamanti

per condurci in un luogo del sapere, avvolgendoci

nell’inquietudine

di provare a conservare i suoi frammenti, mentre cambia.

(25 novembre 2015)

*

Per legge fisica e per dinamica del tempo

dovrà accadere che questo sterminato fiorire di stelle

verrà a riflettersi nel vuoto oscuro

restando sottopelle. La singolarità delle parole dette

riaffiorerà – insieme ai silenzi laboriosi –

dalla polvere smossa dei deserti

con una presenza che affollerà la mente

più di ora che il respiro ci fa forza.

Un nome circonderà le soste

e i segni sulle pietre rimosse

saranno dilatati, restando ai margini dei volti.

Ci stringeremo in un più breve spazio

e violeremo la nostra segretezza

cercando l’eterno

in ogni fotogramma del ricordo

nell’indaco del cielo che si rinnova agli occhi.

*

Anche la luna rossa è andata via

scorrendo i vicoli, scovando

la faccia sonnambulocarsica dei portoni abbandonati.

Sospiri tra i fremiti ingrigiti dei rami rinsecchiti

e il vento. Lo starnuto di mezzanotte

è il rintocco atteso, poi

il resto è teso al gelo spastico

che rinfaccia il gomito e il viso elastico

drasticamente rivolto

all’ultimo goccio della bottiglia gialla.

Il rosso cherubino svilisce

tra ombre di vino e ghiaccio per la notte fioca

priva e inerme

sotto la superficie in sottovuoto

per l’anno cominciato.

Imbusto l’albero del Natale appena scorso

le cortecce dure del cartongesso già sbucciato

e l’aria freme

oltre il sottovuoto svuotato

e germi ammuffiti sul paese

rifugiati per l’ultimo del mese.

*

Si accetta la vita ricevendo il latte

e il gesto si rinnova coi pellegrini di ogni tempo

oggi con altri volti

ma con stessi tormenti e stenti di resurrezione.

Non si scordano le rose

a essere distanti giorni dalla propria lingua

se la gente accoglie ripara e nutre.

Tutte le forme e i colori

hanno valore. Il bianco che scorre dal seno nudo

mostra che non c’è vergogna e clamore nell’eternità.

Di ogni gesto di delicatezza o gemito

scegliamo la grazia per ricondurci al mondo.

*

Il calore ci riporta all’esistenza

e i corpi immobili chiedono calore

parole e gesti

anche se non daranno ritorno.

La timidezza di sentire il mondo

nel suo farsi giorno

mancherà in questa isola sospesa.

Il sole si restituisce alle galassie siderali

che si svelano

per la nostra comprensione già dissolta.

Le carezze sui muscoli indolenti sono le stesse di sempre

è lieve curarsi degli occhi chiusi

in questa distanza dalle cose.

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